Ciò che dirò in questo breve articolo scaturisce dall’ascolto di un bellissimo dibattito tra Umberto Galimberti e Marco Guzzi (che invito caldamente tutti a vedere, i file video sono facilmente scaricabili e riproducibili utilizzando windows media player o analogo programma) inserito nel ciclo di conferenze “L’Epoca delle Passioni Tristi”, tenutosi a Misano Adriatico il 25 novembre 2010. Titolo del confronto pubblico era “Il più inquietante degli ospiti: il nichilismo”, omonimo o quasi di un breve saggio di Galimberti, che ho avuto occasione di leggere un paio di anni fa, devo dire senza particolari sussulti. Senz’altro con meno passione di quanta non me ne abbia ingenerata l’ascolto del franco dibattito tra i due pensatori. Ho già fatto i miei ringraziamenti a Marco Guzzi e per suo tramite a Umberto Galimberti, per la sincerità del confronto, la acuminatezza delle idee poste in campo e – più in generale – per l’inconsueta qualità culturale della loro proposta, per cui passo oltre e condivido con voi tutti i frutti del mio ascolto, la risonanza e consonanza con alcune delle notevoli cose che in quell’occasione sono state dette.
Non voglio fare filosofia né accademia: appunto perché condivido fino in fondo l’approccio di Marco Guzzi, di un pensiero che non è forma estetica, ma sostanza di vita, pensiero “iniziatico” mosso in fondo dal desiderio di salvezza (salvarci-la-pelle, per essere più chiari), mi terrò a quelle poche questioni che mi si sono impresse, e che mi sembrano vitali, in vista di una liberazione del (mio) pensiero e della (mia) esistenza.
Punto numero uno: le interpretazioni del nichilismo di Galimberti e Guzzi divergono soprattutto su un giudizio semantico e di valore della nostra epoca: mentre Galimberti ha presentato il nichilismo come l’appannamento e quindi il collasso di una scena di mondo, di un orizzonte sensato – collasso che accade, che è sotto i nostri occhi, indipendentemente da ogni giudizio di valore sull’annuncio della morte di dio – a cui non è seguita alcuna trasmutazione di valori, se non l’avvento della Tecnica e del Mercato per loro natura atematici e afinalistici, per Marco Guzzi il nichilismo tematizzato da Nietzsche e Heidegger è in realtà il compimento di un movimento epocale, coincidente con la parabola del pensiero occidentale, di cui svela la radicale falsità a partire dalle basi su cui era progettato. Quali basi? Niente meno che la pretesa dell’Ego di porsi come fondamento assoluto della realtà. Questa pretesa è la “menzogna bimillenaria” che il nichilismo come categoria di pensiero tematica demistifica, e che coincide per Marco Guzzi con una distorsione antropologica fondamentale, letteralmente con un’ “usurpazione del centro” da parte dell’io egocentrato nei confronti del fondamento autentico. Questa distorsione ha generato una precisa scena di mondo, inautentico e bellico proprio perché fondato su questa contraddizione e questa contrapposizione. La demistificazione di questa menzogna bimillenaria non può dunque essere accolta che come una buona notizia, come la necessaria seppur dolorosa pars destruens cui far seguire una nuova pars costruens.
Punto numero due: la pars costruens. Da dove ripartire? C’è un punto del dibattito che mi ha particolarmente colpito, per gli accenti di sincerità dei relatori e perché mi sembra abbia stretto il pensiero intorno a una questione che sento davvero fondamentale. Semplifico per essere capito: ha qualche fondamento la speranza di vivere, come direbbe Heidegger, nella radicale “sprotezione”, al di là di ogni sicurezza egoica e rappresentazione tematica, in un costante abbandono all’Altro, all’Atematico, all’Ineffabile, fuori di ogni possesso concettuale, trascendendo sistematicamente il regno delle cose visibili, il mondo della parola, della rappresentazione, in una espressione il mondo delle città degli uomini, della civiltà e della ragionevolezza? In altri termini, la via che i nostri gruppi DarsiPace indicano, che coincide potremmo dire con la via di tutte le mistiche bimillenarie non solo cristiane, ma anche islamiche, ebraiche, platoniche, pitagoriche, è una via percorribile per l’uomo? Non l’Uomo si badi, ma gli uomini, quelli del nostro tempo che abitano le nostre città, noi stessi in fondo in quanto di prosaico abbiamo, noi che lavoriamo e ci affanniamo, cerchiamo sicurezza e protezione, senso e fiducia. Umberto Galimberti, incalzato dalle domande di Marco Guzzi sul perché non si decida a compiere l’ultimo passo, a seguire il consiglio dei suoi stessi maestri, ad abbandonarsi finalmente al Selbst, risponde esplicitamente (e lo ringrazio per la rara onestà della risposta): “per non finire in manicomio”. Ecco, qui la provocazione si fa forte. Possiamo rinunciare alla razionalità e alla rappresentazione e rimanere uomini? Né angeli né folli, ma uomini?
Un mio abbozzo di risposta è: si, ciò è possibile se rimaniamo fedeli alla dialettica di rivelazione e fede, pensadole secondo le categorie della teologia biblica. Così si esprime l’autore della Prima Lettera di Giovanni:
“Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita”
(1 Giovanni 1,1).
C’è una concretezza percettiva della Rivelazione cristiana, concretezza che avrebbe scandalizzato i greci (come Galimberti professa di essere), fatta di carne e sangue, di storia, di occhi che vedono e mani che toccano. E tuttavia ciò che gli occhi vedono, ciò che le mani toccano e manipolano – il Verbo della Vita – non si estingue nel campo visivo, non dilegua in semplice presenza. Il Verbo si lascia rappresentare, si manifesta cioè, produce un increspatura nel nostro campo percettivo che però ne sfonda i limiti. Quest’esperienza estetica – che attiene al campo della percezione e dunque è un fatto della rappresentazione, dell’esperienza, della realtà visibile: qualcosa che è qui nel mondo, e che quindi non ci costringe a trascenderne i limiti – attiva un traumatismo della coscienza; è cioè un “tocco fondamentale” che apre come un’apriscatole le angustie della nostra visione, ci eleva alla contemplazione, rompe ogni mondo chiuso. In un certo senso ci se-duce. Tutte le storie di conversione non hanno al nocciolo la narrazione di un evento concreto, che apre però a una lettura sin-bolica dell’esistenza?
La rivelazione ha dunque la natura e la struttura del simbolo: gode infatti di una dimensione visibile, storico-istituzionale (e si pensi al Canone scritturistico, ai Sacramenti, alla Liturgia e all’intera simbolica cristiana), che costituisce per noi la via d’accesso all’invisibile. Cos’è un simbolo? Il simbolo è anzitutto una mediazione: è cioè un termine medio tra due realtà tra loro incomponibili: storia ed eternità, ragione e Verità, parola e mistero, io e l’Altro, capace di condurre per mano l’intelligenza, facendola trascorrere dall’uno all’altro. In effetti la rivelazione, non solo la rivelazione cristiana, ma ogni manifestazione del senso, è integralmente segno, simbolo che sta per qualcosa d’altro, in cui ciò che tiene dietro alla parola detta è l’inconcettualizzabilità – l’irriducibilità al linguaggio – di una relazione all’infinitamente Altro. Un dire interiormente al detto, un’entelechia.
Dobbiamo fare molta, molta attenzione a ri-spettare questa dialettica, questa mediazione. La via alla salvezza, almeno quella iscritta nel paradigma cristiano, non è una via immediata, ma un processo iniziatico che ha un suo medio, un suo Mediatore. Mi pare ci sia una sottile insidia, una sorta di nichilismo in sordina che ancora una volta ci porterebbe a usurpare il Centro, nel pensare il momento dell’Io in Relazione – cioè il momento etico della fede, il momento della libertà, dell’auto consegna e dell’abbandono, in definitiva il momento della salvezza – fuori di questa mediazione che ci vede invece prima uditori della Parola, e solo in quanto tali “rapiti verso i cieli”. L’alternativa è un irrazionalismo molto razionalista, cioè molto egoico, che pretende di fondare l’esperienza di Dio sulla libertà umana, e non il suo contrario.
Per tornare a Galimberti: non si tratta dunque affatto di diventare pazzi, cedendo a un irrazionalismo che prende congedo da ogni determinazione e storicità, fuori dal linguaggio, dalle civiltà e dal mondo in cui per grazia siamo. Né, tanto meno, si tratta di insistere su un razionalismo fideista che per tanti secoli ha tenuto il campo della riflessione di fede, rivolgendo l’Essere in Presenza. Credo invece che sia necessario recuperare un’intelligenza e una sensibilità spirituale eminentemente simboliche: imparare a flettersi con umiltà, cioè con senso terrestre, sui frammenti di senso che la nostra esistenza ci offre, su quella messe di eventi esistenzialmente pregnanti che costellano le nostre vite, imparare a “leggere i segni”, sprofondandoci nel finito e nel visibile, lasciando anzi che sia il visibile a spingerci oltre, verso la contemplazione dell’Invisibile: ciò che ci è impedito soprattutto dalle nostre ipocrisie, più che dall’ambiguità dei segni: non era questo che Gesù rimproverava ai farisei?
Un esempio tratto dall’esperienza concreta, per intendersi meglio: chi frequenta i gruppi Darsi Pace sa che nei nostri esercizi di autoconoscimento e nelle nostre meditazioni il momento della contemplazione – il momento dell’Io in Relazione – è necessariamente un momento finale, mediato da un lungo attraversamento, punto per punto, di quella materia densa spessa e opaca che sono le nostre vite. L’illuminazione che riceviamo alla fine è direttamente proporzionale all’intensità e all’onestà di questo inabbissamento che fronteggia la vita, attraverso l’analisi dei suoi livelli mnemonici, emotivi e inconsci. Al sottoscritto è successo più di una volta di essere corretto da Marco Guzzi per aver saltato direttamente all’ultimo punto, producendo delle fiacche razionalizzazioni. Marco mi ha gradualmente insegnato a diffidare delle mie idee psichiche (in effetti, niente meno che la lezione del nichilismo novecentesco, che pure in teoria avrei dovuto già conoscere bene), e fatto sperimentare quanto ogni forzatura del processo sia in sé stessa nociva. Bisogna avere pazienza, procedere per gradi, non forzare nulla. Cedere al finito, per essere condotti all’esperienza dello Spirito. Accettare la mediazione, la struttura simbolica dell’esperienza, capace di portarci sempre più in profondo, e per larghi cerchi, verso il centro. Io dico che il lavoro dei nostri gruppi, l’analisi dell’esistenza, è essenzialmente una simbolica nella quale noi stessi siamo il primo simbolo, se accettiamo di guardarci con più onestà e meno illusioni.
In un certo senso, dobbiamo soltanto imparare ad assecondare la storia: essere docili ai suoi movimenti, lasciare che sia l’ordine del finito stesso a giungere a consumazione, passando nel suo altro. Ogni pretesa di trascendere questa contingenza è per quanto mi riguarda molto rischiosa. Puzza di cattivo platonismo, di desiderio egoico di trascendere ogni confine e ogni limite, verso una totalizzazione di sé essenzialmente narcisistica, ancora una volta riottosa, oppositiva e bellica. La figura della fuga dal mondo, col suo corteo di pulsioni di morte, nasconde un denso nocciolo di paura e rifiuto di aprirsi autenticamente all’Altro. È vero che questa scena di mondo, come ciascuno di noi, è in parte distorta, ma in parte appunto; per altra parte essa è luogo di salvezza, è il luogo che la Vita stessa ha scelto per incontrarci, riempiendone ogni intercapedine, secondo la sua divina con-discendenza. E questo pensiero è, in fondo, molto cattolico.
Carissimo Antonio, che testo! ci vuoi proprio mettere alla prova!
Grazie.
Invito tutti noi a fare un piccolo sforzo e a leggere con la dovuta attenzione queste parole, in quanto mi pare che tocchino i punti cruciali di questa fase storica ed esistenziale che viviamo.
Hai intanto centrato perfettamente le 2 visioni alternative del nichilismo che abbiamo tentato di rappresentare.
Ma il punto su cui vorrei soffermarmi è il passaggio dall’io in conversione all’io in relazione, un passaggio che stiamo approfondendo proprio in questi mesi in tutti i Gruppi.
Nel silenzio dello stato di presenza, nel vuoto di ogni rappresentazione, è un atto libero dello spirito, è l’adesione di fede alla Rivelazione di Dio in Gesù, che ci trans-loca nell’io in relazione.
E’ molto importante sottolineare questa mediazione indispensabile della Rivelazione e del nostro affidamento di ascolto alle parole di Cristo, per non cadere, come dici, in una nuova e più sottile forma di egocentrismo spirituale.
In tal senso la nostra esperienza nei Gruppi è radicalmente cristo-centrica, e differisce perciò dalle altre esperienze spirituali non cristiane, proprio in quanto lo stato fondamentale dell’io in relazione (da cui poi fiorisce la nostra Nuova Umanità cristiforme) non è altro che la coscienza umana illuminata dalla fede, trasformata dall’azione dello Spirito di Gesù.
Un grande abbraccio, e ancora grazie.
Marco
E’ necessario ACCOGLIERE riconoscenti e GRATI il presente.
Riconoscere con il cuore è gioia che UNIFICA LA MENTE nelle sue buone ragioni agite nell’innalzare UN OSANNA al Figlio: nella vita che vive.
Indifferenziato è il figlio d’uomo che nasce… concepito da altri….
Indifferenziato è colui che s’innamora degli occhi belli di una Zingara…
indifferenziato è colui che libera il proprio eros nell’arte….
bene e poi? come accade che la follia di Dio entra in noi facendoci dono di superare la pura umana della follia?
Accade come sta scritto: noi siamo al punto in cui: tutto è vano, nulla ha senso… la Maddalena cerca un corpo da imbalsamare ed i discepoli di Emmaus trascinano i loro piedi nella polvere su vie sensa senso; però hanno una caratteristica particolare: HANNO IL CORAGGIO DI PERMANERE NELLA LANDA DESERTA, il luogo della desolazione e del nulla.
Non hanno risposte, non hanno speranza, non cercano neppure più “un senso” forse Maria di Magdala è un passo avanti (… forse è per questo che fu la prima?) cerca UN CORPO non uno spirito, cerca un corpo ma DA ONORARE così come si onorano i morti.
Ebbene sia dalla Maddalena che dai discepoli di Emmaus, Gesù Risorto non è riconosciuto, se non al momento in cui lui spezza il pane (il corpo?) o chiama per nome “Maria” E POI SCOMPARE.
Scompare, se ne va da un’altra parte, lasciando però nel cuore dell’altro, un dono particolare e preziosissimo: UNA GIOIA che pare inestinguibile, analoga nel PROPRIO ALTRO DA SE’ , come l’INDIFFERENZIATO nel concepimento nell’innamoramento nell’arte…), un’ energia, un fuoco (un roveto ardente) UNO SPIRITO che va riconosciuto : LA FEDE altro non è che l’esperienza indifferenziata DELL’AMORE sperimentato, e va riconosciuta, ed agita, soprattutto AGITA.
La fede altro non è che UN DONO che necessita di essere gustato,CONOSCIUTO, riconosciuto ed agito NELLA FIDUCIA nella vita presente.
Che resta ora da fare se non: ricominciare?
Sia la Maddalena che i discepoli si ritrovano con un SENSO NUOVO DELLA VITA che è GIOIA PIENA CHE LIBERA un desiderio estremo di felicità .
UNA FOLLIA DI DIO appunto: un concepimento altro da sè ( altro dal padre e dalla madre, altro dall’innamoramento) e resta loro ancora una volta da agire un viaggio di ritorno, non già dalla morte alla vita, ma dalla vita al PARADISO TERRESTRE.
Ora tutto questo è sempre capitato, in qualsiasi era, esattamente a coloro che si son trovati a DECIDERE DI PERMANERE in una landa deserta, sgomenti lì NEL loro PRESENTE senca cercare surrogati, di alcun genere.
Secondo me il pregio di Guzzi sta nel fatto di proporre una sperimentazione, un’esperienza possibile accompagnandoci ORA nell’attraversamento dei deserti della nostra vita. Una sperimentazione di un progetto globale, proponibile a tutti, che forse andrà certamente rivisitato per metterlo a punto: ma è proprio una gran cosa.
In fondo tutto questo sproloquio si può condensare in un rigo:
IO MI FIDO DI TE perchè IO SONO TU CHE MI FAI (e si protebbe anche esemplificare graficamente in un punto UNA PERFETTA PURA COINCIDENZA )
Desidero dire ad Antonio che mi sono meditata il suo scritto con infinito piacere, applicandomi con tutta la mia BUONA VOLONTA’, poichè è veramente difficile per me comprendere; ma mi sono sentita così attratta e grandemente motivata da aver perseverato: GRAZIE VERAMENTE; e anche se io parlo come posso, dal punto che mi è accessibile, credimi SONO PROPRIO CONTENTA: grazie ancora!
Ciao a tutti
Rosella
Grazie Antonio per questo bellissima e interessantissima riflessione. Mi riprometto di rileggerlo, come merita, con più calma.
Ho ascoltato con grande coinvolgimento il dibattito Galimberti-Guzzi sul nichilismo e ho letto con grande interesse questo post e i commenti. Aggiungo questa considerazione.
In questo momento di lutto, molte delle persone, anche praticanti, che mi esprimono condoglianze, concludono dicendomi: ti riprenderai, tu hai la fede. Si esprimono come se la fede fosse qualcosa di stabile, che si possiede come si ha una casa, unP.C., un abito. Per me non è così e talvolta cerco anche di chiarirlo a me stessa e di comunicarlo. Lo stato dell’io in relazione, secondo il linguaggio guzziano, è una condizione da riconquistare ogni giorno con impegno, fatica e gioia insieme. Occorre passare attraverso la carne e il sangue della nostra vita quotidiana, sempre vigili in ogni rapporto, in ogni scelta, accettando di attraversare anche momenti di pianto e disperazione, ansia e tormento, con il sentore sempre in qualche modo presente, che non prevarranno, che il nichilismo è una via sbarrata, perché senza senso.
Troppo spesso, nella catechesi e nella pastorale ordinaria, si presenta il credere come qualcosa di facile, che risolve molti problemi vitali. E’ più facile e forse talora più gratificante non approfondire, restare nel solco della tradizione, se non dell’abitudine. Per me non è così, preferisco essere inquietata ogni giorno prima di tutto dalla parola del Vangelo, spada a doppio taglio e poi da quelle delle persone che incontro sul mio cammino di vita. Mariapia
grazie MariaPia
un abbraccio
Rosella
@Marco: son contento che questa mia riflessione si intoni al lavoro che state portando avanti nei gruppi. Si vede che, in questa fase in cui sono impossibilitato a parteciparvi, mantengo con voi tutti una sintonia sotterranea 😛
@Mariapia: è proprio come dici, la terribile serietà del credere spesso sfuma nella maschera superficiale di una fede psichica, che non impegna l’esistenza. Sono stato per anni catechista, e devo dirti che il problema più grande è passare da un livello dottrinario/ideologico (non importa se di stampo conservatore o progressista) a uno mistagogico/iniziatico.
@Rosella: è vero, bisogna saper sostare nella mondo, a volte saper cercare un corpo morto, per fare l’esperienza, come la Maddalena, del sorpassamento di ogni nostro desiderio. Però non credo che questa realtà creata sia solo desolazione, distorsione e morte: il mondo dell’esperienza è soprattutto ambiguo; ora vediamo come in uno specchio e in maniera confusa…
@Andrea: me so’ ‘mparato a postare, hai notato? e mo’ chi me ferma?
Un caro abbraccio a tutti!
Bellissimo pezzo, Antonio.
Ho visto il video, densissimo. La tua riflessione lo è altrettanto.
Trovo particolarmente stimolante la questione dei simboli, di questi tramiti fra l’io e l’alterità dell’io stesso, in fondo. La loro ambiguità, che tu ben metti in luce, è insidiosa oltre che “necessaria” (in questa dimensione terrena); e se noi li intepretiamo egoicamente potrebbero condurci in effetti persino alla follia.
Il discernimento che i gruppi insegnano e imparano risulta essenziale, e quindi tutto torna in quest’attività molteplice di darsi pace: il piano intellettivo, quello emotivo e quello mistico, per dir così.
Un abbraccio, e grazie per questa lezione di teoria e di pratica.
Enrico
Caro Enrico, rileggendo il mio articolo mi sono reso conto che riecheggiava vecchie lezioni e pensieri pensanti, già abbondantemente pensati dall’occidente. Un po’ tutta l’intelligenza medievale di matrice platonica, da Agostino a Bonaventura, passando da Alano di Lilla, aveva costruito una comprensione simbolica della realtà: “omnis mundi creatura quasi liber et pictura nobis est et speculum” (Alano di Lilla)
In generale avverto la questione della simbolica come una questione cerniera fondamentale, capace di salvaguardare i buoni diritti della realtà e insieme di non cedere di un solo passo a ogni genere di immanentismo, di natura fondamentalistica o materialistica che sia.
un autore che trovo molto stimolante in proposito, e a cui devo tanto, è Paul Ricoeur.
Ciao!
Caro Antonio,
sai, sono proprio stupita!
Ieri sera rispondendo a Domenico che mi percepiva un po’ giù di tono nel post di Gabriella, portavo a testimonianza del mio stato di pacificazione e di benessere, ciò che avevo scritto nel tuo… .
E che sarà mai?
Tranquilli! sto bene, sono lieta e questo è un buon momento per me.
Un abbraccio di cuore a tutti
Rosella
Grazie Antonio, è un testo ricchissimo che merita attenzione e mi sembra il giusto compendio dell’interessantissimo confronto in video tra Marco e Galimberti. Lo leggerò con piacere.
F.
Grazie Maria Pia, per quanto fastidioso,per me, il tuo messaggio lo trovo utile e infine confortante
Ho stampato e letto con calma questo bellissimo post. grazie, Antonio. Massimo c
Anch’io ho visto il video della conferenza di Misano e ho pure più volte riascoltato con l’mp3 (ormai diversi giorni fa)questo bellissimo dialogo. Grazie e complimenti anche ad Antonio per la sua riflessione e a tutti gli interventi seguenti.
Una piccola precisazione-domanda: Galimberti parla di menzogna bimillenaria, ma se non ho capito male Marco intendeva qualcosa di più, cioè sosteneneva che il nichilismo porta a rivelazione, smascherandola, l’illusorietà e l’ipocrisia di una civiltà occidentale ormai planetaria fondata principalmente sul pensiero razionale rappresentativo e oggettivante che germoglia nella storia ancor prima della nascita di Gesù; e che che quindi ad essere posti in giudizio non sono sono solo i due millemmi dell’era cristiana e della sua cultura. Sono incompetente e chiedo se possibile un lume.
Grazie a tutti, intervengo poco, ma appena possibile vi leggo molto e con grande piacere
Carissimo Walter, hai perfettamente ragione.
Heidegger indica nell’alba del pensiero greco l’inizio di quella dimenticanza dell’essere che noi potremmo chiamare pensiero egoico-logico.
Ma in realtà questo oscuramento è ancora più antico, forse è addirittura originario, forse cioè coincide con quella Caduta che ci ha collocati in questo mondo intrinsecamente pregno di morte e di menzogna.
In tal senso l’evento dell’Incarnazione è la vera svolta, che però è stata in gran parte interpretata ancora in senso egoico, è stato cioè, almeno in gran parte, ancora l’uomo vecchio che si è impossessato di contenuti cristiani.
Questa ambiguità OGGI viene in luce, e si apre perciò una nuova stagione della storia della salvezza.
Un abbraccio. Marco
Ciao Antonio.Ho ascoltato con grande interesse il dibattito Guzzi-Galimberti e sono rimasto affascinato dal racconto del nichilismo e dalla prospettiva di rinascita del primo.Ma mi chiedo:è possibile praticare questa via senza essere o non sentirsi cristiani?Vorrei approcciarmici ma mi mancano le categorie per comprenderlo.
Grazie.Spero che qualcuno avrà la pazienza di spiegarmi.
Caro Alberto, il cammino dei Gruppi Darsi pace è aperto a tutti, credenti o non credenti o altrimenti credenti, noi tentiamo di realizzare la verità concreta di alcuni misteri, partendo dalla condizione agnostica o a-tea dell’uomo contemporaneo. Ciao. Marco