Quando ci siamo incontrati su Skype la prima volta, non sapevo bene cosa aspettarmi da questo esperimento, nemmeno quanto sarebbe durato. Ero però sicura che stavamo per iniziare qualcosa di importante, di sicuro importante per me.
Tutto era iniziato a dicembre 2014, a seguito di un post di Iside su questo blog. L’idea era quella di creare dentro Darsi Pace uno spazio per lavorare a una guarigione-salvezza che includesse più apertamente i nostri corpi sofferenti. Questa cosa la desideravo da tempo: infatti, avevo bisogno di andare più a fondo in questo lato della mia vita e volevo farlo con chi condivideva con me non solo un’esperienza simile, ma anche lo stesso linguaggio e lo stesso orizzonte di speranza. Ci siamo così ritrovati in quattro, tutti della stessa annualità di Darsi Pace e tutti con un’esperienza personale di disabilità, anche se in forme e con gravità diverse.
Quello che stavamo per iniziare mi faceva però anche paura: temevo soprattutto l’autocommiserazione e il ripiegamento sui propri mali. Ma anche di non avere le mie solite vie di fuga davanti alla sofferenza, la mia e quella degli altri. Temevo di doverla guardare negli occhi, con tutto il suo carico di angoscia. Ero combattuta, ma non volevo tirarmi indietro.
Forse con un po’ di ingenuità siamo partiti subito affrontando il rapporto tra Dio e il male, che non a caso è l’argomento dell’ultimo intensivo dell’ultimo anno del percorso Dp. Ma era troppo presto: ascoltare le nostre dure condivisioni mi ha risvegliato delle emozioni così forti da farmi dubitare sulla mia possibilità di continuare. Tutti ne siamo rimasti un po’ scossi e allora abbiamo capito che non potevamo affrontare il tema così direttamente. Così abbiamo deciso di continuare molto più raso terra, cioè come un piccolo gruppo territoriale che condivide la stessa annualità. I nostri incontri erano telematici, vista la distanza e i nostri problemi, ma in effetti condividevamo sul serio uno stesso territorio, non geografico, ma di significato e di esperienza concreta. E potevamo farlo nello stile e con gli strumenti di Darsi Pace.
Questa formula ha funzionato meglio. Siamo andati avanti così, incontrandoci ogni mese, senza schemi rigidi, condividendo esercizi, dubbi, paure. Ma anche fiducia ed energia. E ci siamo man mano scoperti nelle reciproche potenzialità: la forza poetica di Fabio, la guida attenta e puntuale di Ennia, l’intelligenza critica e propositiva di Iside.
Fin dal primo incontro ho provato a guidare io la meditazione iniziale, con cui apriamo sempre il nostro lavoro. La prima volta è stato un mix di emozione e impaccio, tutto il contrario dell’abbandono. Ma col tempo le cose sono andate meglio: la paura ha lasciato il posto all’ascolto delle parole, quelle della traccia che mi preparavo in anticipo, e quelle che spesso arrivavano inaspettate e ci portavano in luoghi ariosi e dolci. Il fatto che ci fossero di mezzo computer, microfoni e chilometri di distanza ben presto non era più un problema.
Sono passati due anni e mezzo e posso dire che la formula su di me sta funzionando. Ho iniziato ad allentare quel pezzo di maschera che mi spinge a forzarmi, per sembrare sempre più sana e normale di quello che sono. Sto provando a parlare di questa parte della mia vita senza troppi timori e pesantezze, come qualcosa che mi limita, ma non mi annienta. Ad ogni incontro ricevo una quota in più di valore, senso e speranza. Mi sembra che tutto questo avvenga in modo molto naturale, quasi fosse un effetto collaterale del semplice fatto di ritrovarci, fare meditazione insieme, curare gli incontri e curare nel tempo la relazione tra di noi.
A pensarci bene, non stiamo facendo niente di speciale. Darsi Pace è un posto di persone sofferenti. Tutti siamo malati, anche se il nostro corpo è più o meno sano, e tutti siamo qui per cercare guarigione e salvezza. Però ci sono anche delle differenze tra vivere tutto questo in un corpo che ti sostiene oppure no. La differenza principale mi sembra questa: non possiamo illuderci o distrarci più di tanto. I limiti del nostro corpo ci ricordano continuamente che c’è in corso una dura battaglia e come soldati in prima linea vediamo da vicino i suoi reali protagonisti. La scelta da che parte stare diventa impellente e continua: a chi vuoi credere? da che parte vuoi giocare i tuoi pensieri e i tuoi desideri? Io voglio continuare a credere nella buona notizia di Cristo, nella sua salvezza che inizia a guarire già da ora tutte le parti distorte di me. Insieme ci stiamo aiutando e accompagnando lungo questa strada.
Da un po’ di tempo mi crollava nella mente un frasetta: “Darsi Pace… nella sofferenza”… Ed ecco questo post. Mi siete subito entrati nel cuore. Grazie per la vostra testimonianza.
Frullava… Non crollava
Grazie Antonietta questo tuo post mi commuove e mi sospinge ad andare avanti in quello che insieme stiamo facendo .
Lo studio dei corpi ,anche anatomico, che caratterizza la mia professione è da sempre per me una spinta alla fratellanza e all’empatia .L’esperienza in Darsi Pace dellla condivisione delle Ferite alla Luce guaritrice del Cristo mi sembra che sia la Via per un rapporto empatico di vera fratellanza che comunque piano piano ci Guarisce .
Insieme , Nudi ,pronti a sostenerci a vicenda nelle varie cadute scaldati dalla Luce del suo Amore che ci raggiunge mi sembra il piu’ bel e gioioso modo di percorrere questo Viaggio .
Ti straabbraccio
Chiara
Voglio prima di tutto ringraziarti cara Antonietta per questa condivisione e complimenti per il coraggio dimostrato. Sono disabile dall’età di cinque anni, colpito da gli ultimi colpi di coda della polio. Negli anni ’60 purtroppo non esistevano percorsi come Darsi Pace ed i miei genitori erano del tutto impreparati per un sostegno psicologico, tuttavia hanno fatto tutto il possibile ed anche di più. Ancor meno si parlava di gruppi di crescita o di condivisione, veniva curato il corpo mentre le ferite interiori rimanevano sanguinanti. Ora dopo anni di introspezione, di letture, di meditazione e di viaggi, ho recuperato le energie bloccate nel mio corpo, a causa di un immobilismo emotivo e fisico. Come dice Marco questa che stiamo vivendo è una crisi antropologica ed allo stesso tempo è entusiasmante poter contribuire alla tras-formazione delle nostre menti, al fine di poter portare come cristiani una nuova speranza nel mondo. Non siamo soli in questo cammino. Buona vita. Ti abbraccio.
Claudio
Ci incontriamo in 4 su Skype, sappiamo di poterci concedere di mostrare le nostre ferite senza suscitare ripugnanza o sottovalutazione, cioè fuga. Sappiamo di poterci permettere momenti di scoramento, perché gli altri 3 sono disposti a mettersi in ascolto. Sappiamo che l’ascolto che gli altri 3 offrono è quello di chi sta attraversando un’esperienza dello stesso tipo, seppure nella diversità personale. Perché come impariamo in DP, non è più tempo per le rappresentazioni, è tempo di iniziarsi, di attraversare il dolore nella sua portata, nel riconoscimento rispettoso e umile che gli attraversamenti non sono tutti uguali.
Siamo senz’altro tutti malati, bisognosi di guarigione, ma francamente mi sento offesa ogni volta che io o altre persone siamo oscurati e messi a tacere, dal livellamento veloce di chi non sa vedere le differenze e usa la metafora senza conoscerne la letteralità. Perché non è la stessa cosa fare l’esperienza di una caviglia slogata o essere bloccati su una sedia a rotelle per una vita. Non è la stessa cosa fare esperienza di una malattia transitoria da cui si è guariti, per quanto spaventosa possa essere, magari come il cancro, e una condizione cronica degenerativa che ti si fa presente ad ogni istante della tua vita e ti sottrae un po’ di energia ad ogni giro di orologio. Come non è la stessa cosa essere una donna keniota rapita e fatta schiava in Somalia per i quotidiani stupri di gruppo dei guerriglieri di Al-Shabaab ed essere una donna in Italia con marito affettuoso.
Certo, ognuno ha la sua storia ed è con quella che deve fare i conti. Tuttavia, il primo passo di accoglienza è quello di non negare, di non livellare le diversità, di apprezzarle invece, di mettersi umilmente in ascolto del dolore dell’altro. E quando è possibile, farsi motivo di scioglimento di quel dolore, almeno un po’, quel tanto che basta per riprendere fiato. “Guai anche a voi, dottori della legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito!” (Lc 11,46)
iside
Hai davvero ragione Iside. La realtà è che gli altri non vedono e non sentono. Non ci vedono e non ci sentono! Agli altri non gliene può fregar di meno. Sto accusando gli altri, ma ad esser sincero io stesso sono così con il prossimo. Sono forse talmente malato o semplicemente perennemente distratto da non riuscire a vedere e sentire veramente il mio prossimo.
Cara Antonietta tanto di cappello nei confronti della vostra forza, un esempio. Io frequento il primo anno di Darsi pace, e a Trevi sono rimasto impressionato dalla forza che è emersa dalla testimonianza di Fabio, che ci ha raccontato la sua storia, ho pensato che effettivamente il percorso che abbiamo intrapreso ha differentissimi e ampissimo gradi di difficoltà oggettivi, per ciascuno di noi, complimenti di nuovo. Un abbraccio. Carlo.
“Ad ogni incontro ricevo una quota in più di valore, senso e speranza”…parole che mi sembrano molto importanti un po’ per tutti ma soprattutto per chi ha un bisogno estremo di dare voce e significato al suo dolore quotidiano, che è diventato nel tempo la nota prevalente della sua vita.
Condivido in pieno i commenti di Paolo e di Iside che parlano di indifferenza sociale e di facile “livellamento” nei confronti dei vari tipi di sofferenza e di disabilita’. Non negare le diversità è il primo passo verso l’ accoglienza dell’ altro e davvero mi sembra importante ribadirlo in tempi come i nostri in cui spesso non si ha il coraggio di fare un discorso chiaro sulle priorità da affrontare, pena il rischio di risultare “politicamente scorretti”.
Un caro saluto a tutti,
mcarla
Buon giorno, condivido con Antonietta, l’esperienza che in Darsi Pace, un nuovo punto di osservazione, della propria condizione fisica, prende il suo spazio, amplia il nostro orizzonte.
Non porto nel mio corpo segni di handicap o malattie, almeno non evidenti, ma il mio corpo porta tutti i segni di una battaglia interiore, che da anni aspetta la liber-azione di un anima.
La mia maschera ha portato i suoi frutti, il mio fegato ha smaltito quintali di rabbia in-espressa, i miei reni hanno filtrato ettolitri di paura, il mio stomaco ha ricevuto ogni sorta di contenuto, anche violento che veniva dall’esterno e dall’interno, il mio intestino a transitato bocconi indigesti di tutto ciò che mi assaliva, la mia gola ha soffocato metri cubi di PAROLE non dette, ma sentite, i miei muscoli e le mie ossa, enormi pesi morali e doveri per rispondere alle esigenze della maschera.
Ora attendo con fiducia e speranza i frutti di questo Cammino di guarigione.
Ringrazio Marco e tutti quanti percorrono e testimoniano la propria esperienza, in modo particolare tutti quelli che in questo Cammino, versano lacrime per la propria sofferenza contribuendo così alla propria liberazione e liberazione del mondo.
A presto
Stefano
Scusate la pessima forma della prima frase. Problemi con la tastiera.
Cara Antonietta, hai saputo raccontare con semplicità e delicatezza , attraverso il tuo sentire personale, l’esistenza di questo piccolo gruppo e il nostro modo di sostenerci e di comunicare tra noi un mondo faticoso ma prezioso fatto di grande coraggio e di altrettanto grande dolore.
Hai colto la necessità del gruppo di “uscire all’aperto” portare al di fuori dei nostri incontri l’esperienza che stiamo vivendo per offrirla come contributo alla maturazione di Darsi Pace.
Provo ad aggiungere qualche mia riflessione.
Siamo un piccolo gruppo all’interno del movimento, un gruppo nato anche da una esperienza di fatica e di sofferenza fisica che in qualche modo ci accomuna, con l’intento di aiutarci a non correre il rischio anche qui di viverci come delle eccezioni alla regola, esclusi, inadatti anche a questo percorso
Partiamo da alcuni presupposti essenziali:
1) tutti abbiamo fondamentalmente un bisogno vitale di trovare parole capaci di esprimere il nostro mondo interiore compresa quella parte indicibile e “indecente” che riguarda la sofferenza e la malattia.
2) Abbiamo bisogno di relazioni importanti in cui sentirci amati e accolti come siamo.
3) Abbiamo bisogno di trovare guaritori.
La “guarigione” può avvenire ma solamente attraverso l’espressione del nostro mondo all’interno di una comunità che accoglie e accogliendoci ci risana, ci ridà vita.
Cerchiamo quindi un ascolto guaritore, l’ascolto in grado di partecipare empaticamente e di sostenere in questo modo la nostra ricerca di parole curatrici.
Quando sentiamo il bisogno di parlare della nostra sofferenza cerchiamo
comprensione?
Sì anche, ma forse il desiderio principale di cui non osiamo parlare, è che qualcuno ci liberi da questa sofferenza in qualsiasi modo magari con miracolo….e allora cerchiamo di parlarne ci proviamo… sappiamo che il miracolo non succederà, non quel miracolo, e questo forse ci fa un po’ arrabbiare, ma ci proviamo, non si sa mai.
Rimanendo su un piano di realtà ci accontentiamo di essere ascoltati e compresi, magari un po’ consolati, confortati dall’affetto dell’altro questo ci fa sentire meglio, meno soli, meno abbandonati in questo mondo crudele e spietato!
potremo mai comprndere veramente l’esperienza che non viviamo sulla nostra pelle?
un cordiale saluto
La prima reazione che ho avuto vedendo un post sul dolore è stata di andare oltre, scappare come bambino impaurito.
Poi ho pensato che potevo scrivere se avessi qualcosa di utile da dire, sapendo che non è certo facile.
Voglio dire che mi sono messo in ascolto del dolore e dell’esperienza di voi che vivete una condizione di limitazione anche fisica, mentre per il resto condividiamo tutti l’esperienza del dolore dei tanti nostri limiti.
Abbiamo superato la concezione sacrificale della vita, che mi sembra fosse una attitudine pseudo cristiana.
Molti si pongono di fronte al dolore col rifiuto che lo aggrava, o con la distrazione che è illusoria, o con un pensare positivo che è effimero.
Noi abbiamo la Grazia di un percorso che può risanarci in profondità.
Voglio citare Etty Hillesum, il cui diario sto centellinando pagina per pagina, e sono arrivato al giugno 1941, quando la cappa dell’occupazione nazista in Olanda comincia a stritolare la vita degli Ebrei e porta angoscia, paura e dolore.
Etty scrive:” Se mi sento depressa per queste disposizioni che ho avvertito come una minaccia plumbea che cercava di soffocarmi, non è però per le disposizioni in sè. … Non sono mai le circostanze esteriori, è sempre il sentimento interiore
– depressione, insicurezza o altro- che dà a queste circostanze un’apparenza triste o minacciosa. … Di solito le disposizioni più minacciose vanno a schiantarsi contro la mia sicurezza e fiducia interiori, e una volta risolte dentro di me, perdono molto della loro carica paurosa”.
La riflessione è vasta e difficile, ma può essere costruttiva.
GianCarlo
Trovo invece estremamente consolante, illuminante e bello il piccolo volume di Carlo Rovelli : ” Sette brevi lezioni di fisica”, specialmente l’ultima lezione. Chiarisce tutto secondo me.
Carissimi, vorrei aggiungere anch’io il mio pensiero.
La malattia fisica non impedisce la qualità della vita.
Il corpo sofferente di un malato cronico non è detto che impedisca la possibilità di avere una qualità di vita anche migliore di uno che ha un corpo totalmente funzionante. Questo è il messaggio che vorrei passasse da questo post, da questa piccola esperienza che abbiamo voluto condividere con tutti.
Certamente non è la stessa cosa avere una malattia o non averla.
Ma la qualità di vita non è totalmente determinata dal corpo ben funzionante.
Noi sperimentiamo l’importanza del lavoro personale e spirituale, che favorisce sempre una dilatazione della vita, qualunque sia la condizione di partenza.
Inoltre sperimentiamo l’importanza del tipo e dell’insieme delle relazioni in cui la nostra vita è inserita. Penso al contesto familiare, sociale, e amicale.
Certo non dobbiamo e possiamo pretendere che tutte le nostre relazioni abbiano questa intensità: ne basta una, o poche significative perché da queste si tragga il nutrimento necessario per far brillare anche resto, e così la nostra vita può diventare, nonostante tutti i limiti, un sorprendente fuoco d’artificio.
Fabio F.
Da quando ho saputo di questo piccolo laboratorio di guarigione all’interno del laboratorio Darsi pace ho atteso un post che ne raccontasse l’esperienza.
Da quando il post è stato pubblicato c’è una lotta dentro di me che mi ha trattenuto fino a questo momento dall’ intervenire, una lotta nella quale si scatenano paura, rabbia, voglia di scappare, di urlare, di attaccare, di criticare, di far male, emozioni negative mescolate a senso di colpa.
Il dolore e la malattia mi fanno sprofondare nella disperazione e la rabbia che mi abita (ora lo vedo in modo più nitido ) è anche un grido che chiede vita piena, salvezza, verità di una promessa.
Sono consapevole che gli attraversamenti del dolore sono diversi, imparare a guardare in faccia il dolore e a condividerlo mi aiuta ad uscire dall’ isolamento, apre nuove possibilità di lotta contro il male, e nella fede del Figlio mi fa sentire un solo corpo, un corpo che pur sfigurato dal male e dal dolore ha la forza di trasfigurarsi.
E’ ciò che sperimento in questo laboratorio nel quale la vostra presenza cari Antonietta, Iside, Ennia e Fabio è testimonianza di umiltà, di coraggio e di fede.
Avervi conosciuto e camminare insieme a voi è dono prezioso per il quale dire grazie ogni giorno.
Giuliana
Ciao Antonietta e tutte,i.
Trovo sia una bella bella cosa il vostro gruppo di lavoro, nel sostenervi l’un l’altra, nel condividere.
Ho sempre ammirato il coraggio delle persone, di tutte le età, che affrontano con dignità una gravità in malattia, soprattutto quando la prova di vita si indurisce nel non trovare guarigione fisica.
Mi rendo conto che mentre ho un corpo in salute non posso riuscire a toccare fino in fondo un dolore altrui, non sta accadendo nel mio corpo.
Rispettare il dolore, invece sì, posso. Senza riserve né condizioni.
Pure la mia salute fisica non è cosa scontata, in qualsiasi attimo potrei perderla, come accaduto molte volte, oppure, all’improvviso morire e, anche per questa consapevolezza; rispetto ogni dolore umano, il mio compreso. Ed –ogni- dolore, perché, altrimenti, come “quantificarlo” ? ogni sofferenza umana è tale. Sappiamo che anche il dolore dell’anima non scherza, e quasi sempre anch’esso si ripercuote a livello fisico in modi a volte anche molto debilitanti. Come si fa per esempio a comprendere un giovane che in piena salute fisica, soffre talmente, da riuscire ad uccidersi?
Il male mio e altrui, almeno fino ad oggi, non mi ha mai provocato né ribrezzo, né fuga, nè senso di indecenza e neppure voglia di emarginare o emarginarmi.
Solo, quello sì, ho provato e provo: un grande senso d’impotenza ed un altrettanto grande dispiacere conseguente e pure, anche tante domande che rimangono aperte.
Leggere lo scritto di Antonietta è un po’ come leggere una pagina di diario, intimo, in cui desideri, paure, gioie e speranze trovano il loro spazio libero.
Trovo che nei vostri incontri siate accomunati dalla –solidarietà- e mi sembra di coglierlo in ogni vostro commento e questa bella cosa, cioè la solidarietà, sarebbe un dono l’un per l’altro in qualsiasi comunità o gruppo d’incontro che sia.
Nei punti specifici che Ennia ha sottolineato “… tutti abbiamo fondamentalmente un bisogno vitale di trovare parole capaci di esprimere il nostro mondo interiore … “Abbiamo bisogno di relazioni importanti in cui sentirci amati e accolti come siamo. … Abbiamo bisogno di trovare guaritori.”
Sono le stesse cose che pur avendo un corpo funzionante, cerco anch’io, a volte disperatamente, per quello dico: nelle nostre profondità cerchiamo tutti le stesse cose. Tutto il resto, a mio vedere, è un’esperienza umana terrestre che ci è toccata in quanto percorso unico, individuale, strettamente personale e trovo vere le belle parole di Fabio, solidali per ognuno e, vi Ringrazio e saluto affettuosamente, Barbara
Carissimi,
Desidero ringraziare tutti per la partecipazione e i commenti.
Il tema di questo post non ammette nessun tipo di riduzione o conclusione, dobbiamo per forza lasciarci così, con questa polifonia di voci… che però ci rende tutti in qualche modo più vicini.
Vi saluto con affetto
Antonietta