Indubbiamente, un fisico che conosce il suo mestiere, e che dimostra altresì una invidiabile capacità di divulgazione. Di tradurre, cioè, la ricerca in racconto. A scanso di equivoci, dico subito che la notevole diffusione mediatica delle Sette brevi lezioni di fisica di Carlo Rovelli è – a mio avviso – ampiamente meritata. Queste brevi lezioni hanno difatti il fascino non trascurabile di condurre il lettore dentro un viaggio mirabolante: un viaggio che parte dai rudimenti più elementari (e fondamentali) del metodo scientifico come tale, per giungere in maniera intrepida ma (per quanto possibile in un testo che prescinde dalle formulazioni matematiche) rigorosa e fondata a lambire le frontiere più estreme ed avanzate di quella che reputiamo essere la nostra conoscenza del mondo fisico, adesso.
E non solo. Viene affrontato anche il problema della coscienza, certo non in maniera completa e sistematica – del resto impossibile in un agile volumetto come questo – ma quasi come un assaggio di un mondo di ricerche estremamente complesso e variegato, dove la fisica e la sua storia, la teoria delle reti e le più recenti ipotesi sulla gravità quantistica, si intrecciano inestricabilmente con gli ultimi risultati delle neuroscienze.
Ho acquistato l’opera (anche) come audiolibro, curioso di ascoltare la sua fisica. La voce gentile ed appassionata dell’Autore ha così arricchito di sostanza densa le mie passeggiate nel parco sotto casa, per un po’. Con il cane, devo aggiungere (anche lui non si mostrava particolarmente interessato). Non solo: mi ha fatto anche riflettere sulla mia professione, di quanto in special modo mi conduca quasi naturalmente alla frontiera con discipline importanti come la filosofia e la medicina. In un libricino di meno di cento pagine, decisamente un pregio non da poco.
Ma soprattutto capisco quanto, ormai, anche un sommario riassunto della fisica in sette lezioni non possa fare a meno di “contaminarsi” con tutto un mondo “altro da sé”. Rovelli non si tira indietro dagli agganci con le questioni del nostro tempo, anzi li ricerca attivamente – e così la fisica spunta fuori dal suo testo come essa è davvero, una disciplina straordinariamente viva e pertinente con le istanze dell’uomo moderno.
Avverto un sapore piacevolmente familiare nelle sue osservazioni su come la nostra percezione del mondo sia rimasta “indietro” rispetto alle stesse acquisizioni della fisica moderna (la realtà dei quanti, le onde gravitazionali, la struttura articolata e “duttile” del tessuto spaziotemporale), cosa su cui anche in questa sede (e nel blog di AltraScienza) ci siamo più volte interrogati.
In un librettino così essenziale e stringato si arriva a disquisire di teorie recentissime, il cui impatto filosofico potenziale è direttamente proporzionale a quanto poco siano conosciute, non solo tra i filosofi ma tra gli stessi fisici. Sì, come certi schemi che, per armonizzare la relatività con la meccanica quantistica, introducono il concetto di quantizzazione spaziale, con un “nuovo” spazio fisico di mirabolante audacia: uno spazio che non solo non è affatto euclideo (come ormai sappiamo da tempo) ma possiederebbe una struttura fisica discontinua.
Detto in altri termini, gli scienziati stanno pensando che lo spazio non sia (più) un insieme omogeneo e levigato, ma nella sua struttura ultima potrebbe essere fatto a grani, sorta di particelle di spazio strettamente adunate tra loro, a simulare una estensione che è “continua” solo per i nostri sensi. Un altro bel modo di comprendere come il senso comune ci rappresenta un mondo spesso più opaco e statico di quanto potrebbe essere in realtà. Insomma, ben vengano tentativi di alta divulgazione così riusciti, e così avvertiti del contesto culturale moderno e della sua inestricabile complessità.
Se però mi è concesso l’ardire – e vengo finalmente alla vera ragione per cui registro questi miei pensieri proprio qui – su una cosa mi sembra di scorgere tracce di un pensiero vecchio. Su una cosa si accende un segnale di allarme nel mio cervello, un segnale che avverte “qui non la pensiamo allo stesso modo”, o assai più significativamente, “questo non è logicamente giustificato, è solo una opzione del pensiero”.
Come Rovelli ci avverte, proprio nel capitolo finale, “Nel mare immenso di galassie e di stelle, siamo un infinitesimo angolo sperduto; fra gli arabeschi infiniti di forme che compongono il reale, noi non siamo che un ghirigoro fra tanti.” E più avanti rincara la dose, potremmo dire, ammonendoci a scanso di equivoci, che “C’è così tanto spazio lassù, è puerile pensare che in quest’angolo periferico di una galassia delle più banali ci sia qualcosa di speciale. La vita sulla Terra non è che un assaggio di cosa può succeder nell’universo. La nostra anima non ne è che un altro.”
Qui mi sento di voler prendere una certa salutare distanza, perché qui mi sembra di scorgere tracce di un apparato ideologico precostituito e non di una sobria analisi del dato scientifico – che in sé non può né corroborare né smentire simili affermazioni, né mai potrà farlo. Qui mi sembra, insomma, che vi sia spazio per una eccezione, per una diversa articolazione. Che riguarda tutti, non appena i fisici. E che sia interessante farlo, soprattutto in questa sede.
In estrema sintesi: è veramente puerile pensare che siamo così speciali? E che pertinenza può avere, in caso, quel periferico e quel banale riferiti alla nostra posizione spaziale? Direi nessuna, a meno che non si ritenga – ancora oggi, nel terzo millennio – che per essere speciali si debba per forza appartenere al centro geometrico di un sistema.
E questa diversa gerarchia di importanza, vorrei ricordare, nella nostra cultura è presente in germe da almeno un paio di millenni, appena che si voglia guardarla. E’ al centro della nostra stessa cultura, con una pregnanza almeno pari al celebre motto crociano del non possiamo non dirci cristiani. E’ proprio Betlemme infatti che, con la nascita stessa del Messia, segna con una pregnanza totale e profondissima lo scardinamento concettuale della malintesa connessione tra centro geometrico, tra estensione spaziale, e rilevanza esistenziale. Fosse stato importante il centro – per dire – fossero state importanti le dimensioni, avrebbe scelto magari Gerusalemme, per nascere: Lui poteva scegliere, e ha scelto Betlemme. E noi ancora non capiamo, tanto spesso! Ciò che è periferico può ospitare un centro pulsante di importanza, può ospitare ciò che giustifica tutto il resto, ciò su cui il resto (in tutta la sua cosmica vastità, che in effetti è da brivido) riposa.
Quindi, caro Rovelli, se pure mi hai avvinto nelle tue lezioni, se pure riconosco che sei veramente bravo, non mi convinci con quel puerile. Perché sai, io invece mi sento di lasciarmi abbracciare da questo pensar puerile e farmi avvincere dall’idea che qui – proprio in questo punto “periferico” – stia accadendo qualcosa di straordinario, sensazionale, silenziosamente mirabolante, splendidamente eccentrico (in ogni senso, appunto). C’è un punto in cui l’universo ricomprende sé stesso. Riflette su di sé, si interroga – da qualche millennio ormai – sul suo stesso esserci.
Detto più sobriamente, Rovelli sembra escludere un orientamento finalistico del cosmo e della sua evoluzione, relegandolo (così mi pare) a scorie di un pensiero “passato” e non adeguato alla complessità del mondo odierno. Eppure è forse proprio questa complessità che richiede oggi un nuovo sguardo, che almeno lo rende possibile, praticabile.
L’idea di fine è onnipervasiva e profondamente intessuta nella trama dell’universo. Perfino la curvatura dello spazio ha un orientamento estremamente delicato – tra la scomparsa dovuta al collasso di un enorme buco nero, se l’iniziale curvatura fosse stata un poco più grande, e una esplosione con una dispersione di particelle, se fosse stata poco più piccola. (O’ Murchu, 1997)
Il punto vero però non è convincere Rovelli, o chi mi legge, che si abbia ragione a portare avanti una argomentazione diversa. Fossi davvero in dialogo con lui, adesso, sono certo che mi darebbe filo da torcere. Preciserebbe il suo pensiero, lo sfilerebbe via da facili riduzioni, proprio da dove adesso io stesso lo sto incasellando, per esigenza di semplicità. Non è dunque una battaglia dialettica il punto. Fosse quello, saremmo nel vecchio mondo, ancora nel vecchio universo, dopotutto. Il vero punto, su cui realmente possiamo e dobbiamo lavorare, è quello di smascherare – quando li si incontri – quegli assunti ideologici che sono il frutto, non tanto di una accorta sperimentazione scientifica, ma di pregiudizi di carattere filosofico o metafisico. E dunque, come tali, possono certo essere sostenuti ma non possono derivare forza dall’impresa scientifica, che è per parte sua splendidamente agnostica rispetto a tutto questo. Cogliamo l’occasione per lavorare dunque a sgombrare equivoci pericolosi, come lo è – a mio avviso – ogni scaltrita variazione sul tema, ormai già visto ed esplorato, la scienza ci mostra che non siamo nulla di speciale (detta un po’ semplicemente).
No, la scienza non ci dice affatto questo, per come la vedo io. Ci lascia aperta una porta alla meraviglia e allo stupore (porta che comunque, se pur in modo un po’ esile e direi in finissimo instabile equilibrio, lo stesso Rovelli imbocca proprio alla fine del testo), e ci rende più avvertiti di questo inesausto miracolo che è essere il punto – l’unico che finora conosciamo – in cui l’universo si interroga sulla ragione e sul fine della sua propria esistenza. Questo interrogarsi è denso e compiuto, per alcuni, come una vera ragione d’essere. Come scriveva Francesco Marabotti sul blog di AltraScienza, a chiusura della serie di articoli su fisica e filosofia, “L’infinito è qui, e ora, presente, come un Evento linguistico che ci attira, reclamandoci alla domanda sul senso della vita, dell’essenza delle cose, e quindi dell’essere umano.”
In sintesi. La domanda del pastore errante di Leopardi – a che tante facelle? – che guarda ammirato e sbigottito verso la moltitudine delle stelle, non è una scoria di un pensiero primitivo, puerile, da superare. E’ piuttosto la vera domanda in cui calarsi adesso, con tutta la nuova consapevolezza di quanto abbiamo imparato in questi ultimi due secoli. Secoli caratterizzati – lo sappiamo – dal sospetto verso la metafisica ed ogni tipo di finalismo, che peraltro ha più di una ragione per essersi sviluppato, e dal quale abbiamo anche imparato molto.
Domanda che afferisce necessariamente ad un ambito meta-scientifico. Non indagabile con il metodo empirico, dunque, ma estremamente degna d’essere ricevuta. Perché la vita dell’uomo (scienziato o meno) si illumini dall’interno, di una luce che – a sua volta – possa essere in grado di rischiarare perfino gli angoli più remoti di questo incredibile universo in cui siamo immersi. Come piccolo ghirigoro di una importanza, forse, ancora tutta da scoprire.
Che bello leggerti, Marco! Complimenti e grazie infinite. Ho già capito che, alla prossima occasione, comprerò il libro di Rovelli e lo metterò in coda ai tre o quattro libri di Marco Guzzi, più l’autobiografia di C.G.Jung, più il Salmo 106 (miracoli della bontà del Signore) che non riesco più a smettere di rileggere, trovandoli ogni volta più veri, nuovi ed estremamente attuali. Di nuovo: grazie!
Benigno
Grazie a te Benigno, per i complimenti! Se posso permettermi, direi inoltre che la tua “coda bibliografica” è di tutto rispetto! Se poi per la autobiografia di Jung intendi “Ricordi, sogni, riflessioni”, come credo, ebbene è un libro che ha avuto una grandissima “rispondenza” nelle mie corde più intime, l’avventura di leggerlo è stata veramente un viaggio straordinario!
Un abbraccio,
Marco
La riflessione che hai innescato, Marco, è una di quelle su cui si possono scrivere interi libri .
Il problema è antico : esiste o no un “fine” per tutto questo ?
La scienza nel suo procedere ci rende ogni volta maggiormente edotti su di mondo fisico quasi sempre diverso da come lo pensiamo e, come conseguenza, dilava sempre di più la nostra ricerca di un “fine” e di una “ragione prima” in un mare di incertezze sempre più ampio, tanto che in molti casi se ne può concludere che non ci sia affatto bisogno del concetto stesso di Creatore.
Siamo “primari” in questo universo, o solo delle cose insignificanti come Rovelli afferma ?
Essendo domande a cui, sia in senso scientifico che in quello filosofico, non è possibile argomentare con fatti reali la risposta ( con un leggero vantaggio per la scienza che usa dati reali e quindi argomenta le sue tesi meglio della filosofia ) io sposterei il focus della questione, pur mantenendo il nucleo del discorso, ad alcuni semplici interrogativi che portano diritti ad una migliore definizione della potenziale risposta.
Siamo “importanti” in questo Universo ?
Come tu stesso hai affermato non c’è alcun bisogno di “essere al centro” dell’Universo per essere importanti, anche in periferia, come noi siamo, si può essere tranquillamente il “fine ultimo” per cui l’Universo stesso è progettato.
( cosa conosciuta anche come “Principio antropico forte” )
Ciò è verissimo, ma se diamo per valida questa ipotesi e che quindi noi siamo “importanti” una domanda risuona nella mente: che ne facciamo di tutta questa infinità, perchè il Creatore l’ha creata ?
Come i dati confermano da sempre, con le velocità attuali, sappiamo bene che non possiamo andare lontanissimo e sappiamo che non potremmo , comunque, mai esplorare o colonizzare l’ Universo intero ma solo i nostri “dintorni” più vicini. Quindi noi di tutta questa infinità, in definitiva, non ce ne facciamo nulla a parte ammirarla e studiarla per cercare di capirla.
Come interpretare , dunque , il fatto che siamo piantati in un posto “X”, perso in nell’immenso, a parte pensare ad un Creatore “cattivo” che pur mostrandoci l’infinità ci ha proibito di poterla “utilizzare” ed esplorare ?
La cosa più probabile è pensare che il Creatore, la nostra “Ragione Prima”, abbia fatto un banale errore creando una cosa enorme per una creatura che nemmeno può “utilizzarla” tutta . La spiegazione, messa così, “fa del male” a noi stessi poiché è difficile concepire un Creatore distratto o cattivo nei confronti della sua creatura eletta.
Allora rimane l’altra alternativa , ossia che l’ Universo non sia appannaggio delle sole creature del pianeta Terra,
ma che, almeno di logica, devono esserci molte altre creature li fuori che condividono con noi, probabilmente con gli stessi problemi filosofici 🙂 , questa infinità. I
n tal caso il nostro Creatore avrebbe fatto un ottimo lavoro disseminando di vita l’intero universo , ma, in questo caso nasce una domanda anche più terribile: se davvero l’Universo contiene altre specie oltre la nostra, cosa ci fa supporre che noi siamo “il fine”, la specie eletta per cui tutto questo è stato creato, quando potrebbero esserci specie di tipo superiore rispetto a noi in senso evolutivo ? E se fossero loro il “fine” e non noi ?
In realtà non lo sapremo mai e quindi siamo liberi di cullarci nelle nostre convinzioni di essere i prediletti del Creatore, pur sapendo bene che è una pia illusione.
E nella scala delle domande terribili la successiva è : se davvero esistono altre creature, evolutivamente superiori, a cui contendiamo il titolo di “preferiti” se queste ultime hanno le loro cosmogonie regolate anche esse sul concetto di “Ragione Prima” il loro Creatore potrebbe essere diverso e molto più “potente” del nostro, in ragione proprio della loro superiorità evolutiva … Cosa ne sarebbe delle nostre certezze, del nostro Creatore declassato a “creatore locale” ?
Se uno ci pensa bene nota che rispondendo a queste domande l’idea di un “disegno intelligente” dell’Universo è fortemente compromessa, il che porta verso le conclusioni di Rovelli che, a rigor di logica e dati, sono ben più appetibili. Ovviamente, essendo entrambe le ipotesi indimostrabili, il tutto viene lasciato nello stato ex ante, ossia di una discussione che tende da un lato ad un fideismo temprato scientificamente, dall’altro ad un semplice affidare al caos come Ragione Prima di tutto.
Personalmente preferisco sposare la tesi di Weinberg ed altri che assomma due cose importanti, la presenza del caos come “Ragione Prima”, che spiega anche i dati che continuamente ci arrivano, e quella di una “intelligenza” successiva, nata dal caos stesso, in grado di regolare ed elaborare le funzionalità dell’Universo stesso.
Questa “intelligenza” quindi sarebbe “funzione” di questo Universo , non la sua causa.
Apparentemente sembra un assurdo, ma abbiamo altri esempi fisici che ci dimostrano che la cosa è possibile, ad esempio gli atomi che costituiscono l’acqua o un liquido qualsiasi, di per se stessi, non hanno la proprietà fisica della fluidità o della liquidità se però ne uniamo casualmente miliardi di atomi insieme, tale proprietà comincia ad apparire come “funzione” stessa dell’aggregato permettendoci di definirla come parametro fisico reale, lo stesso potrebbe essere successo alla “capacità di elaborare informazioni del nostro universo” portando, da un certo punto in poi, alla creazione di una “intelligenza” in grado di intervenire attivamente in esso ( “Legge Software dell’Universo” citando Weinberg ) e, per quello che ne sappiamo, possiamo anche riferire a questa “funzione” come la nostra creatrice, eliminando l’ipotesi di essere stati creati dal puro caso.
Essendo questa “intelligenza” figlia essa stessa del caos, non necessariamente ha un “fine”, non è nata prima dell’universo, non lo ha progettato di proposito, è solo “dentro questo” così come lo siamo noi.
Per cui potrebbe esserci benissimo un “creatore” ma nessun “fine” specifico, il che risponde più o meno bene anche alla domanda: essendo il Creatore “perfetto” da ogni punto di vista possibile che necessità avrebbe avuto nel crearci ?
Non essendoci un “fine” specifico, in questa ipotesi, la domanda trova una semplice risposta.
Caro Mariano,
grazie per la tua articolata riflessione, prima di tutto. Ci offri diversi “semi” di discussione che possono essere utilmente ripresi, e già ci darebbero materia per un confronto che promette d’essere istruttivo, per tutti, e che non possiamo certo – grazie al cielo! – delimitare artificiosamente in un paio di botta e risposta.
Per questo, senza alcuna pretesa di esaurire o nemmeno di toccare tutti i punti che hai messo sul tavolo, ad una cosa mi viene intanto – e subito – da offrire una mia personale risposta. Mi preme darla, perché è quella che mi sono dato io, che mi dò se guardo la notte alla vastità del cielo, se la studio e la indago di giorno dal mio computer, la leggo sui testi di astronomia. la respiro.
Tu dici “che ne facciamo di tutta questa infinità, perchè il Creatore l’ha creata ?”
La mia risposta è forse semplice in modo disarmante, ma tant’è. Il Creatore ci mostra cosa vuol dire creare in abbondanza, ci mostra cosa vuol dire essere fuori dagli schemi mercantili di offerta minima, di offerta misurata alla domanda, ci mostra che ogni atto di creazione è potenzialmente “infinito”.
Abbiamo fatto dell’economia una semi-divinità, e siamo troppo spesso male-educati da una logica di mercato, di dare/avere con il minimo sforzo e il massimo rendimento, e questo ci produce un pensiero “piccolo”, incapace di cogliere l’enormità di ciò che esiste.
Con la presenza di zone di universo dove probabilmente non metteremo mai il naso (ma è tutto da dimostrare ancora come non possano in qualche modo indiretto venire a contatto con noi), ci mostra cosa vuol dire creare con piena gratuità, fuori da ogni misera logica “di calcolo” o di “efficienza”.
Ci mostra, in altre parole, cosa è la vera creazione. Il vero atto creativo è – prima di tutto e soprattutto – abbondanza.
Non è bello pensare così?
Un caro saluto!
Certo che è quello il libro. Da un anno e mezzo a questa parte mi ha come stregato. Ecco per esempio, cosa dice a pagina 411 in merito all’argomento del tuo post:
“Il bisogno di affermazioni mitiche è soddisfatto quando ci costruiamo una visione del mondo che spieghi adeguatamente il significato dell’uomo nel cosmo, una visione che scaturisca dalla nostra interezza psichica, cioè dalla cooperazione della coscienza e dell’inconscio. La mancanza di significato impedisce la pienezza della vita, ed è pertanto equivalente alla malattia. Il significato rende molte cose sopportabili, forse tutto. Nessuna scienza sostituirà mai il mito. Non “Dio è un mito”, ma il mito è la rivelazione di una vita divina nell’uomo. Non siamo noi a inventare il mito, ma esso parla a noi come “verbo di Dio”. Il “verbo di Dio” viene a noi, e non abbiamo modo di distinguere se, e in che modo, si differenzi da Dio. Non vi è nulla in questo “Verbo” che non possa essere considerato noto e umano, tranne il modo col quale spontaneamente ci sollecita e ci costringe. Sfugge al nostro arbitrio. Non si può spiegare una “ispirazione”: sappiamo solo che una “trovata” non è il risultato del nostro raziocinio, ma ci viene “da qualche altra parte” …… tutto ciò attraverso cui si esprime l'”altra volontà” è materia formata dall’uomo, il suo pensiero, le sue parole, le sue immagini, e tutte le sue limitazioni. Di conseguenza egli ha la tendenza a riferire ogni cosa a se stesso, quando comincia a pensare in termini rozzamente psicologici, e crede che tutto derivi dalle sue intenzioni e da “lui stesso”. Con infantile ingenuità presume di conoscere tutti i propri poteri e di sapere che cosa è “in sè”. ”
Un caro saluto a tutti
Benigno
Ciao prof! Bellissimo articolo! Ho sempre condiviso la visione di Rovelli ma devo dire che con le tue parole mi hai messo un po’ in crisi! 😀 Di sicuro ora ho tantissimi spunti di riflessione. Grazie.
Adele
Caro Benigno,
grazie per questo passo molto significativo! Jung è una sfida da riprendere appieno, per come a distanza di anni sfida ancora il senso comune – il nostro senso comune di uomini “laici” o “credenti”, ha estremo bisogno della sua visione illuminata e provocatoria, della sua intuizione profonda delle cose, delle sue parole così gravide di mistero, quel mistero che purtroppo manca anche in tanti discorsi “religiosi”. E di cui si avverte compiutamente la mancanza, come di uno spazio vuoto, una mancanza appunto di senso, quel senso che aiuta a rendere tutto più sopportabile, come Jung insegna.
Jung – e persone che derivano dal suo insegnamento – è l’architrave nemmeno tanto celata di vite incredibili come quella di Etty Hillesum, che sfidano ancora ogni nostro pensiero razionale, trascendono ogni nostro “incasellamento” in regole o dottrine.
Il libro poi – quel libro – è veramente un tesoro “condensatissimo”, una pietra preziosa.
Grazie.
Carissima Adele,
che bella sorpresa trovarti qui! Grazie per il commento molto onesto che hai voluto apporre all’articolo. Sono contento (e un po’ orgoglioso…) di averti fatto “aggiustare il tiro” (appena un po’, del resto come ho scritto Rovelli ha delle indubbie qualità di narratore e mi pare che la fisica la sappia assai bene). E’ un po’ la cifra interpretativa che ho adottato – sempre nel rispetto del dato scientifico – nel viaggio su Mediterranea, come sicuramente avrai capito.
Sicuro che la (micro)crisi sarà un arricchimento e magari ti gusterai ancora di più le pagine di Rovelli. Con questo piccolo “caveat” che impreziosirà anche il suo pensiero di un pensiero “complementare”, magari 😉
Un abbraccio!
Si, Marco è bello pensare così ! 😉
Ogni essere e’un piccolo ghirigoro che comprende l’immensita’.Forse la natura ne e’ consapevole…
.se solo ci riuscissimo anche noi esseri umani….
Il ghirigoro non ha nulla di speciale perché tutto l’arabesco è speciale, nel senso che la Realtà si mostra inedita ad ogni istante in ogni suo ghirigoro. È l’inedito che non si è mai visto prima e che non si vedrà più, che non si vedrà da nessun’altra parte, perché è l’esito di una contingenza che non replica. Questo ci produce meraviglia e ci suscita interrogazione di senso. È la coscienza umana che si pone le domande fondamentali del senso, che non è già dato come disegno precostituito. Qui, temo, paghiamo uno scotto molto forte all’impostazione metafisica del pensiero. Ormai ipersensibilizzati, si reagisce buttando via il bambino con l’acqua sporca, non appena si subodori intenzione di imposizioni dall’alto.
A me pare sia giunto il tempo, non più procrastinabile, di accogliere la concretezza della realtà, anche nella sua durezza, senza facili edulcorazioni. Non c’è più spazio per mettersi a tavolino, con la testa nelle nuvole, e tracciare linee di direzione finalistiche da far cadere dall’alto, negando l’evidenza di una realtà che ha tutt’altro volto. La vita ha un tratto contingente, occasionale e drammatico, che dà imprevedibile forma agli eventi. Essa ci sorprende, spesso ci ferisce, ma proprio così rimane aperta e può essere creativa. Soltanto se ci sentiamo figli di questa realtà e non la neghiamo, se diamo credito alla lettura scientifica fatta dal pensiero umano, nella disponibilità alla relazione con la trascendenza che non può che accadere nella nostra storia concreta, potremo essere interlocutori credibili anche per chi, temo, scelga l’ateismo più per reazione che per effettiva negazione all’affidamento.
iside
Grazie Marco per questo articolo così bello e ricco di spunti. Anch’io, che ogni tanto leggo libri di divulgazione scientifica, avevo avuto un po’ di insofferenza nel leggere alcune delle conclusioni di Rovelli nelle Sette brevi lezioni (anche se non avrei saputo argomentare come te il mio dissenso). Perché queste conclusioni, come dici tu, non sono affatto giustificate dalla ricerca scientifica ma sembrano come delle incrostazioni ideologiche che rimangono attaccate. Ne capisco la ragione, ovviamente. Veniamo da millenni di antropocentrismo ma con i secoli della modernità si sono elaborate tantissime critiche alla visione antropocentrica e finalistica. Rovelli insomma, che negli anni 2000 dice che siamo “un ghirigoro fra tanti” non dice nulla di nuovo o di rivoluzionario. Il punto è che le maggiori critiche alla visione antropocentrica e finalistica (della quale proprio il cristianesimo per primo si era appropriato!) venivano da parte di spiriti spesso avversi al cristianesimo storico o che comunque sono stati avversati dalle istituzioni ecclesiastiche (da Giordano Bruno a Leopardi delle Operette Morali) ma che magari senza neanche saperlo esprimevano proprio lo spirito della novità cristiana. Per questo è difficile discernere. Ora mi sembra che ci troviamo anche per questa ragione su un versante molto confuso, in cui da un lato pensare di “essere speciali” è puerile o addirittura arrogante, mentre dall’altra parte sembra si possa solo affermare che siamo frutto del caso e l’esistenza non ha in fondo alcuno scopo. Queste riflessioni che tu ci proponi – come tutto il lavoro di Altra scienza – sono un tracciato per costruire un’altra via, mi pare, che sappia proseguire nella comprensione del cosmo e dell’esistenza riconoscendo la propria radice e senza rimanere perciò bloccata nei cortocircuiti di questi schemi di pensiero ormai esauriti. È un lavoro estremamente necessario! Grazie
Mi commuovono le parole di Iside quando invita ad “accogliere la concretezza della realtà, anche nella sua durezza, senza facili edulcorazioni…essa ci sorprende, spesso ci ferisce ma proprio così rimane aperta e può essere creativa” perché il senso delle cose, come scrive appena sopra, è la coscienza umana a darlo!
Anche la “disponibilità alla relazione con la trascendenza che non può che accadere nella nostra storia concreta” mi sembra uno spostamento radicale di prospettiva rispetto alle “linee finalistiche” che cadono dall’alto!
In quest’ ottica
anche il senso della sofferenza umana può inserirsi entro nuovi contorni e parlare una nuova lingua.
mcarla
Iside e M.Carla, sono pienamente d’accordo con voi! Mariapia
Anche a me ha dato una impressione simile a quella indicata da Marco Castellani e che ho ritrovato anche nell’altro libro di Rovelli ‘ L’ordine del tempo’.
Poi ho capito la tristezza di fondo che si porta dentro: ascoltando questo suo audio ( Perchè non credo in Dio
https://www.youtube.com/watch?v=Ny_9Ql1gfLI ) in particolare i primi 3 minuti ,ho l’impressione che la sua immagine del divino sia molto meno recente delle sue conoscenze scientifiche e questo spiega il tutto.
Grazie a tutti voi
Martino
Grazie Martino,
molto interessante questo video. Stiamo però molto attenti alle riduzioni. Quello che dice Rovelli è il vertice del pensiero “laico” ed è quello che possiamo raggiungere se non abbiamo fatto un incontro. E’ quello che avrei detto io (l’avrei detto molto peggio, sia chiaro), se non avessi fatto un incontro con certe persone, certi volti, nell’estate del 1984. Una vacanza di CL. Un sacerdote che arriva, dopo qualche giorno. E parla. Sentirlo parlare. Un luogo, dei volti.
Si apre un orizzonte. Le cose non sono così come pensavo, forse.
Credo che con la logica sia possibile arrivare a questo, e lui lo fa con molta onestà.
La fede non è abbracciabile per “logica”. La fede è un incontro che fa battere il cuore.
In questo video sento molta “logica” e non sento passione.
Ma sento anche una sacrosanta denuncia verso quei cristiani che si barricano dietro la dottrina, enunciando verità cristalline per nascondere il cuore. Dimenticando che la fede rilancia la ricerca, non la spegne. Ebbene, io quei cristiani, non li sopporto proprio (peggio di lui, probabilmente). Preferisco gli atei, come interlocutori.
Quanto abbiamo contribuito noi credenti a non parlare dell’amore pazzo ed incondizionato di Dio e a combattere per delle regole e per dei “valori non negoziabili”? Quanto abbiamo recitato il “Dio ti ama però tu devi…” ? Quanto è comune trovare una immagine liberante di Dio, come in “Yoga e preghiera cristiana”?
Io non ho la posizione di Rovelli, ma lo capisco. Se non capissi lui, del resto, non capirei i miei figli, mia mamma, non capirei i miei colleghi, non capirei nulla. Invece tutto ha una spiegazione. Purtroppo l’immagine del divino, anche oggi, è spesso detta male, è spesso detta in modo da allontanare le persone. Ecco perché papa Francesco è una grande benedizione, invece.
Grazie!
Marco Castellani, thanks for the article post.Really thank you! Great.
Non sono né scienziato né filosofo ma mi è molto utile seguire queste riflessioni.
Senza mettere in connessione la testa e il cuore, l’astrazione e la carne, senza cioè sapere che esiste “incarnazione” e comunque senza credere all’incarnazione del Figlio, l’uomo col solo pensiero non può che fermarsi ad un inconsolabile tristezza e poi scendere sempre più giù: e per quell’uomo provo una compassione piena di rispetto e comprensione.
Grazie a Dio che sono atei coloro che hanno un’immagine distorta di Dio: anch’io sono ateo di quel Dio.
Le guerre balcaniche mi hanno insegnato a tenere insieme i corni della contraddizione.
Ragione e fede sono state messe in contraddizione da uomini di fede e da uomini di scienza, e la frattura è sanabile.
Ogni uomo potrebbe cercare di sanarla anzitutto in sé stesso, non per obbligo né per dovere, ma perchè ne va della sua integrità e felicità.
Possiamo sperare e pregare non per convertire i Rovelli ma perchè arrivino a consapevolezze che li salvano.
GianCarlo
Credo che Rovelli non abbia bisogno di pietismo perche’ si trova , secondo voi , dall’altra parte.
Per me ha scritto un libro “sette brevi lezioni di fisica” che dona serenita’ a chi lo legge e ti mette in pace con il mondo.
Caro anonimo, non generalizzare e rivolgiti a me, che sono in empatia con Rovelli, ed infatti ho parlato di rispetto e
com-passione: non amo le barricate che evochi, in cui ci si schiera su fronti opposti. Penso che siamo tutti in ricerca.
Mi è estraneo il pietismo di cui parli, che è offensivo, come mi è estraneo il buonismo, e tutti gli -ismi di cui la cultura novecentesca ci ha imbottito la testa: per fortuna gli elettori maturati hanno asfaltato tutti gli estrem-ismi dello scorso millennio. Anche se i “giapponesi” duri e puri sono troppo disperati ed irrazionali per interrogarsi e correggersi.
Se il libro di Rovelli ti ha dato serenità ne sono contento, e non è ironia.
ciao, GianCarlo
Caro Anon,
sono d’accordo con te. Rovelli è un fisico molto noto e mi pare molto bravo (e ho una “invidia buona” nei suoi confronti, altro che pietismo!), inoltre – come ho cercato di dire nel post – è molto molto bravo a raccontare. Nessun pietismo, assolutamente. Ma ti dirò, nemmeno la presupponenza di dovergli insegnare qualcosa! Il suo libro è molto bello, è stata una scoperta molto suggestiva, per me. Solo, le due o tre frasi che mi hanno innescato il ragionamento, mi hanno condotto a scrivere questo, che hai letto. Ma né io né alcuno dei commenti, penso abbia qualche vena di pietismo.
E se ce l’ha, beh è proprio fuori luogo.
Ti dirò, poi, che io spesso mi trovo molto meglio trattando con persone che sono “dall’altra parte” (salvo che poi la divisione in parti credo sia un po’ antica e semplicistica…), che con quelli che sono “dalla mia parte”: questi ultimi a volte li trovo un po’ troppo granitici nelle loro (dichiarate) convinzioni. Troppo spesso hanno questa ansia di “addomesticare” la loro umanità, di sentirsi “arrivati” che a me non torna proprio tanto (Giussani diceva che quando uno scopre la fede è appena “partito”, altro che arrivato, o in condizioni di dispensare pietismo). Ben vengano persone come Rovelli, persone che danno “sapore”, questo è ciò che conta! I tiepidi non serviranno a molto, alla fine dei conti. Anzi…
Grazie,
Marco.
Grazie a te Marco, mi trovo d’accordo con queste tue parole.
Ho detto “altra parte ” per indicare in breve quelli che stavano facendo una critica, che puo’ essere giusta, in base alla visione del mondo di ciascuno, ma non mi sembrava corretto che la critica andasse oltre, parlando di tristezza, o dell’autore come uomo, a meno che uno lo conosca personalmente a fondo.
Tutto qui.cordiali saluti.
Sì caro Anon,
ma poi alla fine, se ragioniamo sobriamente, credo che siamo tutti d’accordo, non possiamo assolutamente giudicare l’uomo (anzi per chi è da una “certa parte” non dovrebbe proprio essere possibile giudicare nessuno….), così avvertivo nel pezzo un mio imbarazzo, che – detta molto semplicemente – se fossi in dialogo con Rovelli sicuramente mi darebbe filo da torcere!
Per me è un piacere insomma ascoltare un pensiero ricco ed articolato come quello di Rovelli. Proprio perché mi offre uno scenario variegato e frastagliato, da lì posso partire per ritagliare alcune differenze. Per individuare alcuni schemi di pensiero, ma sempre per arricchire, non per dividere. E sempre (tentativamente, almeno) con grande, grandissimo rispetto. Come per Hawking, per un certo altro verso (e ne parleremo molto presto).
Cordiali saluti!
Marco