Di fronte alla malattia ci troviamo tutti impauriti e spaesati. Si tratta sempre, in fondo, di un evento inaspettato, caratterizzato da incertezza e dolore. Per quanto si possa pensare il contrario, il medico non è affatto tranquillo nel diagnosticare (ad altri o a se stesso) una condizione di malattia, anche quando apparentemente è poco grave e sono disponibili ottime terapie. Sa bene che quei segni e quei sintomi possono nascondere anche situazioni ben più serie di quella che viene sospettata inizialmente perché più probabile. A volte anch’io, ai pazienti che insistentemente richiedono certezze, ricordo che potrei essere ammalato senza saperlo. Questo mi fa sorgere una domanda: cos’è questa entità che può subdolamente celarsi nelle nostre membra e che chiamiamo malattia? Sebbene vengano investite enormi risorse nella ricerca, la scienza non sa darci risposte certe in merito [i].
Innanzi tutto il nome che le diamo impone già un giudizio altamente negativo: sembra proprio identificare il male che si incarna. Proprio quel male che ho imparato ad evitare sin da bambino non toccando lo sporco, non dicendo le parolacce, non mangiando le schifezze, non arrabbiandomi, non ferendo, non urlando… adesso me lo ritrovo dentro, incistato nelle mie cellule, sciolto nel mio sangue. La mia integrità è assediata e minacciata, come una fortezza che fino a poco fa sentivo inespugnabile. Di fronte al male il primo istinto è di combatterlo e distruggerlo, oppure di negarne l’esistenza, un po’ come faccio con l’ombra del mio inconscio e delle mie più recondite paure. Ma se persiste devo farci i conti, con tutto me stesso.
Se mi ammalo nel corpo, infatti, posso perdere anche la serenità, la pace, la speranza, il senso della vita, il lavoro, la capacità di relazionarmi normalmente. La malattia è tutto questo, insieme. È sofferenza di tutto il mio essere, che ha smarrito il suo equilibrio e cerca spasmodicamente una dimensione nuova. Come un parto, o una partenza.
Da ammalati si ricerca aiuto, come bambini che cercano la mamma o il papà quando si trovano in una situazione di sofferenza o smarrimento: trovato l’abbraccio passa presto la paura. Ma qui è diverso: cerco aiuto e mi dicono che ho il male dentro, così timori e incertezze non fanno che aumentare.
E’ colpa mia? Solo sfortuna? Un errore diagnostico? Sarò tra i fortunati che risponderanno alle terapie? Soffrirò tanto? Resterò invalido? Morirò? Le domande e i pensieri si aggrovigliano nella mente come serpi dalla lingua biforcuta, il dolore brucia, il corpo insorge. Tutto questo mi spaventa e mi ricorda l’ardua verità: siamo umani, viviamo nella precarietà, e il nostro destino è la morte.
Nella mia ricerca di aiuto vorrei trovare sicurezza, uno sguardo che ascolta e comprende le mie inquietudini, una persona che sa accompagnarmi in un difficile percorso come una guida sicura ed esperta fa durante un viaggio in terre remote. Non vorrei solo sentirmi dire che quell’esame è alterato o quell’altro è peggiorato e che dobbiamo cambiare medicina. Vorrei che il tutto assomigliasse all’abbraccio che cercavo da piccolo. E se dovesse esserci anche un abbraccio vero e proprio non mi dispiacerebbe. Vorrei essere aiutato a rilassarmi e ad accettare la situazione, a valutare il da farsi, a comprendere quelle profonde domande che insorgerebbero e a cercare delle risposte. A sorridere e ad abbandonarmi alla vita, qualunque siano la diagnosi e la prognosi. A cercare il senso di quel dolore. E ovviamente le cure mediche migliori.
Non starò chiedendo troppo? Chi è il medico che sto cercando? Può fare tutto questo una persona da sola? Qui si aprono domande importanti, che credo sarà molto interessante cercare di approfondire. Intanto mi sento di dire che il medico è uno di noi, una persona che si occupa della cura altrui, e come tale vive con le stesse sofferenze di ogni altro individuo, si pone le stesse domande, e come tutti è chiamato a cercarne le risposte. Non credo sia corretto addossare su questa e altre figure sanitarie tutta la responsabilità della cura del malato, perché gli aspetti relazionali possono essere curati anche meglio da familiari e altre persone vicine all’interessato. Sicuramente chi assiste il malato, e i sanitari per primi, può farlo meglio se è preparato alla relazione, se si mette all’ascolto e lascia spazio al grido della sofferenza.
Per cercare di rispondere in modo più oggettivo alla domanda “cos’è la malattia?” è necessario un approfondimento che vi proporrò in un prossimo articolo. Nel frattempo mi congedo con una citazione del filosofo Hans-Georg Gadamer, che ci ricorda come la malattia sia da considerarsi prima di tutto dal punto di vista di chi ne è affetto, piuttosto che il risultato di una oggettivazione medica:
“La malattia non è principalmente ciò che la scienza medica dichiara come tale, ossia l’esito di un accertamento verificabile, bensì è un’esperienza dell’individuo sofferente, che egli cerca di superare come ogni altro disturbo.” [ii]
[i] Vedi ad esempio l’articolo del ricercatore americano sul cancro Paul Daves, A new theory of cancer – The Monthly, November 2018
[ii] Gadamer H. (1994). Dove si nasconde la salute? Ed. It. Milano, Raffaello Cortina Editore. Pag. 63.
Foto 1: Juan Davila da Unsplash
Foto 2: Sasin Tipchai da Pixabay
Signore, aiutami a curare gli infermi!
Ti prego per tutti i malati, perché siano guariti, perché sappiano accettare con serenità le loro sofferenze e perché trovino il conforto dei fratelli.
Ti prego per tutti i medici, gli infermieri, gli operatori sanitari: perché sappiano curare ogni malato con competenza e professionalità, perché non considerino il malato solo come un caso clinico da risolvere ma come una persona che ha bisogno di attenzione, di comprensione, di rapporto umano.
Maria Letizia
Grazie per questo spunto di riflessione. Condivido la tesi che considera la malattia un messaggio che l’anima invia al corpo, per cercare ad ogni costo di farsi sentire. Se perdiamo l’armonia fra corpo, mente e anima Il compito di ciascuno di noi, ci dice il dottor Ruediger Dahlke “è quello di comprendere ciò cui la malattia ci mette di fronte per capire quale trasformazione dobbiamo affrontare a livello dell’anima. In questo modo riusciamo a liberarci della malattia e ad ottenere una crescita interiore, compiamo un passo che ci fa maturare, che ci libera, che è la vera guarigione. Si tratta quindi di decifrare il messaggio della malattia, il suo significato; poi occorre elaborarlo e calarlo nella vita di tutti i giorni per compiere i passi evolutivi necessari. Questo processo conoscitivo e di crescita ci dona una nuova qualità interiore.” Tuttavia questo cammino non possiamo farlo da soli, il farmaco è importante ma lo è ancora di più l’ascolto profondo del malato. Oggi le nostre aziende/ospedale devono badare più ai profitti che alle esigenze dei pazienti, i letti vanno liberati in fretta. Questo è solo uno dei tanti aspetti della nostra vita comunitaria che va rifondato, uno dei più importanti, insieme alla ridefinizione dei nostri bisogni più profondi, di senso e di chi vogliamo essere.“La malattia è la tua ombra”…(Jung).
Claudio
Bellissimo articolo, bravo Pier ….. so da dove nasce questa tua sensibilità che porti a profitto nel tuo lavoro …. e per questo apprezzo ancora di più ♥️
Un abbraccio grande doc ??
Grazie a tutti. C’è un forte bisogno di non essere considerati materiale organico da risistemare, sappiamo di essere molto di più! Purtroppo, come emerge dai commenti di Maria Letizia e Claudio, vi sono momenti e luoghi in cui questo non viene rispettato e le persone diventano macchine da riparare, talvolta anche in modo maldestro e approssimativo.
Conoscendo ormai il mondo della medicina, però, vi assicuro che in tante realtà e persone che si occupano della cura si trovano sensibilità profonde e professionalità eccellenti. Purtroppo l’organizzazione della sanità non è la migliore possibile e i costi sono elevatissimi. Questo incide non poco sulla qualità e sulle modalità di cura, quindi anche il più predisposto e disponibile deve fare i conti con tanti, spesso troppi, limiti e difficoltà.
Non mi fermerei a questo, sento di dover ricordare che il primo a curarsi di me sono io, e che non posso ricordarmene solo “in casi di emergenza”, ma posso farlo ora come in ogni momento della vita. Ho bisogno di crescere e superare le paure che mi incatenano e mi bloccano portandomi verso il baratro, e che non mi fanno uscire da esso quando mi ci sento immerso. Ho bisogno di trovare la Luce che mi guidi e mi dia il senso.
Spero che chi sceglie per mestiere di aiutare gli altri possa vivere almeno questo. Ma che lo possa fare ognuno di noi, perché per quanto la scienza medica sia avanzata tantissimo, le domande più profonde sono rimaste le stesse. In realtà oggi le persone chiedono di più perché una crescita dell’umanità è in corso, anche se a velocità e con modalità diverse. Potremmo trovarci di fronte a chi, per mezzi e con conoscenze, può aiutarci, ma si trova indietro col percorso personale. A quel punto uno scambio diventa possibile…
Per quanto riguarda il discorso di Claudio, ovvero di come la malattia rappresenti una parte di noi e possa anche diventare motivo di crescita, mi trovo personalmente d’accordo, spero ci saranno modi per approfondirlo.
Maria Letizia ci ricorda che siamo in mani più grandi e c’è tanto bisogno di Luce divina.
Un saluto particolare a Luca, che ha contribuito a stimolare la mia sensibilità verso i temi della medicina e della cura.
A breve verrà pubblicato il seguito di questo articolo…
“Proprio quel male che ho imparato ad evitare sin da bambino non toccando lo sporco, non dicendo le parolacce, non mangiando le schifezze, non arrabbiandomi, non ferendo, non urlando… ” Queste parole, e tutto questo secondo paragrafo, mi hanno toccata nel vivo, è il mio stesso vissuto. Allora, mi viene da dire, è più sano permettere ai nostri ragazzi di dire parolacce, mangiare schifezze, arrabbiarsi, urlare e via di seguito? Magari non sempre, ma lasciare che facciano anche questa esperienza? Senza sentirsi in colpa? Sul toccare lo sporco non ho dubbi, è sacrosanto, ma sul resto come ci regoliamo?
Grazie Pierluigi per la tua chiarezza e semplicità nell’esporre un argomento così complesso (ma forse in realtà è complesso per il nostro ego) come la malattia, che in realtà mi pare di capire, semplicemente non sappiamo cos’è, e non è detto che sia così complessa come noi immaginiamo.
Nelle tue parole, si percepisce molto il desiderio di aderire alla realtà umana nel suo complesso, prima che alle tecniche che oggettivizzano la malattia e il malato, e conoscendoti un po’, so che questo aspetto è proprio presente nel tuo pensiero.
Un medico che parla di sé, è una persona che scende dall’immaginario collettivo, che si stacca dall’immagine di se come figura di questo mondo, che in questo mondo cerca il suo senso, per “incarnarsi” un po’ di più nella realtà, alla quale cerca di dare senso, questa mi pare possa essere un esempio di figura professionale nel campo sanitario, un uomo/donna che cerchi di essere più salutare prima che sanitario/a.
Per mia esperienza personale, posso dire che la paura nelle mie esperienze di malattia ha avuto un ruolo determinante,
direi azzardando, che la mia malattia è la paura, cosa sia poi a livello clinico non so, come questo diventi patologia nel corpo biologico, disturbo, non lo so, ma di me penso questo.
Sullo stimolo di Mariella, mi viene da dire, che il problema non è cosa dicano o facciano i bambini, i giovani, noi adulti, ma come dice Marco Guzzi, il punto del discrimine è la nostra libertà, il punto cioè in cui noi diamo o non diamo senso alle cose che diciamo o facciamo, a ciò che sentiamo, questo è il più grande e tremendo potere nelle mani dell’uomo, la sua grande pretesa… dare senso.
Per poter usufruire di questa libertà è necessario a mio avviso, contattare di continuo i propri desideri più profondi, ed aiutare i giovani a fare altrettanto, ricondurre di continuo al proprio ascolto.
All’ascolto di sé, fino all’ascolto del Sé.
Un caro saluto a tutti ed un ringraziamento a Pierluigi per queste riflessioni umane.
Stefano
Grazie Mariella e Stefano per i vostri commenti e le vostre riflessioni. Per quanto riguarda le esperienze dei nostri figli che consideriamo negative sottoscrivo quanto espresso da Stefano e provo ad esprimere ciò che penso. Intanto mi chiederei perché non dovrebbero farle. Se la loro incolumità dovesse essere messa a rischio, ovviamente come genitore (o educatore in altri contesti) sarei chiamato a proteggerli. Mi chiederei da dove vengono le mie preoccupazioni in merito alla loro condotta, quali rischi deriverebbero da essa, ma anche quali potrebbero essere le conseguenze di una repressione. Come scrivevo nel paragrafo citato da Mariella, abbiamo imparato ad evitare il male, ma secondo l’interpretazione che ci è consentita di esso. Per esempio cosa c’è di male nell’arrabbiarsi ed urlare? La discussione potrebbe essere molto lunga.
Caro Stefano, grazie per quanto scrivi, hai centrato il messaggio. La malattia è un mistero, come lo è la morte, o la nostra libertà con la possibilità di sbagliare. Mi sembra proprio che abbia a che fare con la scissione originaria, o la caduta, di cui le grandi culture religiose parlano.
Non scenderei in particolari che esulerebbero dagli scopi di questo spazio e rischierebbero brutte interpretazioni, ma la malattia può essere studiata e vista in vari modi. E’ compito del medico conoscere e approfondire, ascoltando e studiando, ogni singolo caso a lui sottoposto, ed aiutare la persona a fare le scelte migliori per cercare le vie della guarigione. Nel prossimo articolo vi proporrò alcuni elementi che possono aiutare (spero) a riflettere ulteriormente sulla complessità di questa materia e a non sottovalutare le sue componenti meno conosciute.