«Questo è il giorno del Signore», disse così piano che tanto più forte suonò la voce del padre che lo interrompeva: «una recita si comincia con un inchino, figlio mio! E poi a voce più alta. Per favore, da capo! “Canto domenicale del pastore”… ».
Era una crudeltà, e il senatore sapeva bene che così toglieva al bambino l’ultimo residuo di sicurezza e di volontà di continuare. Ma il bambino non se lo doveva lasciar togliere! Non doveva farsi mettere in imbarazzo!doveva acquistare fermezza e virilità… «“Canto domenicale del pastore”!…» ripeté inesorabile e incoraggiante…
Ma per Hanno era finita. La testa reclinata sul petto, si teneva spasmodicamente aggrappato al broccato delle portiere con la manina destra, pallida, venata sul polso, che spuntava dalla stretta manica blu scuro alla marinara, ornata da un’ancora ricamata. «Sono solo nei vasti campi», riuscì ancora a dire, e poi fu la fine. […]
«Oh, bel divertimento!», fece il senatore, duro e irritato, e si alzò. «Perché piangi? Ci sarebbe da piangere al pensiero che neanche in un giorno come questo sei capace di trovare l’energia per darmi una gioia. Sei forse una femminuccia? Che sarà di te se vai avanti così? Hai forse l’intenzione di scioglierti sempre in lacrime quando dovrai parlare alla gente? …»
(Thomas Mann, I Buddenbrook, Parte VIII)
Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza. La de-composizione. Hanno ne incarna l’epilogo ultimo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Del resto il cortilegio di falsi valori si era già ridotta nel senatore Thomas Buddenbrook, padre di Hanno, a fragilissima scorza esterna, a maschera esteriore sotto cui si celava una ben più cupa disperazione, un pessimismo che non sapendo confessarsi a sé stesso, infieriva – come nel dialogo riportato – con incredibile crudeltà sul figlio. In Hanno poi esplode, rovesciandosi in morbosa ipersensibilità, autocommiserazione, totale inadeguatezza alla vita. E Hanno ne muore, sotto forma di disfacimento fisico prodotto dal tifo: «Così si manifesta il tifo: la vita chiama con voce inconfondibilmente incoraggiante nei lontani sogni febbrili del malato ardente e smarrito. […]. Ma se sussulta di paura e di avversione sentendo la voce della vita, se quel ricordo, quel gaio e provocante suono, gli farà scuotere la testa e tendere la mano dietro di sé per respingerlo e lo farà fuggire sulla via che si è aperta…no, allora e chiaro, egli morirà.».
Leggo e mi chiedo: che malattia è mai questa, che polarizza in noi le figure di Thomas e Hanno, di padre e figlio, di aguzzino e vittima di noi stessi? Cominciamo con l’accogliere la suggestione di Thomas Mann: questa è una malattia ereditaria, che si tramanda di generazione in generazione, come le maledizioni bibliche, fino a quando, sempre più virulenta, provoca la morte. Con questa malattia, insomma, non si scherza. Perciò la qualità di questa disperazione va capita a fondo, se vogliamo individuare la formula retro virale. Come Hanno, noi siamo “fragilissimi”: oscilliamo tra un nevratile equilibrio esterno difensivo e un’interiorità che lascia spazi sempre più ampi alla malinconia e alla depressione. Siamo, per così dire, una generazione di efficientissimi depressi, dediti di giorno a competere e sgomitare in nome della performance e dell’autoefficacia, in un mondo sempre più esigente e giudicante, e di notte a coltivare incubi di regresso verso il grembo delle nostre madri. Adulti irrigiditi e bellicosi in difesa di bambini rattrappiti nel terrore. Le ricette che vanno per la maggiore acuiscono, ahinoi, il male: non servono devozioni, fondamentalismi antichi e nuovi, brandelli di identità e certezze più o meno novecentesche a cavarci da questi impicci. Nel brano letto, non è forse una preghiera “cristiana” lo strumento di tortura in mano all’aguzzino?
Occorre forse stare in questa crisi. Essere, se possibile, più critici di ogni critica, più scettici di ogni scepsi, più atei di ogni ateismo. Scendere nel luogo stesso dell’assenza di Dio (e della sottrazione dell’Io) che è questa nostra intimità ferita. E in questo risalimento all’origine superare in regressione la psicanalisi, verso contenuti ancora più arcaici dei nostri dolorosi traumi. Lì troveremo il luogo (benedetto) della nostra integrità. Questa è la radice del nostro lavoro. E di ogni cura e (quindi) di ogni spiritualità.
Bisogna stare nella crisi, ma riempirla di senso, a palate!!!
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Rispondo per ora personalmente al tuo intervento intitolato Hanno Buddenbrook perché ho trovato una forte risonanza con un libro appena letto di una psicoterapeuta (ovviamente) controcorrente, Alice Miller: Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé.
Tra l\’altro lei ha analizzato le biografie di scrittori famosi e avanza considerazioni simili alle tue, seppure da un punto di vista differente.
Anch\’io penso che in qualche modo occorra risalire a \"contenuti ancora più arcaici dei nostri dolorosi traumi\": la cultura attuale impone copioni di vita mortificanti della vitalità e originalità di cui è dotato l\’essere umano.
Lo riscontriamo nei luoghi di lavoro, di scambio, di pastorale, insomma ovunque la vera espressione del sé
risulterebbe inquietante per il sistema.
Con il risultato di trasformarli in non-luoghi. Non si tratta secondo me di ritrovare una patria che forse
non c\’è mai stata, quanto piuttosto di riprendere contatto con
una interiorità nativa rinunciando a interpretare canovacci scritti da altri.
In tutto questo, poiché bisogna conumque sopravvivere nel
contesto sociale, occorre anche una faticosissima opera di mediazione distinguendo continuamente tra ciò che ci appartiene da ciò
che è altrui.
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Che splendide riflessioni che si trovano nel archivio D.P. Grazie!