Da ormai 2 anni, questo è il terzo, partecipo a dei gruppi sperimentali di autoconoscimento e di iniziazione cristiana guidati da un laico, Marco Guzzi, poeta e filosofo. Mi viene chiesto di raccontare l’esperienza di questi gruppi, i contenuti e soprattutto il metodo che li anima, attraverso la forma di una testimonianza personale. Ed è bene che sia così, perché è un’esperienza in cui sono attualmente e fortemente coinvolto, e non riuscirei a raccontarla asetticamente.
Ma soprattutto perché credo che il modo migliore per farvi capire davvero di cosa si tratta, sia quello di raccontarvi cosa significa e ha significato per me. Quali effetti, quali benefici sulla mia vita. Allo stesso tempo, la mia presentazione ne risulterà necessariamente parziale e non esaustiva. Ma per chi fosse poi interessato ad approfondire ci sono un sito internet e soprattutto due libri – 2 manuali – scritti nel tempo per raccontare il lavoro di questi gruppi. Prima di cominciare il mio racconto, anticipo qualche brevissima coordinata. I gruppi si incontrano circa 2 volte al mese, la domenica mattina. Questi incontri costituiscono un percorso organico di tre anni che prende il nome di “Darsi pace”. Si svolgono presso l’Università Salesiana e vi partecipano persone molto diverse tra loro, credenti e non credenti, provenienti da mondi ed esperienze le più disparate. I gruppi “Darsi pace” sono iniziati circa 8 anni fa.
Per iniziare il mio racconto ho pensato di riprendere il primo appunto segnato sul mio diario spirituale, che ho cominciato a tenere dall’inizio del corso su indicazione precisa di Marco (e questa, se volete, è già una prima indicazione di metodo…). C’era scritto: “La pace vera scaturisce solo da un lento e continuo processo di trasformazioni interiori”.
Qui c’era già tutto, o comunque molto, dei motivi che mi hanno portato ad affacciarmi ai corsi di Marco Guzzi e che mi hanno poi conquistato. C’erano, infatti, in questa frase le mie due aspirazioni più profonde di quel tempo, due desideri, due aneliti, due bisogni allora ‘disperati’ e ‘disperanti’: la pace e il cambiamento, il cammino interiore.
Mi ricordo un episodio di 2 anni prima, era l’estate del 2003, in vacanza in Val di Funes con mia moglie, Maria Cristina, che aspettava la nostra seconda bimba, Elisa, mentre Giosuè, il primo, non aveva neanche 2 anni. Era sera e sui tavolini dell’albergo, in uno dei rari momenti di libertà – il piccolo dormiva – io e mia moglie parlavamo e ci confidavamo. Ed io mi ricordo che proprio lì espressi per la prima volta con lucidità e sofferenza l’inquietudine per la mia ‘immobilità’ interiore; per il fatto cioè che da tempo, ormai, nonostante la mia vita da cristiano dentro una comunità cristiana (la ‘migliore’ parrocchia di Roma, l’innovativa fraternità delle famiglie…) io non mi sentivo più crescere, mi sentivo ‘stagnare’, senza riuscire a venirne fuori. La vita cristiana, i cammini formativi, comunitari e personali, non mi formavano più. Ripensandoci ora, potrei scorgere in quella immobilità spirituale la prima manifestazione a me stesso di una morte emotiva, di un abbandono della vitalità, di una particolare ‘depressione’ che solo molti mesi dopo riconobbi con una evidenza non più aggirabile. Così come, molti mesi dopo, l’inquietudine si fece turbamento, il turbamento panico, il panico disperazione. Disperazione muta, morte interiore, sordità completa alla Parola di Dio.
Era scoppiata nel frattempo la vita. La nascita di Elisa. La stanchezza per la gestione di 2 bimbi piccolissimi. La crisi di mia moglie e con mia moglie. Nel ‘tunnel’ (come lo chiamavamo noi) avevo perso completamente la pace del cuore e non sapevo più dove cercarla. Nella fede? Nella preghiera? Nella Parola? Qui mi torna alla memoria un’altra immagine. In parrocchia, un pomeriggio di ‘fraternità’, condivisione per gruppi. Dico al mio parroco e a chi era nel gruppo con me all’incirca queste parole: “Cerco il volto di Dio e non lo trovo. Ho bisogno di lui per trovare la pace ma non riesco a trovarlo. La sua Parola è come fosse muta per me. Non tocca il mio cuore. E’ come se tra il suo volto e il mio ci fosse in mezzo qualcosa. Come se i miei problemi familiari si fossero messi davanti ai miei occhi e mi impedissero di guardare i suoi”.
In questa situazione che vi ho descritto, capite che il titolo di questi corsi – “Darsi pace” – mi sembrò come un oasi nel deserto. Al massimo rischiavo un miraggio. Trovai invece finalmente ristoro. E il primo ristoro fu che per la prima volta da tanto tempo riuscii a togliermi dalla testa e dal petto – per un solo secondo – il peso di tutti i miei pensieri. Attraverso le prime esperienze di meditazione avevo ricominciato a ‘respirare’ ed era come se fossi stato in apnea chissà quanto tempo. Un solo secondo di libertà, di leggerezza – grazie alla meditazione – è stato sufficiente per sperimentare che io ero di più dei miei pensieri, che c’era di nuovo uno spazio – anche solo uno spiffero – da dove poteva passare l’aria per respirare, dove si poteva forse intravedere finalmente lo sguardo di Dio.
E poi la ripresa del cammino interiore, il secondo ristoro. Dopo un anno di lavoro nei gruppi avevo scoperto in me così tante magagne (io che faticavo a trovare dei peccati per i quali confessarmi! Che ero sempre tanto bravo, ero ‘quello’ bravo) che avevo ora solo l’imbarazzo di scegliere da che parte iniziare a lavorare. Mi ricordo che pensai: è come avessi aperto finalmente la mia stiva e fossero usciti una marea di “topoloni”. C’erano anche prima, mi appesantivano, mi condizionavano, ma non li vedevo, non sapevo di averli con me. Ora non mi restava che rincorrerli – il cammino che cercavo…
Cosa si fa nei corsi – Il metodo
Da quanto avete sentito avrete capito o intuito che nei gruppi si fanno pratiche di meditazione (che nel corso del tempo diventano pratiche di preghiera) e si fa un lavoro di approfondimento psicologico personale. Terza cosa: si cercano chiavi interpretative per capire il mondo, il tempo, la storia. La mia storia, la mia crisi personale, anche la mia crisi di coppia, dentro la crisi più grande del mondo. Un racconto del mondo che ridà senso e speranza alla mia esistenza. (Qui c’è il Guzzi poeta e filosofo, che su di me ha un fascino indubbio ma se vogliamo più ‘scontato’, visto la mia formazione).
Qual è allora il metodo, l’idea dei corsi? Approfondire e integrare tre aspetti fondamentali e costitutivi dell’umano: il livello spirituale, quello psicologico-affettivo, quello culturale.
L’obiettivo: intraprendere un cammino concreto di maturazione integrale della persona, di ‘liberazione’ dalla condizione di alienazione che tutti viviamo (in quanto uomini in generale – per natura “non di questo mondo” – e in quanto uomini d’oggi, tempo di estrema alienazione). Questo cammino, questa lotta, questo ‘lavoro’ di liberazione e di trasformazione (in Cristo) dà la vera pace.
La strada di questo cammino, il punto di partenza e di arrivo, il ‘materiale’ di lavoro è il cuore dell’uomo, il cuore delle persone. Quest’ultima è un’altra indicazione di metodo importante. E’ il cuore con il suo palpito emotivo più profondo che dobbiamo porre prioritariamente al centro di ogni formazione. Se il mio cuore è ferito, pieno d’odio e di paura – e per giunta non ne sono consapevole – a cosa mi servono le parole anche belle sull’amore e persino su Dio?
Ma chi si prende cura oggi dei cuori, delle ferite profonde? Chi prende in braccio il bambino ferito che è in ognuno di noi? Eppure solo un cuore pacificato nell’amore e alimentato dalla gioia può compiere il bene e conoscere la verità.
Le ferite del cuore.
Tutto il lavoro di aut
o-conoscimento, di approfondimento psicologico è orientato a ‘riconoscere’ (a guarire ci penserà Qualcun altro) le ferite del cuore. Che sono profonde e precise, risalgono molto spesso alla nostra infanzia e sono all’origine di tutti i nostri mascheramenti, quelle strategie di difesa (e di attacco) che abbiamo imparato ad attuare fin da piccoli per fuggire il dolore e guadagnarci l’amore degli altri. Riconoscere e infine deporre queste maschere, liberandosi al contempo dalla loro ombra distruttiva, è l’obiettivo del lavoro di auto-conoscimento. Lavoro che si compie attraverso veri e propri esercizi – personali o di gruppo – mutuati dalla pratica psicoanalitica e riadattati al contesto, a volte reinventati.
Il livello culturale: tempo di crisi.
Su questo ho già detto qualcosa prima e non aggiungerò molto altro. Anche perché il lavoro culturale, pur facendo parte integrante del corso, può giovarsi anche del lavoro a casa sui testi, oppure della partecipazione alle conferenze su diversi argomenti. Qui mi limito allora all’idea fondamentale. Viviamo un tempo evidente di crisi, a livello planetario. Crisi di insostenibilità politica (le guerre, il terrorismo), economica, ambientale, culturale (nichilismi e fondamentalismi), religiosa ed esistenziale (la diffusione di ‘massa’ della depressione). Dentro questa grande crisi ci sono anche le nostre crisi personali, coniugali, familiari, parrocchiali, educative, ecc…
Tutto crolla ma non tutto è perduto. Tutto crolla perché in fondo deve crollare.
Evangelicamente: gli otri vecchi si spaccano perché servono otri nuovi per il vino nuovo. E’ un tempo apocalittico, dunque, quello che viviamo. Tempo di speranza, tempo di trasformazione, tempo cristologico: sta nascendo un’umanità nuova, un io nuovo, fondato su un’identità non più bellica ma coniugale. Dietro la crisi del matrimonio, ad esempio, si può leggere un desiderio di verità, di libertà e di intimità inauditi rispetto al passato.
Arriviamo quindi al livello spirituale. Il livello da cui tutto parte e tutto arriva. Qual è l’obiettivo dell’approfondimento spirituale? Un obiettivo concretissimo: diventare più liberi e più veri. Il lavoro spirituale nei gruppi è inteso come vero e proprio lavoro, una pratica nel senso letterale del termine. Il lavoro interire è cioè un lavoro pratico, materiale: assomiglia al lavare i piatti, al cucinare le patate. La pratica spirituale non è dare contenuti alla mente (intellettualizzazione delle fede o indottrinamento), ma cambiare la forma mentis – metanoia – vera conversione (mentale e non morale).
Qui c’è un’altra indicazione di metodo fondamentale: l’integrazione tra piani formativi e trasformativi. Se la formazione, tanto più quella spirituale, non è anche trasformazione e liberazione, non è la formazione che ci interessa, perché diventa inevitabilmente astratta. Esiste solo una conoscenza per trasformazione. Anche Dio, soprattutto Dio, lo conosco solo nella misura in cui divento Dio.
La meditazione-preghiera è proprio il ‘luogo’ dove facciamo la nostra esperienza di trasformazione. Il luogo dove entriamo in comunione col mistero del nostro io, dell’infinito che ci abita. Il luogo in cui ‘sintonizzarsi’ con la voce di Dio, con la sua Parola.
L’obiettivo dei corsi è quindi sviluppare un’attitudine meditativa frutto di una pratica meditativa quotidiana. Ritrovare la propria ‘centralità meditativa’, ‘areazione interiore’, una sorta di ‘monachesimo interiore’.
Ma come? Nell’esperienza dei gruppi si dà molto importanza al come della preghiera e della meditazione, normalmente trascurato nei percorsi tradizionali di catechesi e formazione. Si spendono molte parole sulla pratica – prima, durante e dopo ogni esercizio di meditazione – da un punto di vista teorico ma anche ‘pratico’, di condivisione dell’esperienza fatta. Questo fatto è di per sé una delle novità più grandi e caratteristiche di questi corsi. Ciò che ci accade quando chiudiamo gli occhi e facciamo silenzio non è lasciato al caso, ma è spiegato, raccontato, verificato, condiviso, sostenuto. Ed è particolarmente feconda a questo livello l’integrazione con il lavoro psicologico. Perché il lavoro di riconoscimento delle proprie emozioni, dei pensieri, dei meccanismi difensivi abituali, aiuta la mente a non farsi ingannare, a liberarsi dai condizionamenti. L’autoconoscimento psicologico delle nostre distorsioni profonde purifica la nostra vita spirituale, le dà corpo e concretezza, la aiuta ad incarnarsi. Senza paura di addentrarci nelle zone nascoste e remote della nostra mente, e della nostra storia, perché “per arrivare nell’alto dei cieli bisogna scendere al centro di noi stessi, bisogna passare per gli inferi”.
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