Tre passi:
l’indugio o del contemplare, il saper raccogliere ed ascoltare
Parto dal raccogliere e attraverso l’indugio arriverò all’ascolto.
Non ho aspirapolvere. In una piccola casa posso permettermi il lusso di usare ancora scopa, paletta, panni di lana o i più moderni attira polvere.
So bene cosa vuol dire raccogliere.
Potrei zoomare ogni singolo gesto.
So bene che richiede pazienza, fatica, piegarsi.
Piccoli gesti ripetuti affinché alla paletta non sfugga un grano di polvere, ed il passare e ripassare il panno perché l’invisibile venga catturato e si renda visibile attaccato al panno.
Anche per gli invisibili strati di polvere e acari del nostro mondo interiore occorrerebbe la stessa attenzione.
A quale panno si renderanno visibili e con quanto chinarsi s’aggrumeranno per rivelarci ciò che occorre buttare via inesorabilmente e ciò che può essere riciclato e reso utilizzabile dal laboratorio creativo della sobrietà del cuore?
C’è un piegarsi della testa e del tronco.
C’è un orientare lo sguardo in basso, dentro, a fondo.
C’è un chinarsi e non rifiutare di vedere ciò che va radunato e raccolto con la paletta umile della compassione.
Noi siamo anche questo: esseri con scorie del corpo e dell’animo, esseri che lasciano traccia di sé con ciò che da sé si sfoglia, si stacca…
E non tutte le tracce sono sottoponibili a riciclaggio: qualcosa andrà nella rumenta, qualcosa bruciato.
Ma raccogliere vuol dire anche ri-accogliere.
Accogliere di nuovo.
Accogliere ancora.
Se non è una ripetizione nevrotica, è un esercizio di speranza.
Ci sono cose dimenticate che, quando riaffiorano, vanno ri-accolte.
Accolte un’altra volta, ma con gli occhi di oggi.
Accolte e rilette per vedere cosa farne o per capire ancora qualcosa di noi.
Ci sono cose tralasciate che, una volta di nuovo sotto i nostri occhi, vanno ri-prese.
Guardate e riprese.
Soprattutto quei brandelli che giungono dall’infanzia vanno accolti come fuoco per la fucina d’ogni nostra piccola o grande trasformazione.
Questo passo del raccogliere giocato nel dentro, fra i muri di casa, e dentro la casa del sé è una sorta di apprendistato continuo a stare dentro la vita, dentro le cose, dentro le relazioni.
Antidoti alla fuga.
C’è una collega, accanto a me, che indugia sovente.
Ed io sovente ho la tentazione di fare al suo posto o di sbrigarmela dicendole cosa c’è da fare.
Per fortuna non sempre cedo a quella tentazione e ogni tanto mi fermo pure io e sto a vedere dove porta l’indugiare.
E’ una fine arte di oscillazione l’indugio: una sorta di sospensione dell’agire e del dire, in cui possiamo fare come l’equilibrista che trova il punto giusto per non cadere tastando l’aria con le braccia, a est e a ovest.
Se si indugia in silenzio si evita di dire la prima sciocchezza che ci frulla in testa.
Se si indugia rallentando il passo, quasi per rivedere la direzione dei passi compiuti o per approcciare i primi passi avanti, si evita di calpestare qualcosa o qualcuno che è lì prossimo a noi.
Si indugia con lo sguardo e si può vedere più a fondo, più lontano.
Si indugia nel decidere e con pacatezza si da il tempo che altre possibilità ci vengano incontro, possibilità insolite là dove avremmo visto le solite due opposte l’una all’altra.
Se si indugia nel dialogo non ci si appropria degli spazi altrui e si ascolta davvero:
quasi ci si ritrae un poco per abitare il dentro delle parole nostre e dell’altro.
Si indugia per trovare i modi della restituzione e per cogliere i tempi del dire grazie.
L’indugio è come se facesse vedere a fondo partendo dal dubitare, e non permettesse al dubitare di inacidirci, indurirci, bloccarci.
E’ una virtù vestibolare e delle soglie, ci porta a un passo da ciò che è importante e ce ne fa percepire l’atmosfera.
E’ benefica se si fidanza con l’attenzione e non ci lascia preda del tentennare.
Ed è anche attraverso l’indugiare attento che le orecchie sanno farsi più grandi e cave per ascoltare i gemiti e i mormorii sotto la pelle del mondo, degli uomini e delle donne che ci camminano accanto.
Ascoltare i giorni , le persone, le cose e non genericamente.
Ascoltare ciò che porta questo giorno, questa persona, questa cosa.
E così ascoltare è un po’ come leggere tra le righe, tra le pieghe.
Ascoltare i processi in noi verso la semplicità e leggerne il ritmo.
Ascoltare i desideri e leggerne i sentieri per sperare di discernerli con i tre fili della compassione, dell’amore per il vero e dell’affidamento alle viscere d’amore di chi sa amare noi più di noi.
Non c’è nulla di bello e buono che vive fuori di noi che non entri in noi se non con l’ascolto; e nulla che seminato arrivi a fioritura.
Se c’è una preghiera che oso fare con insistenza è quella di imparare un poco a saper ascoltare.
Quando ci riesco mi sembra d’essere appoggiata ad un poggiolo e il panorama non è mai banale.
Grazie, carissima Eva, grazie per la precisione delle tue parole.
Scrivere bene significa essenzialmente precisione, lo diceva Paul Celan della scrittura poetica.
Ma vale per ogni scrittura, ed anche per ogni nostro dire.
Semplicità e precisione. Misura che dà potenza.
Potenza di verità che viene da un’attentissima osservazione della propria esistenza.
Senza fretta. Indugiando. Aspettando fino a quando la cosa osservata non divenga evidenza, insegnamento.
Raccogliere con la paletta la polvere interiore, piegandoci ogni giorno con nuova umiltà.
Un’immagine che resta.
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ho vissuta una strana esperienza, dopo una cerimonia funebre mi è stato donato un Kg. di sale. Pare che sia la tradizione…
Solo con la morte
d’Elsa, m’hai donato
il sale. La sapienza Tua
e della Valle. Tempi
antichi e lenti accolgono
l’abbondanza e la fanno
nell’Eterno circolare.
letta