Secondo gli ultimi dati statistici il 50% della popolazione mondiale dichiara di aver avuto, nell’ultimo anno, almeno un’esperienza di insonnia; nel nostro Paese la percentuale sale al 64%.
Sempre più svegli e sempre meno presenti, sempre più iperattivi e sempre meno consapevoli di dove siamo e di cosa facciamo.
Costretti a ritmi frenetici, ad affrontare mille impegni, preoccupati di essere efficienti, all’altezza, la nostra mente è sempre proiettata altrove e non siamo quasi mai presenti la dove siamo: un recente fatto di cronaca ne da una triste conferma. Viviamo sempre più fuori ‘casa’, assenti a noi stessi.
Uno dei sintomi di questo ritmo disumano di vita che altera l’equilibrio biologico dell’organismo è l’insonnia. Siamo sempre in allerta.
L’insonnia prolungata condiziona fortemente la vita sociale della persona: rende stanchi, irritabili, meno disponibili alle relazioni; crea seri problemi fisici e mentali, riduce il livello di attenzione, la capacità di concentrazione e di memoria; causa assenze dal lavoro, riduzione di produttività; è causa anche di numerosi incidenti stradali e sul lavoro.
L’insonnia può essere considerata una vera e propria emergenza sociale. Tonnellate di farmaci vengono consumati per combatterla; ma l’insonnia segnala un mal-essere, anziché spegnere la spia con farmaci, bisognerebbe comprenderla, entrare in dialogo con lei, farsela amica.
Se la ascolto mi riporta a casa, mi rivela cosa mi tiene in ansia, di cosa ho paura.
I dati statistici relativi all’insonnia, all’ansia e al livello di paura avvertito nella popolazione appaiono correlati.
Una paura nascosta nel profondo genera uno stato di ansia e attiva modalità automatiche di difesa.
Dalla ferita di origine la paura è l’emozione principale che caratterizza l’essere umano.
“Ho avuto paura e mi sono nascosto” è la risposta di Adamo.
Dal peccato di origine tutti, in misura maggiore o minore, ci siamo strutturati intorno alla paura e alla necessità di difesa; tutti abbiamo sviluppato strategie difensive più o meno rigide.
L’io egoico nasce da una ferita e dalla paura scaturita da quella ferita.
Portare a consapevolezza la paura iniziale e il modo in cui abbiamo imparato a difenderci è un lungo cammino che ci riporta alla verità di noi stessi, alla nostra integrità: è quanto facciamo nei gruppi Darsi Pace.
L’ansia libera, non focalizzata, è uno dei segni del nostro tempo. Il livello di evoluzione raggiunto dall’umanità sta portando via via a livelli più superficiali di coscienza paure prima completamente rimosse, paure che i nostri padri e i nostri nonni non conoscevano, e questo genera uno stato di allarme, di ansia libera che cerca vie di scarico.
Le improvvise esplosioni di violenza che la cronaca quotidianamente registra sono forse una reazione di paura contro contenuti rimossi che stanno salendo alla coscienza, e dai quali ci si difende proiettandoli su un nemico esterno?
La paura è epidemica, è come un virus, passa dall’uno all’altro. Una paura che cresce diventa panico, e gli attacchi di panico sono oggi in aumento, e sono contagiosi: le guerre preventive sembrano espressione di attacchi di panico collettivo, di una paura esistenziale non più contenibile che chiede di essere in qualunque modo scaricata.
Ma a volte la scarica è inibita e l’ansia/allarme evolve verso la depressione.
L’aumento degli stati depressivi è un altro segno del nostro tempo, segno evolutivo di una nuova coscienza che sta faticosamente emergendo nell’umanità: una coscienza che non reagisce più automatica-mente, attraverso l’attacco o la fuga, ma è capace di fermarsi, di tollerare l’ansia dell’incertezza, la sofferenza del dubbio, nell’attesa di trovare modalità nuove, più libere, di risposta.
Io appartengo alla grande famiglia degli insonni e sembro refrattaria a qualsiasi rimedio.
All’origine un trauma vissuto da piccola: avevo meno di due anni e una mattina mi sono ‘persa’, sono stata ritrovata a sera inoltrata. Da quella paura, vissuta quando ero ancora piccolissima, quindi non mentalizzata, la difficoltà ad addormentarmi.
Nel micro il macro. Nel trauma vissuto da piccola vedo una parabola della vicenda umana: dalla ferita d’origine l’umanità si trova lontana da Casa, ‘smarrita’, in preda alla paura e all’angoscia; costretta ad orientarsi da sola in un mondo buio, sviluppa una mente iperattiva che amplifica le sue funzioni per difendersi e controllare un ambiente ostile: rivolge tutta l’attenzione fuori di sé e perde la coscienza di sé.
Ma adesso si trova ad un punto di svolta, è chiamata a realizzare un salto evolutivo, un passaggio di stato: da una modalità chiusa/difensiva di vivere la propria soggettività ad una modalità aperta alla fiducia e alla relazione.
L’umanità sta vivendo un grande travaglio, ciascuno di noi è in questo travaglio, e quando il parto è in corso non si può dormire, bisogna essere svegli, collaborare, spingere, e nello stesso tempo abbandonarsi al processo, non controllare.
Consapevolezza e abbandono fiducioso, queste le qualità spirituali richieste per realizzare il passaggio antropologico in atto; qualità controfigurate dall’insonnia e dal coma, da uno stato di ipervigilanza difensiva da un lato e da uno stato di incoscienza (coma spirituale) dall’altro.
Nei gruppi Darsi Pace lavoriamo per favorire in noi e intorno a noi questo passaggio evolutivo: la nascita della Nuova Umanità Relazionale capace di vivere in pace.
Carissima Giovanna, scrivi cose davvero importanti e precise: un’analisi sconvolgente di alcuni caratteri cruciali del passaggio antropologico in atto.
Mi colpisce la distorsione della consapevolezza e dell’abbandono, necessari alla trans-figurazione, nell’insonnia e nel coma di un ego bloccato nelle sue paure o nella sua incoscienza.
Mi pare inoltre che l’insonnia ci parli di una crescente paura della morte, e dell’abbandono finale che essa evoca.
Forse per questo spesso l’insonnia aumenta con l’età? Sale un’antica paura rimossa, mentre si avvicina il momento del distacco?
Probabilmente dovremmo imparare a morire fin da giovani, per vivere meglio, e crescere nella libertà dello Spirito.
A venti anni scrissi questo verso:
“Da stamattina morto mille volte
e mille volte ancora poi rinato.”
La pratica meditativa d’altronde è una continua esercitazione a morire.
Forse è lì che potresti concentrare un po’ il tuo lavoro. Nell’espiro spirare un po’ di più, limare le inferriate che bloccano l’abbandono.
Senza alcuna fretta, e senza alcuna pretesa.
Espiro dopo espiro, imparare a godere del mollare la presa, ogni presa.
E poi penso anche all’acqua, al nuoto, all’immersione. Credo che l’acqua ci aiuti molto ad abbandonarci, a scoprire che quel gesto quasi di morte che è la perdita del controllo non ci distrugge per niente, ma ci dà una nuova leggerezza.
In fondo galleggiare non è proprio questo?
E non è solo un morto che resta a galla?
Come vai a nuoto?
Un abbraccio. Marco
Cara Giovanna, grazie.
Io non soffro d’insonnia (un tempo d’ipersonnia che poi è solo l’altra faccia…) ciò nonostante in alcuni periodi della mia vita, quelli in cui andavo sempre più giù verso gli attacchi di panico (che in me sin dall’infanzia si sono manifestati come crisi d’assenza) mi ridestavo alle tre del mattino con un groppo SOFFOCANTE alla gola, che dovevo delicatamente massaggiare per sciogliere infine nelle lagrime, riprendendo la possibilità di respirare.
Non l’ho mai considerata insonnia.
Sapevo che erano il mio corpo ed il mio inconscio che avevano una parola da dirmi e ne ero, PARADOSSALMENTE contenta; qualcosa dentro di me non si era ancora totalmente ARRESA AL NULLA, nonostante fossi, impotente a risolvere, IMPOTENTE a sciogliere una volta per tutte.
LA SOLUZIONE appunto, lo scioglimento nelle lagrime, l’agivo anche se in modo stereotipato…
Bene, tutto questo ora appartiene al passato; ma, proprio in questi giorni ho un’angoscia che desidera salire a parlarmi, che desidera essere risanata, ma che non mi riesce di riconoscere in modo adeguato. Ci ho dedicato tre giorni di solitudine ma non è proprio andata: sto ancora a questo punto… e non mi reputo insonne.
Forse funzioniamo così, quando il nostro mondo interiore reclama di pronunciare la parola necessaria alla nostra vita ce la propone nel sonno, ma, le nostre difese sono tali da non POTERLA/volerla ASCOLTARE.
Ci vuol pazienza.
L’intervento di Marco mi ha colpito per la faccenda del nuoto: io ho imparato a nuotare in piscina a 43 anni e l’unica questione che mi ponevo era: “non è che mi dimenticherò di respirare ed annegherò sorridendo?”, tanto mi sentivo beata, quello era proprio il mio elemento naturale
Oggi non posso più entrare in acqua, per un problema agli occhi ed al cloro, avessi imparato a nuotare da sola con la testa fuori dall’acqua, ma ti pare… perfezione… .
Ebbene ritengo che per me fosse facile morire, desiderabile direi… come l’ipersonnia.
Mi pare che la tua intuizione/ipotesi di lavoro, stia maturando prendendo forma e spero di abbracciarti di persona per parlarne insieme. Lo sai che : mi perdo FELICEMENTE in chiacchiere.
Con affetto
Rosella
Cara Giovanna,
mi ritrovo assai in ciò che dici. Per me fin da piccolo il sonno ha rappresentato un pozzo buio e senza fondo, un pericolo. Non soffro d’insonnia ma d’incubi sì, e in generale d’una perenne agitazione. Del resto non è un caso, credo, che io non riesca mai ad abbandonarmi neppure alla meditazione. Ciò che è silenzio, stasi, mi spaventa.
Nietzsche diceva, mi pare: “Quando guardi nell’abisso, l’abisso guarda in te.”
Forse il più grande problema dell’umanità occidentale è la mania di controllo, l’ossessione del controllo; da qui deriva l’insonnia collettiva, questo popolo di zombie sempre più vasto che include anche i giovanissimi, i quali si scatenano in discoteca per poi andare a schiantarsi contro qualche palo alle cinque di mattina.
Speriamo, come tu dici, di riuscire a ribaltare il negativo in positivo, a cogliere dal sintomo le indicazioni per una via d’uscita.
E voglio finire citando una delle mie frasi preferite di Rimbaud: “Ma mi accorgo che il mio spirito dorme. Se fosse proprio sveglio sempre cominciando da questo momento, presto saremmo alla verità, che forse ci sta intorno con i suoi angeli in lacrime!…”
Un abbraccio.
Enrico
Caro Marco, a nuoto vado malissimo: non ho confidenza con l’acqua e alcune esperienze negative (in cui ho rischiato di fare davvero il ‘morto’) non hanno migliorato il rapporto. Ora poi si è aggiunta l’artrosi, sicché per la pratica dell’abbandono non mi resta che la meditazione; e proprio lì verifico quanto difficile è ancora per me mollare la presa, perché non si tratta solo di pensieri, ma di pensieri somatici, pensieri vissuti nel corpo, che si manifestano con tensioni muscolari, contratture, alterazioni neurovegetative, neuroendocrine.
Io la paura non la avverto, riconosco che c’è da quello che avviene nel mio corpo.
E questo perché l’ho vissuta quando ero ancora molto piccola, quando non avevo ancora parole per esprimerla, quando non si era formata ancora la mente come contenitore dei pensieri.
L’insonnia, a mio avviso, ha a che vedere non solo con la paura della morte, ma anche con un’ansia da prestazione, con un senso di inadeguatezza unito ad una tendenza al perfezionismo: con i famosi ‘superpippa’ e ‘superpippo’ di cui ci ha parlato Andrea.
Anche questo un segno del nostro tempo: sempre di più l’umanità oggi vive il fallimento della sua pretesa di prevedere/controllare tutto, la frustrazione della propria impotenza di fronte ad eventi che sfuggono al suo controllo.
Ma in effetti dietro c’è sempre la paura della morte, della morte psicologica di un ego che non vuol saperne di morire; dietro superpippo e superpippa c’è sempre un io che resiste, resiste, a morire.
Grazie Marco. Un abbraccio. Giovanna
Carissima Rosella, è proprio così, ci vuole tanta, tanta pazienza. Abbiamo strati di emozioni sepolte nel corpo che attraverso il lavoro interiore cominciano ad emergere alla coscienza, ma non è facile riconoscerle, a volte c’è solo uno star male da accogliere e basta, nell’attesa che parli, senza fretta, senza pretese.
Accogliere un’ansia, un’angoscia, una paura, senza nome, tollerare di non sapere perché, è un buon allenamento alla pratica dell’umiltà.
Non sappiamo poi se queste emozioni siano solo nostre o le viviamo anche per altri in una sorta di mistica condivisione della sofferenza umana.
Un grande abbraccio. Giovanna
Caro Enrico, abbandonarsi è proprio la cosa più difficile.
In qualche misura tutti abbiamo questo problema perchè l’esperienza di abbandono si realizza pienamente nell’integrità, invece nella condizione di scissione in cui tutti parzialmente ci troviamo abbandonarsi suscita in noi angoscia, l’abbandono viene vissuto come esperienza di disgregazione interna, come angoscia di morte.
Il bambino apprende la capacità di abbandonarsi dall’esperienza di essere tenuto in braccio. Se è dolcemente con-tenuto impara la fiducia e la capacità di abbandono, altrimenti impara prestissimo a chiudersi e difendersi.
Tutti abbiamo ricevuto un amore malato, tutti siamo stati, in misura maggiore o minore, feriti nella fiducia e nella capacità di abbandono.
Le difficoltà che incontrano nella pratica meditativa relativamente all’abbandono dipendono dalle diverse esperienze/ferite che ci portiamo dietro.
Ma non dobbiamo scoraggiarci, abbiamo la fiducia di ricevere gli aiuti necessari a raggiungere la meta.
Ti abbraccio. giovanna
Mi è proprio piaciuta questa tua sintesi. Bella.
Avere questa consapevolezza è un enorme passo avanti. Peccato che in genere si ha dopo che ne abbiamo fatto esperienza…
insomma dopo che ci siamo fatti male (e/o ne abbiamo fatto).
La paura della morte è una sana paura, secondo me è un ingrediente della saggezza.
Hai paura di morire? Sembra che la risposta venga rimandata.
Ci va bene vivere in coma, perennamente stanchi, insonni per una vita che abbiamo deciso di vivere a chiappe strette
sacrificandola ai diversi altari oggi tanto pubblicizzati.
MI sembra però che ci sia una certa consapevolezza allo schianto finale e che molti stiano cercando di “rallentare”
e questo crea meno ansia, meno paura.
Siamo in una fase di conversione.
Mi sembra che si stia cercando di riscoprire l’essenza dell’Io Umano.
C’è da sperare e lavorare!