“Gregorio Samsa, svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo.”
E’ l’incipit folgorante de La metamorfosi di Kafka, che ho riletto dopo parecchi anni. L’ho fatto quasi con una mano davanti agli occhi, da tanto che la storia è spaventosa; forse non esiste storia più spaventosa. Ma perché è così spaventosa? Perché leggendola non ci si può sottrarre a un malessere fisico, a una sorta di conato interiore, come se la vicenda smuovesse ribrezzi sepolti in qualche luogo lontano eppure intimo?
Io credo che ciò dipenda in parte dallo straordinario realismo delle descrizioni ma anche dalla situazione in sé. Kafka ci dice: state attenti, potrete restare umani solo se accondiscenderete alla famiglia e alla società, agli usi, alle regole; se invece vi ribellerete, se oserete anche semplicemente nella vostra testa contestare l’ordine delle cose, la gerarchia delle cose, allora sarete isolati, perseguitati e infine uccisi.
La nausea esistenziale che Kafka suscita non proviene dallo scarafaggio in cui Gregorio Samsa si tramuta, ma dal disgusto che tale trasmutazione provoca negli altri, nel procuratore, nelle donne di servizio, nel padre, nella madre, nella sorella Rita e infine in noi. Questo racconto del corpo, quest’inferno della corporalità bestiale per eccellenza, è significativo che termini con la parola “corpo”. Il corpo in questione è quello giovane e sodo di Rita che i genitori d’improvviso ammirano (dopo la morte dell’insetto) nel suo sbocciare verso una procace, fertile maturità durante una gita in tram, una gita spensierata che ha il sapore del dispetto al povero Gregorio defunto, che è un dispetto a Gregorio. La materia ha vinto sullo spirito, la norma sull’eccezione.
Ecco, io credo che la fiaba nera di Kafka sia così potente perché, pur se in apparenza assurda, ci tocca laddove ciascuno di noi intuisce due cose: che se sarà davvero se stesso sarà respinto, e che però a propria volta respingerà chiunque proverà a essere davvero se stesso e dunque diverso, chiunque proverà a mettere in discussione il cosiddetto buon senso o senso comune, lo status quo insomma. Tale duplice movimento interiore è la vera lacerazione di Gregorio Samsa e di noi tutti; debbo, e non voglio essere ciò che sembro; voglio, ma non debbo essere ciò che sono.
Naturalmente nessuno di noi si sveglierà mai nel proprio letto tramutato in uno scarafaggio, ma forse più d’uno potrebbe o potrà sentirsi un poco scarafaggio o s’è già sentito tale, a tratti o di sfuggita, il tempo di dimenticarsene; e più d’uno potrebbe sentirsi come Rita, che se da principio accetta la mostruosità del fratello con eroico fatalismo, a poco a poco però cova un risentimento che sfocerà nell’aperta condanna. E’ lei, la brava figlia educata e riflessiva, che più del padre chiuso e severo e ben più della madre debole e sofferente decreta la fine di Gregorio, che lo vuole letteralmente morto per ristabilire la prassi, ovvero l’Ordine dell’Ego.
Scorrendo il racconto pensavo al fatto che l’indice dei critici e degli interpreti si punta in genere sul padre. Non mi pare: è la sorella, è la fanciulla tenue e graziosa che schiaccia senza pietà sotto il tacco d’un irrinunciabile decoro l’insetto orrido eppure implorante che fu suo fratello. Più Gregorio/scarafaggio digiuna e rinsecchisce, più Rita/bambina si fa attraente e formosa, più Gregorio precipita in una condizione subumana più Rita diviene adulta e responsabile. Essi rammentano le due metà d’una clessidra: una si svuota e l’altra si riempie.
Se Gregorio avesse eseguito un esercizio a nove punti penso che avrebbe sentito proprie tutte le ingiunzioni fondamentali, nessuna esclusa; se invece l’avesse eseguito Rita avrebbe potuto riconoscere specialmente l’ingiunzione “non essere un bambino”. Non a caso ella cresce in fretta dopo la disgrazia occorsa al fratello, talmente in fretta che non soltanto lo spodesta nel ruolo di guida e sostegno familiare (anche economico, poiché Rita durante il drammatico periodo della metamorfosi trova un impiego), ma da fanciulla timida e spaurita diventa in pochissimi mesi una “bella e florida ragazza” cui “cercare un marito.” D’altronde è forse un caso ch’ella non appaia nella prima scena, quando Gregorio esce dalla stanza rivelando ai familiari la sua nuova natura mostruosa e domandandosi angosciato dove la cara sorellina si trovi?
In definitiva io leggo nel racconto di Kafka una tremenda accusa alla società, ai suoi meccanismi ottusi, al perbenismo, al materialismo ma soprattutto ai vincoli parentali; e in particolare gli strali di Kakfa sembrano concentrarsi sugl’ingranaggi feroci della falsa condiscendenza, della difesa passiva che nasconde una distanza irrimediabile, una lontananza emotiva più crudele dell’odio. Perché se ti detesto chiaramente, se te lo dico in faccia tu potrai in qualche modo reagire; ma se ti rifiuto in silenzio, se t’abbandono a te medesimo e t’ignoro tu non potrai che accettare questo dato di fatto e morire a poco a poco in una solitudine aliena, mormorando richieste d’aiuto che somigliano a quel “pigolìo incontenibile, doloroso, che lasciava comprendere le parole soltanto in un primo momento, ma le confondeva poi talmente nell’eco da far dubitare di averle intese.”
Caro Enrico, la profondità con cui tu riesci a leggere un libro a me risulta molto difficile, quindi ti ringrazio di questi tuoi approfondimenti. E’ vero quello che tu dici, anche quando dico che frequento i corsi di Marco Guzzi, vengo presa per “strana”, anche all’interno della Parrocchia, ci sono persone che si sentono “superiori” loro sanno tutto, ti accettano perché stai lì, ma fuori, a volte, ti schivano…
Eppure ce ne sono di “scarafaggi” in giro, quasi quasi ci stiamo uniformando anche noi! Spero che con l’aiuto di Marco e dei vostri interventi, io riesca a farmi una specie di cura di “bellezza” per diventare perlomeno “bella dentro” oppure riesca a farmi accettare come ” scarafaggio” ed andare avanti serena, anche se gli altri non la pensano come me, 😆 😆 😆 oppure mi criticano “di nascosto”! In fondo in questo mondo non siamo tutti un po’ pazzi? Un caro saluto.
Caro Enrico,
la metamorfosi di Kafka (non posso crederci, ma) ho provato a leggerla anni fa, senza per altro giungere alla fine. Stavo troppo male e non avevo gli strumenti adatti a comprendere rielaborando. Già depressa di mio, non avevo alcun desiderio di aggravare tale stato. Ricordo che rimossi tutto, pensando: POVERETTO! rivolto all’autore.
Leggendo oggi quanto scrivi, mi pare di vedere anche come una sorta di “sentore profetico” per come sono poi andate storicamente le vicende “del femminismo” e dell’instabile rapporto attuale tra maschile e femminile (sarà perchè una delle mie conclusioni reattive è quella di: se uno dei due deve morire, quella non sono io).
Credo che, solo una reale passione per il senso della nostra vita possa muoverci ad AFFONDARE il passo NELLA SOLITUDINE del proprio sè; la dove effettivamente muori, ma la metamorfosi non è così mostruosa… poichè, sostenuta da una gioia calda, che ti consente di restare in apertura con le persone che hai attorno.
Anche qui, nella concretezza della realtà e sulla linea del tempo, inizialmente è un moto quasi impercettibile
“pigolìo incontenibile, AMOROSO (doloroso), che lasciava comprendere le parole soltanto in un primo momento, ma le confondeva poi talmente nell’eco da far dubitare di averle intese.”
Un pigolio che va, via via, facendosi sempre più consapevole e deciso.
Credo che si sperimenti ciò che Guzzi afferma con: “è la pratica che rende ragione di sè stessa”.
Non penso che leggerò questo testo, pur comprendendone tramite le tue parole la portata.
Il mio cuore desidera parole di speranza, di una metamorfosi che mi doni di credere che la trasformazione in atto, per quanto dolorosa e lunga, condurrà in un punto nel quale: ESSERE SE’ STESSI donerà fiducia e gioia nella vita (cose che per altro già si sperimentano stante la società che ci circonda) ma innanzitutto che essere sè stessi si chiamerà VIVERE nella consapevolezza di un: IO SONO TU che mi fai….
Ti abbraccio, ti sono grata per il sapere che mi doni nei post e ti auguro ogni bene.
con affetto
Rosella
Comprendo, carissimo, la tua interpretazione:
chi si differenzia dall’ordine regnante dell’Ego, dalla chiacchiera di questo mondo, dal continuo apparente scontro di opinioni comunque poco e male fondate, può diventare un Mostro, un emarginato, un paria, da evitare.
E’ vero. Solo che mi pare che il racconto di Kafka mostri solo il lato d’ombra della cosa, e cioè la distruzione dello straniero/strano/estraneo da parte della famiglia/società dei buoni/giusti/sani.
Ora, in realtà, molto dipende dal modo in cui riconosciamo e incarniamo la nostra estraneità, la Xenitèia di Elia, il “fuori di sé”, di cui era accusato lo stesso Gesù.
Il problema cioè è iniziatico.
Per non venire distrutti come scarafaggi dall’ordine dei “normali” e dalle loro menzogne millenarie, bisogna seguire un percorso rigoroso, preciso, che solo le grandi iniziazioni possono indicarci.
Nei nostri Gruppi, come sai, noi seguiamo un metodo di estrema gradualità, aiutiamo le persone ad estranearsi dal manicomio senza mai uscire dall’ordine della terra, a liberarsi cioè dalle illusioni di questo mondo senza mai recludersi nella superbia o nella disperazione (che ne è l’altra faccia).
Così, con gradualità, affidandoci al grande Maestro della nostra metamorfosi, possiamo attraversare tutti gli stati, anche quelli più infernali, senza perderci nel nulla, ma sperimentando ad ogni svolta un nuovo rilancio della nostra forza e della nostra umanità.
L’estraneo e il rifiutato, l’escluso e la pietra scartata diventano in tal modo giorno dopo giorno i cardini di una umanità rigenerata, i Nuovi RE, pronti ad ereditare la terra.
Ciao. Marco
luciana
Ti ringrazio. In effetti tutti siamo un po’ “mostri”, ma non tutti l’accettiamo. Forse nel momento in cui l’accettiamo diventiamo meno mostruosi e molto più “belli”. A me perlomeno è accaduto così.
rosella
Il racconto di Kafka è terribile e doloroso. Ne consiglio la lettura solo se non si è già giù di corda per conto proprio, perchè sicuramente queste pagine non danno speranza. Forse, chissà, un tempo si prospetta in cui La metamorfosi non sarà più una fiaba così centrale.
marco guzzi
Ecco il punto infatti. In Kafka non c’è – mi sembra – speranza. Lui ha fornito una visione del mondo profetica sì, ma in senso del tutto negativo. Leggendolo ci si trova in carcere, e il brutto non è neppure che il suo mondo sia “ateo”; è un mondo dominato da un dio assente e inconoscibile e, a tratti, scientemente crudele, che si diverte con gli uomini come un bimbo cattivo stacca le zampe alle mosche.
A questo punto, riconosciuto a Kafka il genio visionario e letterario che gli è proprio, si tratta come tu dici d’andare oltre (La metamorfosi è se non sbaglio del 1912).
Forse, per quanto mi riguarda, il nodo kafkiano che più mi tocca è la sofferenza e l’irrimediabile solitudine che travolgono l’escluso, e a pensarci bene i gruppi non sono per propria natura e intenzione il contrario dell’esclusione?
Enrico
Esatto! i nostri Gruppi vorrebbero proprio essere un luogo di accoglienza per ciò che oggi viene escluso: l’anima sofferente e sperante, il cuore ferito e bisognoso di cura, gli elementi non adattati e non adattabili in questo sistema di mondo.
Ciao. Marco
“…la sofferenza e l’irrimediabile solitudine che travolgono l’escluso, e… ”
A prescindere da qualsivoglia contingenza, anche se sono solo una casalinga, nella mia storia personale l’attraversamento dell’ IRRIMEDIABILE SOLITUDINE DELL’ESCLUSO, è stato un passaggio obbligato.
Attraversare tutto ciò e sopravvivere non è altro che L’INIZIO.
Poi nel tempo, puoi scoprire d’essere lo stesso eppur diverso, sia da solo che in famiglia o in gruppo.
Che il tuo sguardo vede altro: oltre la cosiddetta normalità. Mentre il tuo cuore sperimenta dolcezze, pacificanti e liete, stante le incomprensione che magari continuano ad escluderti.
E finalmente ti senti bene.
Riscopri in te la tua stessa umanità, e sai bene cosa fare e dove andare, ricominciando ogni giorno da principio
“Tale duplice movimento interiore è la vera lacerazione di Gregorio Samsa e di noi tutti; debbo, e non voglio essere ciò che sembro; voglio, ma non debbo essere ciò che sono”.
Sconsolante il racconto di una identità mortificata perché irrealizzata. Cioè di una metamorfosi mortale.
Ma, chi voleva essere Gregorio Samsa?
Chi sono “io”?
Quale “Io” sono “chiamato” a diventare?
Una metamorfosi in positivo, se pure attraverso la sofferenza, per diventare farfalla, no? Proprio solo uno scarafaggio?
La metamorfosi iniziatica, messianica, autentica è terapeutica per sé e per gli altri. E’ vivificante e non mortifera. E’ salvifica. Questo sperimentiamo nei gruppi DP. Qualcosa deve patire, morire (l’Ego), ma ciò apre alla fioritura dell’Io.
Anche la risurrezione (metamorfosi) passa per la croce, l’umiliazione, la mortificazione liberamente accettata.
Anche il Messia è rifiutato, perseguitato, ucciso, ma diventa principio di umanità nuova e non “scarafaggio”.
Caro, Enrico, la tua interessante scheda interpretativa del racconto di Kafka mi provoca a riflettere sulla mia “metamorfosi”. Chi desidero diventare?
Non mi entusiasma trasformarmi in scarafaggio.
Mi attira lasciarmi trasformare dal Crocifisso-Risorto. Non è facile. Ma sento che è possibile, lasciandomi fare.
corrado
Credo appunto che Kafka non concepisse, dopo la morte dell’ego, altro che il nulla, o perlomeno un vuoto feroce, crudele.
Molti grandi narratori del ‘900 sono iniziatici solamente o principalmente in senso negativo (penso anche a Mann, Cèline, Bernhard, lo stesso Proust che è realmente disperato, e tanti altri). I poeti invece, quelli che sovente indica Marco, vedono o intuiscono più spiragli di luce. Sembra che la poesia s’avvicini di più a una mistica, a una visione.
La cosa interessante e paradossale è che questi poeti sono pure i più disperati – disperati almeno quanto Kafka.
A presto.
Enrico
E sempre a proposito di prosa e di poesia – un discorso delicatissimo e potenzialmente infinito – ecco cosa dice quello che io considero il più dotato romanziere degli ultimi due o tre decenni perlomeno, ovvero il cileno Roberto Bolano:
“Ho iniziato come poeta. Da sempre ho creduto – e continuo a farlo – che scrivere prosa sia un atto di cattivo gusto. E lo dico sul serio. In un certo senso credo che scrivere prosa sia tornare a fare il lavoro di mio nonno analfabeta. E’ molto più difficile la poesia. Le scenografie che ti propone la poesia sono di una purezza e di una desolazione molto grande. Quando metti insieme purezza e desolazione lo scenario si ingrandisce automaticamente fino all’infinito e la logica vuole che tu scompaia in questo scenario e, tuttavia, non scompari. Diventi infinitamente piccolo, ma non svanisci.”
Ora mi domando se sia un caso che questo romanziere nato poeta apra, benchè si dichiarasse un nichilista, prospettive nuove all’arte del narrare e regali squarci d’illuminazione, di creatività a chiunque lo legga.
Enrico
Carissimo Enrico, scusami per stamattina, andavo un pò di fretta e la mia risposta mi è sembrata come lo Spot pubblicitario ” lo sa che nel mondo c’è la guerra?” e io rispondo ” non si preoccupi, io in vacanza vado da un’altra parte!” Forse ci volevi comunicare il TUO sentirti scarafaggio, terremotato, lavoratore precario, aiutato dalla famiglia che ti dice: cambia lavoro, non essere idealista? Io consigli non li so dare, ma fai quello per cui ti senti più portato, vedrai che prima o poi i frutti cresceranno! Non ti accontentare! Tra 10 anni forse potrai fare “lo scarafaggio ” contento come noi, ma per adesso fai quello in cui credi. Anch’io sono stata giovane come te e per dar retta ai “benpensanti” che dovevo lavorare per forza, mi sono “accontentata” ma poi ho sempre avuto rimpianti. Vai, fai quello in cui credi! Anche se in famiglia stessa ti criticano PROVA! Ti abbraccio, e anche se a qualcuno non piace questo nostro “affiatamento?” ti auguro di farcela!
“…la sofferenza e l’irrimediabile solitudine che travolgono l’escluso, e…
Il sì iniziatico dell’incarnazione esige LIBERTA’. Che la fatica abbia un senso per chi la compie e non solo per chi ne coglie il frutto e ciò è CONTEMPORANEAMENTE legame con il tutto.
La tua libertà e la libertà dell’altro coincidono, sono un piccolo pezzo di puzzle azzurro in differenti immagini. Nell’una la camicia del padre e nell’altra gli occhi del figlio e in una terza un cielo sgombro da nubi. La forza che spirando libera il sorriso donato ne compie incarnandosi il mistero.
Forse essere solo una casalinga qualche competenza la si acquisisce comunque nella vita.
Ti abbraccio, e non deprimerti. Sapessi quante complicazioni ho con i miei tre figli… e tutto va bene!!! (ha ragione Luciana si può persino essere accoglienti con lo scarafaggio che è in noi ed essere felici di “lasciarlo andare”)
ciao
Rosella
La disperazione dell’ego è il suo stato terminale crescente, che diventa ogni giorno più apocalittico, e di massa.
Non più solo i poeti, come nel 9oo, ma anche le casalinghe e le commesse di profumeria sperimentano ormai l’annientamento di quello stato di coscienza, la sua natura insufficiente e mortifera.
Questa pressione può spingerci ad una conversione dello sguardo: adesso, e sempre di nuovo; oppure no.
La prosa dipende anch’essa da dove viene scritta.
La narrativa mi pare lo stile meno idoneo al passaggio di coscienza, meno di una saggistica/confessione, aperta all’ascolto poetico e alle sue risonanze spirituali molto concrete: del tipo: devi fare questo e non quello, dire questo e non quello, etc.
Ma questa è solo la mia esperienza.
Anche la poesia direi che dipende da dove viene scritta.
La poesia realmente attuale, e quindi rarissima, non può che essere ormai un parlare dialogico con il Principio della parola stessa. Siamo a 140 anni da Je est un Autre; ormai, sul piano poetico, sappiamo e sperimentiamo che questo Altro parla nel mio stesso parlare, e che il mio parlare è intrinsecamente un dialogo a Due Voci che mi conduce alla mia piena realizzazione….
Ciao. Marco
Luciana e Rosella
Grazie per il vostro sostegno! Diciamo che mi riferivo allo “scarafaggio” che è in ciascuno di noi e non al mio in particolare, che è comunque di discrete dimensioni 🙂
Marco Guzzi
Quello che dici è vero, almeno per me. La narrativa ha un problema, se ne sta al di qua del muro, al massimo s’attacca con le mani e sbircia (a fatica) al di là. Questo anche quando è di altissima qualità.
Forse in narrativa l’Ego ha più modo di ricreare le proprie difese, i propri inganni, ha tempo per “organizzarsi” insomma.
A presto.
Enrico
Arrivo un po’ tardi con il mio commento, ma lo spedisco egualmente.
Sì, la metamorfosi di Gregorio è tremenda e suscita in noi angoscia e ribrezzo. Ma è molto realistica: se mi concentro, so che anch’io da adolescente mi sono sentita agli occhi degli altri, soprattutto dei familiari più vicini, uno scarafaggio. C’era in me una tale vitalità che non poteva non essere repressa! E non ho osato ribellarmi e gridare il mio diritto di crescere come volevo io, come ero io nel profondo. Ne porto ancora le conseguenze. Però, a differenza che per Gregorio ,la metamorfosi per me non è stata totale, e gradualmente ne ho acquistato consapevolezza e ho ricevuto molti aiuti per ridiventare persona, almeno in parte, libera.. Debbo ringraziare la Vita che spinge sempre perché risorgiamo, e ci trasformiamo in meglio. Ora ho anche il supporto del nostro movimento. Certamente Kafka era più solo e solitario. Mariapia
Carissimo , Enrico,
ricordo poco del libro letto diversi anni fa se non la storia in generale, lo riprendo dalla libreria e torno a leggerlo…
Butto lì una riflessione nata dalla lettura del tuo post.
…il coraggio della metamorfosi…
Credo che rendersi conto che ci sia qualcosa che non va, guardarsi dentro per andarne alla scoperta ed intrapredere un cammino che non si sa bene dove conduca…richieda coraggio.
Buona Pentecoste….
alessandra
Mariapia e Alessandra
Certo, ciascuno di noi è chiamato nel corso della vita a numerose metamorfosi, spesso dolorose. Io stesso ne ho attraversate parecchie; in fondo ogni scelta importante che compiamo determina un cambiamento nella nostra vita, e il cambiamento ci fa paura.
Mi sembra che il racconto di Kafka attenga alla metamorfosi fondamentale dell’umano: cosa succede se cerchiamo di essere davvero noi stessi? E che fornisca le risposte che nei gruppi s’identificano con le ingiunzioni negative, con le “maledizioni”; però Kafka le oggettivizza, le rende materiali, reali non solo nella mente ma nel corpo, e quindi le rende più evidenti.
Un abbraccio.
Enrico