Quando nel 2008 cominciai a leggere per la prima volta “La Nuova Umanità”, rimasi colpita dall’idea che “lavorare a costruire relazioni quotidiane e piccole comunità” fondate sul processo di liberazione dell’uomo potesse costituire il nuovo orizzonte fondativo di una democrazia planetaria (p. 46).
C’era qualcosa di familiare in quello che leggevo, qualcosa che mi richiamava immediatamente il sogno che mi portavo dietro dai miei anni Settanta, anche se in quegli anni i tentativi di comunità di solito ruotavano, e spesso maldestramente, attorno alle questioni di relazioni tra i generi e/o al bisogno di liberazione sessuale.
Dopo quella lettura “furiosa” del libro, durante lo scorso primo anno telematico ne ho iniziata una più meditativa, e la risonanza dentro di me di quella proposta di piccole comunità è stata ugualmente forte, se non più forte.
Così ho cercato di mettere un po’ d’ordine nel cassetto del mio sogno, ed eccone i primi risultati.
Innanzitutto penso che comunità sia una parola grossa, troppo grossa per questa fase di transizione che stiamo vivendo, o forse più semplicemente è possibile intenderla in un modo più aperto e più flessibile, in una visione a maglie larghe.
Questa visione viene per me oggi evocata dalla parola cohousing, che rimanda ad esperienze già realizzate (e penso soprattutto a quelle del nord Europa), le quali, pur nella diversità delle loro modalità attuative, esprimono il bisogno, talvolta anche esplicitato e consapevole, di una connessione tra cambiamento personale e cambiamento del mondo, noi diremmo tra liberazione interiore e trasformazione del mondo.
Questa particolare forma di vicinato, in cui alloggi privati e servizi in comune vengono combinati in modo da salvaguardare la privacy di ognuno e allo stesso tempo il bisogno di socialità, può innescare un circolo virtuoso radicalmente nuovo; purché nasca – secondo l’ottica integrata dei gruppi Darsi pace – dalla consapevolezza condivisa dei suoi membri, sulla quale costruire una struttura, la cui esperienza condivisa giorno per giorno crea nuova consapevolezza, in un processo infinito di crescita personale dentro un più ampio processo di costruzione di reale comunione fraterna.
Sentite come la combinazione di privacy e di socialità esprime il doppio anelito continuo dell’uomo, di cui ci ha parlato Marco proprio all’inizio dell’ultimo intensivo di Santa Marinella?
Come dire che l’ipotesi cohousing intesa in senso integrato non è il sogno di un’isola felice, è quello che è la vita, sta nel cuore della vita, mette in gioco tutto di ciascuno.
E non si tratta di salvare il mondo, ma di salvare se stessi dentro il mondo. E’ così che possono cadere le ideologie classificatorie di “noi” e “gli altri”, gli inutili muri e anche gli sterili volontarismi.
Lo stile di vita sobrio e sostenibile che si vuole realizzare all’interno di queste “comunità” non ha a che fare innanzitutto con la rinuncia alla ricchezza per un mondo più equo o con problemi di depauperamento delle risorse, ma ha a che fare in buona sostanza con un modo diverso di percepire la realtà e quindi di individuare i bisogni personali e sociali. Qui si apre un discorso di enorme portata, a cui adesso posso solo accennare, rinviando a quei nuovi modi di pensare e di essere espressi per esempio dalla complessa visione di Rifkin nella sua “civiltà dell’empatia” (in particolare le parti sulla Terza rivoluzione industriale e il capitalismo distribuito).
Sto parlando ora solo di quelle che mi sembrano le premesse fondamentali alla costruzione di piccole comunità, fra le quali una in particolare secondo me è importante: che in partenza ciascuno che voglia entrare su questo terreno metta in campo quello che in lui c’è davvero, riconoscendo umilmente quello che ancora non c’è, almeno per ora.
Ciò significa che non è necessario aspettare che ci sia la comunione fraterna per fondare piccole comunità che costituiscano un modello proponibile e non una scelta d’elite.
E neppure aspettare di aver individuate tutte le proprie ombre e maschere prima di realizzare un vicinato d’elezione in cui iniziare a innescare il circolo virtuoso della solidarietà, in cui cioè rimettere in moto l’economia informale della condivisione di competenze e dello scambio di favori.
Anche questo mi sembra importante: che il vicinato sia d’elezione, dove però l’elezione è più legata al mistero della vita che a scelte dis-integrate.
E’ un po’ come nel rapporto di coppia: io non credo ai “due cuori e una capanna”, ma intuisco che l’elezione possa avere in sé qualcosa di misterioso: un senso magari non evidente a prima vista, che però può portare a un rapporto così profondo e intimo da consentirci di toccare quasi con mano il “tessuto” di cui siamo fatti, quel qualcosa che ci accomuna veramente e che ci fa sentire parte non solo del genere umano ma anche dell’intero cosmo.
Una tale visione ampia e di grande respiro non salvaguarda automaticamente dal rischio di errori e fallimenti, ma aiuta, quando capitassero, a trasformarli più facilmente in opportunità per il futuro.
L’importante è rimanere aggrappati alla vita e al suo quotidiano farsi, partire da quello che c’è, radicati nel qui e ora. Per costruire un luogo in cui celebrarla la vita, e perciò festeggiare molto (o almeno imparare a farlo).
Carla Leonardi.
Bravissima Carla, condivido pienamente il tuo pensiero. Io da tempo ho maturato la convinzione che lo stile di vita attuale basato su bisogni di cui ci stiamo lentamente liberando, vada riformato nella direzione di una vita comunitaria centrata sui nuovi bisogni dell’anima.
Troviamo il coraggio insomma di istanziare Darsipace nella quotidianità delle nostre vite.
Grazie Carla per questa opportunità che ci doni di riflettere.
Ritengo che le comuni dei figli dei fiori fossero già una fioritura, anche se distorta del desiderio che stiamo rivisitando ora, in altro modo.
Senza prescindere dagli indubbi vantaggi materiali e concordando sul fatto che la vita s’impara vivendola, penso comunque necessario un accompagnamento corposo e NON IMPROVVISATO verso una simile (imprescindibile?) svolta.
Noi stiamo iniziando questo lavoro trasformativo e fiorirà qualcosa di nuovo, ma, per ora, mi sembra ancora utile che “il seme s’impari a MORIR NELL’ESSER LIETO così”. Fiorirà la terra nelle prossime generazioni.
Molti anni fa, quando avevo i bambini piccoli, ho accostato l’esperienza di Nomadelfia.
Non so come vadano le cose ora lì, nè se le persone siano più felici ed integre di allora; certo è che la vita in quel luogo ha un’altra dimensione.
Oggi attendo di sperimentare l’intensivo dell’Immacolata, per conoscere meglio DOVE STO IO? nella coniugazione tra il maschile e il femminile; poichè credo che quello sia ancora il punto nevralgico, fragile e dolente.
Ciao a tutti e buon fine settimana
Rosella
Nelle parole di Carla sento il desiderio di dare forma OGGI a vecchi sogni lasciati nel cassetto ed è bello constatare che il lavoro in Darsipace raggiunge la parte più profonda e più viva di noi, quella che pulsa per venire alla luce.
Giuliana
I piccoli gruppi di cui spesso parla Marco ho compreso che sono comunità di formazione personale, di crescita insieme che richiedono un incontrarsi periodico per alcune ore, ma non necessariamente una vicinanza di abitazione, con forme, seppure parziali ,di convivenza.
Ciò non toglie che per una rinnovamento ormai impellente dell’umanità siano anche auspicabili comunità di convivenza , di buon vicinato, di quartieri o città ideali. Ho per esempio sentito parlare di Auroville, un città reale , negli Stati Uniti, credo, dove si cerca di vivere con criteri nuovi, ispirati al pensiero di Aurobindo.
Ho ammirazione per chi tenta queste nuove strade e penso che la condizione imprescindibile per una buona riuscita sia la capacità di ogni persona di accettazione totale degli altri, così come sono, senza alcuna volontà di giudizio, di volontà di modificarli.
La combinazione di privacy e socialità io cerco di viverla ogni giorno nelle mie consuete attività, negli incontri, più o meno soddisfacenti con parenti e amici, senza particolari programmi esplicitati o forme di vicinanza. Mariapia
Grazie Carla, mi colpisce soprattutto questo:”Come dire che l’ipotesi cohousing intesa in senso integrato non è il sogno di un’isola felice, è quello che è la vita, sta nel cuore della vita, mette in gioco tutto di ciascuno. La combinazione di privacy e di socialità esprime il doppio anelito continuo dell’uomo”.
Insomma, vivere in piccole comunità è secondo la natura intima dell’uomo e se ci pare un’utopia o una cosa per il futiro, è solo perchè ci siamo allontanati troppo dalla nostra vera natura.
Dove siete a Roma? o vicinanze. Grazie
Cara Maria, i nostri Gruppi si incontrano presso l’Un. Salesiana di Roma, ma sono seguiti on line da ogni parte d’Italia, e anche dall’estero. Ciao. Marco
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