“perché i poeti nel tempo della povertà?”
(Friedrich Hölderlin, elegia Pane e vino)
Perché dedicare la nostra attenzione alle parole talvolta alterate, in apparenza prive di logica, di uomini spesso disperati, soli, incompresi, che in non pochi casi hanno posto fine ai loro giorni con il suicidio o chiusi in un manicomio?
Com’è possibile che essi siano, come scrive ancora Hölderlin, quei “vasi sacri / dove si serba il vino della vita”?
La conferenza su Dino Campana, tenuta da Marco Guzzi nel febbraio del 2011, ci porta a riflettere sul ruolo profetico di alcuni poeti visionari nell’epoca moderna.
Nella difficoltà generale di comprendere e interpretare il senso di questo nostro tempo di crisi, che, nella sua vertiginosa accelerazione, sembra distruggere tutte le forme della convivenza civile, i loro testi poetici accendono una luce nuova, annunciando una trasformazione drammatica, ma anche gloriosa dell’identità umana.
Essi descrivono con parole misteriose, ma anche straordinariamente precise per chi abbia una certa capacità di ascolto della propria interiorità, le tappe di un cammino iniziatico di cui spesso si è persa traccia nei luoghi deputati.
Avendo giurato “fede all’azzurro”, essi ricordano agli uomini che l’unico atto veramente coraggioso e rivoluzionario è consacrare la propria vita alla ricerca appassionata del vero sé: quel cuore, quel centro dell’essere a cui l’anima dell’uomo desidera tornare.
I loro versi, totalmente incarnati e spiritualmente efficaci (nel senso che comunicano a chi abbia orecchie l’esperienza che descrivono, consentendo di ‘realizzarla’) offrono indicazioni preziose sulle leggi dell’iniziazione, sui pericoli da evitare in questo viaggio di ritorno che essi intrapresero in maniera anarchica e selvaggia, senza protezione, sganciati cioè dalla guida di veri maestri e dal grembo sapienziale delle tradizioni spirituali.
Accogliamo il loro invito a disseppellire “le rose della nostra primavera” dagli strati di neve e di ghiaccio che le ricoprono, per ritrovare, a partire dalle nostre profondità, una speranza e un orientamento.
Offriamo noi stessi come esperimenti viventi di questo faticoso e entusiasmante lavoro di coniugazione tra le diverse dimensioni che ci attraversano: impariamo a contemplare, restando fedeli alla terra, l’“azzurro mattino dell’alba”.
Belle le tue riflessioni sulla vita, purtroppo però, “le rose della primavera” non tutti riescono a scoprirle, a volte neanche io, scusate la parola un pò schifosa che debbo dire, ma a volte, quando pensi di aver quasi visto queste rose, ti arriva la “melma” evito altro… in faccia, che non ti fa vedere, oppure se riesci a rialzarti e ti pulisci, te ne fa vedere solo un pò di questi fiori profumati. Auguro a tutti , compresa me, di riuscire a capire il vero senso della vita, e auguro a tutti, anche gli”strani” di essere capiti e aiutati. La “normalità è la cosa più “viscida” e falsa, che striscia sulla terra, perché ci fa credere “sani” ed invece siamo posseduti dal nulla. La vita è fatta di gioia, sofferenza, si urla per liberarsi l’animo e si piange per “capire”, si gusta un dolcetto con un amico o si gusta semplicemente il “creato” fiori, piante, animali, mare, sole, montagne….Un abbraccio.
Penso che la difficoltà vera di una iniziazione, possa non essere solo quella di attraversare i vari stadi di conversione interiore, ma anche quella di non desiderare più di lasciare quei luoghi caldi del cuore, dentro i quali talvolta abitiamo.
Non solo la disperazione può indurci ad andarcene suicidandoci, ma anche il piacere può sedurci in quegli stati della mente in cui trascendiamo il limite angusto della realtà materiale.
Sì io ritengo proprio che sia tornare, all’umiltà della relazione personale con l’altro, la mia vera difficoltà, mentre a guardare bene condivido con Guzzi che sia la sola salvezza possibile.
Personalmente ritengo importante per accogliere l’altro, spegnere l’aspettativa di volerlo capire.
C’è proprio bisogno di capire qualcuno per aprirgli le braccia?
E poi “come si accoglie un dono?” dato che il pacco lo si scarta dopo?
Io son certa di poche cose ma “so di non sapere”, e non come fosse una frase presa a prestito da un grande della storia, ma proprio per mia esperienza personale, quella fatta nella mia carne.
Il compimento dei miei atti si da per mano dell’altro: “io sono tu che mi fai”.
Non sono mai certa dell’esito di un’azione (agire come se tutto dipendesse da me sapendo che tutto dipende da un altro, non è solo faccenda tra l’uomo e Dio, ma lo è anche tra me e mio marito, o i miei figli o con chiunque di voi; ed è in atto ora, proprio adesso, questa dinamica), questa mia certezza interiore, razionalmente riconosciuta, è suffragata anche da un’autorevole testimonianza: “Padre, perdona loro perchè non sanno quello che fanno”.
Nella terra della promessa noi siamo salvati non per i nostri meriti ma per il nostro limite abissale d’incoscienza, dall’ Amore che ci ama.
Questo da senso alla mia vita e mi significa che non tutte le iniziazioni sono uguali: Che la pace possibile in un cuore unificato, non necessariamente edifica la città degli uomini creativamente.
Solo io posso realmente decidere di fare questo ulteriore viaggio di ritorno nella terra della promessa ed iscrivervi il mio nome; cosa dal mio punto di vista, molto più ardua della decisione di entrare in una conversione interiore per addentrarmi meditativamente nell’inconscio.
ciao
Cara Luciana, è vero quello che scrivi: spesso la nostra salvezza è in cose molto semplici. Putroppo fatichiamo a capirlo e ci perdiamo in cose che complicano il gioco. La ‘normalità’ che ti fa schifo è qualcosa di diverso: l’ossequio per le convenzioni, il fare finta di essere sani, etc etc. Forse la sfida è proprio lì: nell’aderire con libertà alla nostra più intima verità personale, consapevoli del nostro limite, e al contempo aperti e disponibili ad ampliare la nostra coscienza.
Cara Rosella, le difficoltà relazionali sono effettivamente la cartina al tornasole dei blocchi che ancora ostacolano il cammino di liberazione. Imparare a spegnere tutti gli attaccamenti e le avversioni, inclusa l’aspettativa di voler capire l’altro, è un’ardua impresa, ma sembra proprio non ci sia altra scelta…
E’ solo un fuoco d’amore che può attirarci a Sé, trasfigurando tutte le nostre ‘brutte figure’, frutto quasi sempre di arroganza e presunzione, in esseri nuovi, capaci di azioni creative nella città degli uomini.
Auguri!
Paola
Prendere consapevolezza della mia vita come processo trasformativo è il dono che ricevo in dP.
Il lavoro interiore che si approfondisce mi aiuta a sentire, sempre più reale, la mia natura spirituale: sono nel mondo, ma non sono di questo mondo.
E’ lotta che si intensifica e mi regala attimi in cui vedo l’azzurro mattino dell’alba.
Quando il blocco di ghiaccio torna a paralizzarmi, questi attimi risvegliano il ricordo, ravvivano la fiducia che l’azzurro mattino dell’alba diventi l’eterno mattino.
Un forte abbraccio.
Giuliana
Ho ascoltato attentamente la conferenza. Io sono un piccolo scrittore, forse uno scrittore insignificante; ma vivo in questo tempo estremo, ho questa benedetta sfortuna, questa maledetta fortuna. E sento – lo sento nei nervi e nelle ossa, lo sento dietro le pupille e sotto i piedi – sento che è assolutamente necessaria una nuova lingua, che la lingua “ufficiale” (e mi riferisco ora a quella letteraria, non a quella della politica o dei giornali o della tv o dell’università) è morta; anche nelle sue più alte manifestazioni – penso a tanti grandi romanzieri americani più o meno celebrati – è morta, è un’ostensione della morte, è una magnifica bara dorata.
Ma calare una nuova lingua nella vita reale non è semplice; come accadde a Campana, ci si brucia; eppure occorre, occorre per tutti, mica solo per gli scrittori. Direi che oggi parlare è diventato, più che ieri o l’altro ieri, respirare; più continuiamo a parlare male, più moriamo, ci decomponiamo, come i funghi muffiti della Lettera di Lord Chandos di Von Hoffmannsthal.
Ecco, io non ho nessuna certezza sui metodi – persino sui metodi di Marco Guzzi non ho certezze assolute, e infatti non frequento con assiduità i gruppi, vado a singhiozzo, mi ritraggo, torno eccetera. Ho però la certezza assoluta sul fine: il fine dev’essere il rinnovamento: nuovo, nuovo, nuovo, ecco ciò che serve.
Se oggi un Campana “sano” (come quello auspicato da Marco Guzzi) c’è, di sicuro non sta nei blog o sulle pagine culturali o nelle trasmissioni televisive; quasi sicuramente non pubblica; forse non è neppure uno scrittore, un poeta nel senso classico; più probabilmente è uno che cerca d’incidere sulla realtà in un modo che non so figurarmi, in un modo che deve essere creativamente pratico, fattivamente immaginativo, audacemente umile (di nuovo i gruppi!). La vittoria sarebbe, per tutti noi, che questo Campana (e quelli come lui) trovasse viceversa un luogo accogliente, o che addirittura riuscisse a creare lui un luogo accogliente, un luogo “affettuoso”- e un luogo pubblico, un luogo accettato dalla comunità, un luogo capace d’irrorare la comunità e restituirle nuova linfa.
C’è bisogno probabilmente di sbattere la testa a destra e a manca prima di trovare la via giusta, ma in definitiva non può essere la realtà (una realtà oggi per molti versi putrescente) a condizionarci nel profondo bensì solo la verità, che spesso della realtà è l’opposto.
Mi scuso se ho fatto confusione, ma sono temi urgenti.
Un saluto.
Enrico
Carissimo Enrico, grazie delle tue parole, che non mi sembrano affatto confuse, ma al contrario precise e urgenti.
Tu parli di una rigenerazione della cultura e delle sue pratiche.
Tu parli della necessità di superare il livello letterario della scrittura, e il livello intellettualistico del pensiero.
Tu parli perciò di un salto di umanità, di civiltà, e quindi di ciò che sta accadendo, in una quasi totale inconsapevolezza, e nel fracasso di una cultura terminale, gestita da persone malate che non si vogliono curare.
Bisogna semplicemente uscirne, e, come dici tu, creare altro, altri luoghi, in cui gli uomini e le donne che non vogliono rassegnarsi a questa Pompei globalizzata, possano conoscersi, aiutarsi, crescere insieme.
Un piccolo/grande luogo come questo….forse…
Un abbraccio. Marco
Caro Enrico, che piacere leggerti… e mi consento pure di ridurre un po’ la levatura delle tue parole alle quali non so troppo corrispondere.
Anch’io avverto la necessità di un nuovo modo di comunicare; e, per la verità, è da qualche anno che tento di farlo pur senza alcun riscontro esterno soddisfacente; ciò nonostante dopo un certo periodo di confusione ora ho ritrovato il mio baricentro iniziale.
Ho scoperto che decidere di vivere (al)la giornata così come essa si presenta non solo è possibile ma anche bello.
Ciò che fa la differenza è come io l’ accolgo, questo mio giorno.
Come alimento “a priori” la gioia nel cuore che pongo in ogni gesto che compio.
Un cuore, lieto, prima ancora di ogni “credere di sapere” (e certo prima di scartare il pacco dono del giorno; fosse pure una mela un poco avvelenata) assorbe meglio un rifiuto, un fraintendimento e spegne con maggior facilità una delusione: sta nel nuovo e quindi, comunica meglio.
Ho ritrovato me stessa e la mia specificità, senza dipendere dal fatto di essere più o meno compresa o riconosciuta, e non mi sento per niente in balia degli eventi, sono solo più felice.
Non collaboro più, per così dire ,“con il nemico” allo scopo di costruire qualcosa insieme, magari “un mondo migliore”: semplicemente condivido la mia strada con tutti gli altri, uomini come me, agendo quel che posso e nel modo che reputo più opportuno, lo faccio in solitudine, senza per altro sentirmi, né esserlo, sola.
Ho dovuto anch’io ritornare sui miei passi per ritrovare me stessa, riascoltando accuratamente la mia esperienza personale.
Talvolta quando si segue un altro o un gruppo si rischia di dimenticare che ciascuno di noi è unico ed irripetibile. Siamo tutti uomini comuni: siamo gli stessi, eppure differenti e solo noi siamo in grado di conoscere e vivere la vita a modo nostro per svelarne, gustandolo personalmente, il senso.
Auguri per il tuo percorso, il tuo lavoro e la tua famiglia.
Un abbraccio e ciao
Rosella
Il vento frulla fra le foglie la mia mente
e ne sparge i colori sulla terra
gialli e rossi
e a camminarci sopra è un canto
una danza leggera
come di pioggia
E a mezz’aria volteggiano in festa
ma senza strafare, lentamente,
e forse dovrebbe qualcuno coglierne l’invito
e così ridisegnarsi
riverniciarsi
ricominciarsi
frullato
centrifugato
storia finalmente danzante…
e tu riparti da un pomeriggio
disperato di odio
e ne fai una sera e poi un mattino
e poi un essere e una stella
e un cosmo
e un creatore perfino
e credi di vedere e sentire
gli angeli cantare
loro pure danzanti e leggeri
e quasi loderesti il Creatore
se tenessi chiusi gli occhi
fissi e strabiliati a quel mirabile corteo
che canta il tuo mondo nuovo,
Ma aperti, aperti un’altra volta,
ti accorgi che un pomeriggio non è
solo un mero ricordo
ma è dilagato nel cuore e nel corpo
autore preciso di ogni tua azione
e pensiero e emozione
e le vedi morire le foglie
in lenta agonia
ed è lì, qui, in questo istante preciso
che occorre coraggio
che, lo sai, devi ripetere il punto più alto
ripeterlo fino a farne un ritmo
uno stretto passaggio di pietre sul fiume
impararne bene la forma che orienta l’equillibrio
e dona giusta misura al salto…
Mi scuso per questo intervento forse inopportuno, ma è ciò che ho “ascoltato” mentre e dopo aver ascoltato le parole di Marco. Di più, o meglio o diversamente, non saprei dire.
Grazie Marco, un caro saluto a tutti 8in particolare a Rosella e Enrico)
renato
Grazie, carissimo, di questa risonanza poetica. Marco
Rosella,
anche se in ritardo desidero ringraziarti per le tue belle parole e augurarti altrettanto bene.
Un saluto anche a Renato e a tutti, di cuore.
Enrico
Caro Renato,
i tuoi versi mi hanno proprio coinvolto, mi sento molto in sintonia (certamente solo immaginaria) e desidero dirti questo: nell’ultima settimana mi è accaduto qualcosa d’insolito: ho contattato/riconoscendolo in me “l’odio”. Un odio puro, cristallino direi e non ne sono uscita ne con sensi di colpa ne angosciata, ma più consapevole della mia umanità, forse anche più umile. So che volendo posso agire anche il male, non tanto quello del “non l’ho fatto apposta”, ma una crudeltà che mi può anche piacere, come fosse una vendetta appropriata, quasi una forma di giustizia…
…“e le vedi morire le foglie
in lenta agonia
ed è lì, qui, in questo istante preciso
che occorre coraggio
che, lo sai, devi ripetere il punto più alto”…
Ecco, è come se solo ora fossi finalmente consapevole di quanta dignità io abbia, di quanta dignità sia stata donata all’uomo.
Solo io posso realmente decidere di “dare inizio al nuovo”, nel vivere adesso in questo mondo; e m’inebria il senso faticoso e fisico della “libertà di amare”.
Ciao, ti abbraccio e spero che tutto sia sostanzialmente o.k. per te ed i tuoi cari
Rosella
CAra Rosella, voglio ringraziare io te, per aver condiviso questa tua esperienza importante e fondante. Quotidianamente sono preso in questa “lotta”, ed è quella che si è riversata in quel che mi è accaduto di scrivere più sopra. E’ proprio il tipo di “male” che tu descrivi quello con il quale è giunto il tempo di confrontarmi, lasciando finalmente cadere quella immagine di “buono” che mi sono sempre messo addosso. Tu, con le tue parole, mi anticipi alcuni segnali importanti che incontrerò su questa via.
Un caro saluto
una grande idea…un grande presidente!complimenti!