Nell’anno della Fede sono chiamata ad interrogarmi su ciò in cui credo realmente, aldilà di ciò che credo di credere, a prendere, cioè, consapevolezza delle tante credenze, assorbite con l’aria che respiro e rinforzate dalla formazione, che agiscono nel mio inconscio e determinano le mie scelte e i miei comportamenti: antropologie e teologie inconsce trasmesse di generazione in generazione.
Viviamo un tempo apocalittico, cioè rivelativo: ciò che è nell’ombra preme per venire alla luce, ciò che è inconscio preme verso una consapevolezza. Così in me diviene sempre più visibile la cultura di separazione in cui sono immersa, cultura generata da una Scissione di Origine che, al pari di una scissione atomica, continua a generare scissioni a catena.
Questa cultura che conosce oggettivando e riduce la persona ad individuo la assorbo con il linguaggio, linguaggio non neutro ma carico di ideologia, e le parole creano mondo/mondi.
Questa cultura costituisce il presupposto implicito, scontato, nella formazione a tutti i livelli. E’ difficile acquistarne consapevolezza perché è l’aria che respiro: la trovo incistata nelle strutture, cristallizzata nelle Istituzioni.
Ma questa cultura di separazione centrata sull’individuo, iscritta nel mio/nostro DNA, fatta di pensieri male-detti fatti carne, causa di profondo mal-essere, sta rivelando tutto il suo deficit, la sua incapacità a governare un mondo globalizzato che richiede una interconnessione globale, una capacità di vedere ampio, di interrelarsi con il Tutto. Nelle contraddizioni generate da questa cultura la causa della crisi profonda che stiamo attraversando a livello personale e planetario: dello stallo, dell’ingovernabilità, dell’aumento delle patologie psichiatriche.
Prenderne consapevolezza mi richiede un quotidiano lavoro di spegnimento dell’io culturale/egoico, il riconoscimento di tutte le forme distorte in cui il mio io si è sviluppato a causa di ferite e di strategie di difesa, lo sviluppo di un Io relazionale, non più chiuso, difensivo, separato, ma aperto alla relazione: Io-in-relazione con il Tutto.
Questo nuovo Io è messianico, è cioè un Io che si assume la responsabilità storica di trasformare il mondo promuovendo consapevolezza, ripulendo il linguaggio, rendendo visibili gli assunti impliciti della formazione, denunciando le contraddizioni divenute sistema.
Ripulire il linguaggio è forse l’azione primaria di questo nuovo Io, il primo passo dell’azione trasformativa del mondo, della Nuova Evangelizzazione che richiede, per rendere credibile l’annuncio, il superamento delle contraddizioni interne, tra ciò che credo e ciò che credo di credere. Il linguaggio che adoperiamo tradisce, infatti, le nostre profonde convinzioni, la cultura inconscia che ci portiamo dentro.
L’esperienza vissuta nei 100 giorni trascorsi da mio fratello in Rianimazione mi ha reso visibili le tante contraddizioni che mi/ci caratterizzano; la Rianimazione è infatti un luogo limite in cui si possono osservare distillate e concentrate le contraddizioni del nostro tempo: in particolare la cultura di separazione che fonda il nostro Sistema di Cura, sistema che pretende di curare senza prendersi cura, cioè a prescindere dalla relazione; di curare la persona in singoli pezzi, come una macchina, finendo così per aggravare quello stato di scissione che sta facendo della patologia psichiatrica la patologia più diffusa nel mondo.
In Rianimazione diviene macroscopicamente visibile anche la cultura riduzionista a base della formazione scientifica, cultura che considera la persona solo nelle due dimensioni corpo-mente e la mente solo nello stato razionale considerato ‘normale’ nella nostra cultura: la persona considerata priva di coscienza è solo un ‘corpo- oggetto’ di cura, gli aspetti psichici e quelli spirituali sono totalmente ignorati.
Ma curare il corpo come un oggetto trascurando la psiche e lo spirito, non prendersi cura della sofferenza psichica (paura, angoscia, disperazione, senso di impotenza, rabbia, ecc.) e della sofferenza spirituale (senso di abbandono, assenza di Dio, Dio che punisce, ecc.) generata dalla condizione in Rianimazione può provocare la morte degli aspetti più propriamente umani della persona.
E’ tempo di realizzare un salto di qualità nell’azione di cura passando dalla cura al prendersi cura, di realizzare interventi terapeutici integrati che coinvolgano competenze diverse e si avvalgano, in particolare nei Reparti di Rianimazione, dell’apporto dei familiari, capaci di entrare con più facilità in relazione empatica con la persona in coma.
Anziché tenerli lontani bisognerebbe anzi considerare i familiari testimoni privilegiati, parte essenziale dell’azione di cura, e aiutarli a sviluppare competenze specifiche di relazione e comunicazione con il loro caro.
I medici che curano il corpo dovrebbero essere affiancati da medici dell’anima, persone capaci di accogliere la sofferenza della persona in coma e di sostenerla nel suo doloroso percorso mantenendo viva la fede/fiducia.
Anche in coma la persona resta un essere-per, un essere intrinsecamente in relazione in quanto immagine di Dio-Relazione. Mio fratello da quel suo letto, apparentemente immobile e privo di coscienza, ha pronunciato nella carne la sua più forte omelia, operando risvegli in quanti gli sono stati vicino.
L’esperienza vissuta ha suscitato in me tante domande che sono divenute il filo conduttore della Riflessione proposta ogni anno nell’anniversario del suo ritorno al Padre.
Il video che presento è stato il mio contributo alla Riflessione di quest’anno.
Salvatore Crisafulli (di cui parlo nel video) si è spento il 21 febbraio ma la sua lotta per la vita continua ad operare risvegli.
grazie Giovanna, per questo post e per il video, così commovente. Lascerò scendere le tue parole nella mia anima per darle ulteriore materia di lavoro.
Alessandro
Cara Giovanna
grazie per la testimonianza che ci dai, di ciò che può significare essere memoria viva, nella comunione d’amore con tuo fratello Carlo e con gli altri.
Ti abbraccio con affetto
Rosella
Questo post affronta temi complessi e con la varietà delle sue argomentazioni e immagini spinge davvero alla riflessione.
Io mi soffermo sull’esperienza che ho fatto nei quaranta giorni in cui mio marito è stato ricoverato in rianimazione, dove è morto, poco più di due anni orsono. Credevo di aver rielaborato adeguatamente questa vicenda, ma mi sto accorgendo che mi scatena ancora forti emozioni di angoscia e tormento e desiderio di cambiamento.
Quando stavo per entrare nel box dove lui era steso, ero carica di ansia, di paura, di angoscia; quando ero dentro, cercavo di non manifestare questi sentimenti e non so quanto ci riuscissi, lui certamente capiva , era cosciente, ma non poteva reagire, immobile, pieno di tubi e tubicini, senza parole, perchè tracheotomizzato. Mi guardava, lo guardavo a lungo, cercavo di interpretare i suoi segni che esprimevano magari un bisogno , una necessità e cercavo il più possibile di provvedere, magari con l’aiuto di un infermiere, che chiamavo, ma spesso tardava a venire. Io cercavo di interagire con la sua immobilità, prendevo la sua mano, parlavo, cercavo argomenti che lo potessero interessare, lui non poteva rispondere . o introdurne altri. Gli avevamo procurato una lavagnetta, ma a scrivere non ce la faceva, neppure con l’uso di un cartone dove avevamo riportato le lettere dell’alfabeto.
Una volta era riuscito a comporre faticosamente la parola : SOLO. Forse voleva dire che era rimasto solo in un momento critico, che aveva chiamato ma nessuno era venuto, oppure che erano tante, troppe le ore in cui restava solo. Erano infatti ammesse le visite per un’ora, due volte al giorno, per un solo parente. Io mi alternavo con sua figlia. Quella parola e la sua interpretazione mi tormenta ancora oggi. Là lui ha ricevuto le migliori cure per il corpo, ma non per la mente e lo spirito: la solitudine dei ricoverati in rianimazione è davvero grande, direi spaventosa! Di solitudine si può anche morire, nel senso che non ci se la fa a guarire. Le macchine da sole non servono.
L’aspetto psicologico della sua sofferenza non era considerato. Quando io chiedevo ai medici: soffre? Mi rispondevano: -No, non ha dolori, forse si annoia; Lei cerchi di interessarlo, tirarlo su d’umore, dargli speranza.- Ho cercato di farlo, gli parlavo di guarigione, di progetti per il ritorno a casa, ma verso la fine ho cessato di farlo, lui mi diceva di no con la testa, e io non volevo ingannarlo, ma non ho avuto il coraggio di parlargli di morte, illudendomi che non ci pensasse e così è stato solo anche in questo.
Una sera ho pregato un amico sacerdote di andare a trovarlo: sono stati insieme alcuni minuti e ha ricevuto una benedizione. Troppo poco, lui non era credente , praticante, ma chissà quanti pensieri e aneliti si sono affacciati nella sua mente e nel suo cuore! E io e noi non siamo stati capaci di rispondere!
L’unico modo con cui sono stata capace di distenderlo un po’ è stato il massaggiarlo soprattutto ai piedi, lo gradiva, come cercava le mie mani, ci prendevamo per mano e chiudendo gli occhi ci scambiavamo tenerezza. Sarà stato sufficiente ad alleviare le sue pene e farlo sentire uomo fino alla fine?
Quando è mancato c’erano solo i sanitari con lui, a noi familiari avevano detto di andare a casa, perché non si poteva prevedere quando sarebbe accaduto.
Ora io penso mio marito nella pace, me lo immagino accanto a me riconciliato, perché la sua visione sarà senz’altro più ampia e purificata della mia.
Non sono più stata nel reparto di rianimazione, che è veramente un luogo limite, dove emergono le contraddizioni della nostra povertà culturale, ho soltanto inviato una lettera al medico che ho sentito un poco più vicino, quello con cui ho potuto esprimermi di più, che mi esortava a perseverare nella speranza. Gli ho chiesto che nel suo reparto si pensasse come veramente indispensabile a un sostegno psicologico per i malati e per i parenti. Non mi ha risposto, ma una persona ha saputo che aveva letto la lettera con interesse e che mi voleva rispondere, ma ha rimandato per mancanza di tempo, così almeno si era giustificato. Ora vorrei fare qualcosa di più e di meglio: dobbiamo agire tutti per sostenere anche i medici!
Mariapia
grazie di cuore a Mariapia per questa testimonianza
Carissimo Alessandro D grazie: la tua accoglienza riflessiva da senso a questo mio impegno.
Carissima Rosella, grazie della tua affettuosa vicinanza.
Carissima Mariapia, grazie di cuore della tua testimonianza. So quali emozioni dolorose ha risvegliato in te questo post: ricordo quei giorni in cui quasi contemporaneamente abbiamo vissuto la stessa esperienza.
Intuisco che con la parola SOLO tuo marito abbia voluto rappresentare proprio lo stato che viveva in Rianimazione, la sua sofferenza più grande. Noi esseri umani siamo relazioni, in Rianimazione si diventa solo un corpo-oggetto e la solitudine è spaventosa.
L’esperienza vissuta mi ha fatto prendere coscienza della terribile condizione della persona in Rianimazione: la più povera di tutti, perché considerata solo un corpo, e completamente consegnata nelle mani di altri (come Gesù nell’Eucaristia). Per questo ho deciso di impegnarmi per far si che anche altri acquistino consapevolezza e vengano attivate modalità di comunicazione capaci di rompere il muro di solitudine in cui si trova la persona e di dare sollievo alla sua anima.
Ho avuto la grazia di condividere i 100 giorni della Rianimazione con la grande ‘famiglia’ di mio fratello: persone meravigliose che hanno continuato a stargli accanto ed a parlare con lui con naturalezza, con una comunicazione che attingeva forza nel legame spirituale profondo che li univa. E riuscivano ad intuire e cogliere segnali di comunicazione che lui dava attraverso piccoli movimenti delle ciglia, degli occhi, della bocca, ma soprattutto con quanto sentivano nel cuore.
Intorno a quel letto, grazie ad un Reparto che consentiva anche l’ingresso di più persone per volta, si è creata una piccola chiesa orante: quando non si poteva stare accanto a lui ci si riuniva a pregare nella cappella che c’era sullo stesso piano. Tornavo a casa carica di energia, leggera e serena.
Ringrazio ancora di cuore questi ‘fedelissimi’ che hanno condiviso la sua passione e sono stati per me di grande conforto e consolazione, perché un dolore diventa leggero se viene condiviso.
Vi abbraccio con tanto affetto. giovanna
Le testimonianze di Giovanna e di Mariapia mi hanno commossa profondamente. Per ora non ho mai frequentato una rianimazione, frequento però da sempre gli ospedali tra reparti ed ambulatori. La questione dell’oggettivazione del corpo con l’accantonamento della relazionalità, relegata alla buona iniziativa di qualche operatore sanitario più ispirato ma che poco può fare in un sistema che si pone diversamente, mi pare cruciale nel discorso sul modo di operare del sistema sanitario. Il recupero della dimensione relazionale, di una comunicazione più aperta e franca credo che avrebbe molto da imparare in un eventuale progetto di Darsi Salute. Tante volte mi sono sentita come un locked-in anch’io, sia pure non in modo letterale come descritto nel filmato di Giovanna, perché pur essendo vigile e cosciente, pur potendo parlare, mi pareva che nessuno comunque fosse interessato ad ascoltarmi. Ed è un altro modo di sentirsi soli, nella frenesia dell’andirivieni di un ospedale, intrappolata nelle procedure indifferenti alla declinazione personale che ogni pratica di (prendersi) cura richiederebbe.
Ho fiducia però che, anche se io non vedrò i benefici di una nuova prospettiva, gli uomini in cammino non potranno che trovare nuove modalità del vivere in relazione, anche in sanità.
Un abbraccio
iside
Cara Iside,
apprezzo molto la lucidità con cui hai parlato delle tue pregresse esperienze negli ospedali, spero però che tu riesca a godere prima o poi di vissuti diversi.
Ormai nei medici e negli infermieri preme la nascita di una professionalità più aperta a una visione olistica della persona.. E’ un aspetto della nuova umanità , per la cui formazione lavoriamo in molti! Mariapia
Grazie, carissima Iside, per aver chiesto la ripubblicazione di questo post che avevo ritirato e per aver centrato la tua attenzione su un punto centrale e dolente: l’oggettivazione del corpo e l’accantonamento della relazionalità nel nostro sistema di cura, entrambi conseguenza della cultura di separazione che pone al centro l’individuo e non la persona.
Il cambiamento del Sistema sanitario richiede un cambiamento culturale profondo: la presa di coscienza della cultura inconscia di separazione che ci portiamo dentro, il passaggio reale dalla condizione di individuo a quello di persona, un lavoro di integrazione dell’ombra quale quello che pratichiamo nei nostri gruppi, un linguaggio nuovo.
Credo che i tempi siano maturi per realizzare questo cambiamento. Il sistema sanitario è ormai al collasso, gli operatori, stremati da ritmi dettati da interessi aziendali, vivono ogni giorno di più la loro inadeguatezza a rispondere alle richieste di chi chiede cura.
Bisognerebbe offrire soprattutto agli operatori sanitari percorsi trans-formativi per renderli idonei a curare la persona con approcci integrati che si avvalgano della sinergia di competenze e professionalità diverse.
Darsi Pace potrebbe avviare un’azione concreta di trasformazione del mondo attraverso un Progetto di Ri-Animazione o di Darsi Salute? che ne pensate?
Un abbraccio. Giovanna
Cara Giovanna,
vi sono molti modi per “darsi salute” e quello all’interno delle istituzioni sanitarie non è neppure nelle mani degli operatori sanitari, poiché, essi stessi sono travolti dall’impotenza ad essere: umani, giusti o adeguati, così come accade in altri ambiti sociali: scuola, famiglia terziario e chi più ne ha più ne metta.
Se si vuole tentare un reale cambiamento è necessario creare aggregazioni nei luoghi di lavoro, o nei quali viviamo, per condividere pazientemente la trasformazione con altri.
Io sono sempre un po’ scettica circa le istanze di liberazione che nascono dal bisogno; certo questo è comprensibile ma se non vi sono persone che si rimboccano le mani attivamente faticando, pur nel loro limite, per condividere il cambiamento, tutto può ridursi ancora una volta a rinnovare il dolore impotente della delusione.
Nella questione che sollevi tu, la faccenda è anche più complessa poiché riguarda il nostro rapporto con il dolore, la malattia e la morte.
Quale consapevolezza abbiamo personalmente del fatto che, da un certo punto di vista la vita non è giusta?
Sulla linea del tempo, si nasce per morire.
E come concepiamo questo evento?
Sono dispiaciuta di dirti queste cose.
Nel primo intervento lo avevo evitato, ma, francamente io non so perchè hai ritirato il post, ma,se la ragione è quella che desideri un reale dibattito, questo è il mio contributo.
Solo persone che si attivino PERSONALMENTE AGGREGANDOSI NELLA RISPOSTA al bisogno, sia esso latente o chiaramente espresso, operano un cambiamento significativo.
Benefico nella misura in cui esse stesse sanno integrarsi nella loro incarnazione salvifica: NON E’ SCONTATO il sapere amare e spesso è molto, ma molto, faticoso.
Ti abbraccio con affetto
Rosella
Carissima Rosella sono stata fuori questi giorni e leggo solo ora il tuo intervento.
Concordo perfettamente con te sul fatto che il cambiamento inizia da un lavoro di trasformazione personale condiviso, come avviene nei nostri gruppi, e che, riguardo al tema specifico, questo passa attraverso una consapevolezza del nostro rapporto con il dolore, la malattia, la morte.
Non capisco perché dici: “sono dispiaciuta di dirti queste cose”, e che avevi evitato di dirle nel tuo precedente intervento.
Quello su cui voglio attirare l’attenzione (con questo post ma anche con la Riflessione che propongo ogni anno nell’anniversario di mio fratello) è l’antropologia inconscia atea che di fatto guida i nostri comportamenti e le nostre scelte quando ci troviamo a decidere della vita di un altro: questo ho sperimentato personalmente quando mi sono trovata a decidere in tutta fretta riguardo ai trattamenti in Rianimazione.
Desidero soprattutto attirare l’attenzione sulla condizione della persona in Rianimazione: la più povera di tutti perché non può esprimere la sua volontà, non può manifestare i suoi bisogni, non può chiedere la tutela dei suoi diritti di persona.
Di questi ‘poveri’, di queste ‘periferie esistenziali’ (per dirla con Papa Francesco) non parla nessuno, anzi mi pare ci sia proprio un tabù in proposito, perché tocca corde di dolore/angoscia molto profonde.
Mi pare che vada a toccare proprio il punto di scissione, il punto della nostra separazione dalla Vita, dal quale è scaturita la cultura di separazione nella quale siamo immersi.
Bisogna, a mio avviso, stanare questa cultura nel linguaggio che adoperiamo, perchè il lavoro di integrazione che cerchiamo di realizzare deve portare all’abbandono di termini che riproducono e perpetuano la cultura di separazione.
Nello specifico mi riferisco al termine “stato vegetativo” che, a mio avviso, mai può essere riferito ad una persona-immagine di Dio.
Ma anche in altri ambiti continuiamo a ripetere espressioni che tradiscono e trasmettono false teologie. Ad esempio l’espressione: ‘Non ci indurre in tentazione’ nel Padre Nostro, o ‘perché peccando ho meritato i tuoi castighi’ nell’atto di dolore.
Sappiamo che sono false ma continuiamo a ripeterle e noi sappiamo (Marco ci insegna) che le parole creano mondi.
Forse nel lavoro che facciamo nei nostri gruppi dovremmo cominciare a prendere consapevolezza delle tante espressioni del nostro lessico quotidiano che contraddicono quanto affermiamo di credere, per dar luogo al linguaggio nuovo che esprime la nostra reale integrazione.
Un grande abbraccio. giovanna
“Non capisco perché dici: “sono dispiaciuta di dirti queste cose”, e che avevi evitato di dirle nel tuo precedente intervento. “
… perchè , a me pare che il pensiero nuovo, anche culturale possa prodursi solo riconoscendo, nel bene come nel male, azioni pregresse, e fatico a credere che il pensiero preceda l’azione.
Ormai sono certamente un’analfabeta di ritorno nei confronti del sistema sanitario, ciò non toglie che complessivamente in esso coagulino vari fattori: le competenze tecniche specifiche, il dato culturale, così come il fattore economico e così via sino a giungere alla filosofia di vita di ciascuno, che si esprime o viene oppressa dalle leggi attuali dello stato.
A me pare che solo piccole (o grandi) aggregazioni tra persone che condividano il medesimo interesse, pur appartenenti ad ambiti differenti, familiare, politico, sanitario, volontariato ecc., possano perseguire unitariamente un simile obiettivo nella realtà sociale. E, saranno briciole, “mollichine” direi, il resto è certamente lodevole, ma a me pare sempre disincarnato.
E’ certamente un mio limite, io il dato culturale lo riconosco dopo, lo vedo emergere dall’azione concreta che viene agita.
Non siamo tutti uguali, io prima faccio le cose e poi le riconosco: come se il pensiero che mi pensa fosse l’istinto e la ragione riconosce l’incarnarsi del fatto evolutivo in sé.
Ti abbraccio con affetto
Rosella.
Carissima Rosella, grazie della precisazione: mi ha aiutato a comprendere meglio il tuo punto di vista.
A me sembra che il mio e il tuo non siamo modi di vedere diversi ma aspetti di un medesimo processo che parte da una consapevolezza/interesse e sfocia in un’azione.
Se non ho una qualche esperienza/conoscenza di un problema non può nascere in me un interesse e nessuna aggregazione potrà realizzarsi intorno a quel problema.
Il mio interesse è partito dall’esperienza fatta in Rianimazione. Questa esperienza ha operato in me un risveglio: ha fatto sorgere in me una consapevolezza nuova riguardo allo stato della persona in Rianimazione, quindi un interesse a promuovere consapevolezza in altri, e una ricerca di aggregazione per operare.
Grazie ancora, un abbraccio. Giovanna
Avevo già visto il video ma stasera tornato dal centro rianimazione di Villa S. Pietro ho sentito la necessità di tornarci sù.
Giò, tu sai il mio affetto e ringraziamento per quanto stai portando avanti (con pochissimi aiuti ) quindi aggiungo solo che condivido pienamente il tuo approccio, spero di poter essere utile in qualche modo e propongo un incontro spirituale di preghiera per tutti i bisognosi ricoverati in stato “di attesa”, potremmo alle 21 di ogni giorno sintonizzarci e pregare con un testo che scegliamo anche solo 2 minuti per loro , tutti noi che in sintonia anche testuale ci uniamo in un abbraccio e magari allarghiamo il giro.
Io comincio da ora e attendo adesioni.
Baci Ale
Carissimo Ale, son rientrata a casa e mi sono collegata giusto alle 21 per leggere il tuo invito e unirmi all’abbraccio di preghiera. Straordinaria proposta la tua che spero verrà accolta da altri.
Hai una persona cara in Rianimazione? dammi notizie!
Ti sono vicina e ti abbraccio con affetto. giovanna
grazie Ale per la tua proposta (ora -ore 21,51), per me è un segno educativo, visto che fatico molto a credere nell’efficacia del gesto della preghiera.
Ci sono/sarò.
Un abbraccio ad entrambi
Rosella
Ciao Gio e Ro, iniziamo in 3, quale testo vogliamo utilizzare?
mi piace molto quello citato dalla testimonianza finale del video, che ne dite?
Baci Ale
Ieri sera ha lasciato questa terra un caro amico, mio coetaneo.
Anch’io desidero sintonizzarmi sulle alte frequenze ed unirmi in un abbraccio orante.
Giuliana
Anch’io sarò con voi, unita nella preghiera per le persone in rianimazione e i loro familiari! mariapia
Che bella questa piccola comunità orante che si sta formando!
Il testo citato nella testimonianza e proposto da Alessandro è: Giovanni 9,1-3
“Passando vide un uomo, che era cieco fin dalla nascita. I suoi discepoli lo interrogarono, dicendo: «Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?» Gesù rispose: «Né lui ha peccato, né i suoi genitori; ma è così, affinché le opere di Dio siano manifestate in lui».
Potremmo meditare questo brano avvolgendo in un grande abbraccio le persone in Rianimazione e pregando perché si manifestino le opere di Dio.
L’orario proposto da Alessandro va bene per tutte/i?
Un grande abbraccio. giovanna
Vanno bene sia il testo che le ore 21.
Giuliana
Bene siamo in 5 la catena cresce assieme alla forza orante.
Oggi parlando con Giovanna abbiamo messo assieme alcune delle tante cose che dovrebbero essere fatte per agire sulle distruttive conseguenze che le vite sospese ci gridano.
Chissà quante associazioni che operano per alleviare queste sofferenze ci sono e chissà se sono in rete, se qualcuno ha mai analizzato tutti gli aspetti che queste storie di vita coinvolgono, il lavoro da fare è grande e tante anime lo stanno auspicando preghiamo anche perchè sempre più persone decidano di impegnarsi per lo scioglimento delle distorsioni che originano questo disperante atteggiamento istituzionale.
TUTTO E’ POSSIBILE A DIO !!!
Baci Ale
Carissimi, questo appuntamento serale sta diventando importante, anche altri si stanno aggiungendo.
Questa sera ho allargato le braccia e idealmente le ho unite alle vostre in un grande abbraccio: al centro le ‘vite sospese’ (come le chiama Alessandro), particolarmente ho visualizzato Juan ed Elena (le due testimonianze del video).
Ho sentito che nello Spirito siamo davvero un solo corpo e si realizza una reale comunicazione che supera ogni barriera del corpo fisico.
Nell’Ufficio delle letture di oggi leggevo: “Quanto all’unione spirituale noi tutti avendo ricevuto un unico e medesimo Spirito Santo siamo in un certo qual modo uniti sia tra noi sia con Dio. Infatti, sebbene presi singolarmente siamo in molti e in ciascuno di noi Cristo faccia abitare lo Spirito del Padre e suo, tuttavia unico e indivisibile è lo Spirito. Egli con la sua presenza e la sua azione riunisce nell’unità spiriti che tra loro sono distinti e separati.. Egli fa di tutti in se stesso un’unica e medesima cosa.
La potenza della santa umanità di Cristo rende concorporali coloro nei quali s trova. Allo stesso modo, credo, l’unico e indivisibile Spirito di Dio che abita in tutti, conduce tutti all’unità spirituale. (….) Lo Spirito Santo riconduce all’unità con sé e all’unità vicendevole fra loro tutti quelli che si trovano a partecipare di lui.” (S. Cirillo d’Alessandria)
Continuiamo a fare esperienza di quello che crediamo per fede e condividiamolo.
Un grande abbraccio. giovanna