Il discepolo di Cristo è un testimone. La testimonianza cristiana va incontro a difficoltà, può diventare martirio. Il passo è breve, anzi è proprio il martirio che da valore alla testimonianza.
Queste parole di Padre Puglisi, che sarà proclamato Beato il prossimo 25 maggio, risuonano come una profezia. 3P, come amavano chiamarlo i suoi ragazzi, assassinato dalla mafia venti anni fa, è stato testimone nel senso letterale del termine (dal greco μάρτυς = martire), esempio di una santità fatta non solo di virtù private ma anche di pubbliche virtù: di impegno civile, di grande passione per la giustizia, di coraggio profetico di denuncia, di libertà dai condizionamenti dei potenti del mondo.
La sua battaglia è stata soprattutto culturale: far emergere la cultura mafiosa che ci portiamo dentro.
“Non parliamo di mafia come fosse una cosa fuori di noi; parliamo della mafiosità, del male spicciolo che è dentro di noi. Chi di noi non ha acceso anche solo un lumicino piccolo piccolo ai tre idoli dominanti: il denaro, il successo, il potere? Facciamo allora un atto di coraggio e puntiamo il dito contro noi stessi. Diciamo: io comincio qui e ora. Qualcosa cambierà certamente, per lo meno in quel pezzetto di mondo che ci è stato affidato”.
Nell’Anno della Fede la testimonianza di don Pino è invito a divenire autentici testimoni prendendo coscienza della mafiosità presente dentro di noi, mafiosità fatta anche di atteggiamenti di passiva rassegnazione di fronte al male, di silenzi collusivi, di omertà, (non ho paura delle parole dei violenti, ma del silenzio degli onesti); invito a costruire comunità adulte nella fede, capaci di coraggio profetico, di assunzione di responsabilità nella storia; invito a creare percorsi di formazione all’impegno civile/politico che partano dal riconoscimento della mafiosità presente dentro di noi.
La lotta contro la mafia resterà inefficace finché continueremo a considerarla male da estirpare fuori di noi, finché continuerò a negare come appartenente a me il ‘pensare mafioso’, a non riconoscerlo nei miei piccoli atti di prevaricazione e di compromesso quotidiani: il male ha, infatti, sempre la stessa radice, la mafia ne è solo la rappresentazione macroscopica.
Don Pino aveva fatto della preghiera del Padre Nostro l’itinerario per una pastorale antimafia.
“Un itinerario di catechesi sul Padre Nostro vuole riproporre le verità fondamentali della nostra fede, restituire alle parole il loro autentico significato, creare la mentalità nuova dell’uomo nuovo che è il cristiano, figlio di Dio, ‘pietra viva’ nella edificazione della Chiesa.
Il Padre Nostro è come il sassolino che manda in frantumi la grande statua del sogno di Nabucodonosor (Dn 2,1.31-35) Buon per noi se andiamo in crisi quando, recitandolo, ci rendiamo conto che non stiamo facendo solo delle domande ma anche delle professioni di fede, delle dichiarazioni di impegno, e –se lo prendiamo sul serio- corriamo il rischio di diventare presenze scomode, segni di contraddizione”.
Il primo passo per divenire testimone autentico è dunque creare la mentalità nuova dell’uomo nuovo: un lavoro personale per individuare la radice del ‘pensare mafioso’ presente dentro di noi. La mafia, infatti, è prima di tutto un modo di pensare il mondo e le relazioni, una cultura fondamentalista che concepisce l’altro solo come parte, proiezione o strumento di sé, sprovvisto di un proprio spazio mentale e di comportamenti autonomi.
Come si costituisce il pensare mafioso?
La psicopatologia gruppo-analitica individua in un sistema familiare che trasmette pensieri in forma satura l’origine del pensare mafioso: i pensieri sono trasmessi come ‘dati’ non ripensabili; l’unico pensiero possibile diventa quello riflettente il pensiero familiare.
L’interiorizzazione di questa modalità di pensare avviene sullo sfondo di una minaccia di abbandono che coincide per il bambino con una minaccia di morte (in forma più o meno sottile tutti abbiamo vissuto questa minaccia da piccoli).
L’insicurezza caratterizza i primi momenti di vita del bambino e la famiglia risponde contenendo l’ansia ed offrendo accudimento e protezione; se la protezione della famiglia continua oltre il tempo necessario il bambino si struttura intorno al bisogno di protezione, bisogno che egli continuerà ad appagare in famiglia ed in quelle organizzazioni create o ricondotte a svolgere la funzione di appagamento del bisogno.
Il ‘pensare mafioso’ si costituisce intorno al tema dell’insicurezza; viene trasmesso in un ambiente che, non essendo in grado di elaborare l’insicurezza, inibisce lo sviluppo della soggettività individuale e trasmette ai suoi membri un pensiero sulla famiglia come la sola istituzione idonea ad offrire protezione: vengono così favoriti quei comportamenti che tendono a rinforzare il potere familiare e a ricreare nello spazio sociale culture organizzative rassicuranti simili a quella familiare.
In questo contesto culturale non è possibile la formazione del Noi-Altri sociale (il superamento dell’accudimento-protezione familiare è premessa necessaria alla fondazione del legame sociale) e il pensiero sul sociale diventa debole.
Il ‘pensare mafioso’ è dunque un modo di essere e sentire trasmesso in famiglia; contiene una rappresentazione forte della famiglia e debole dell’individuo e del sociale; perpetua generalizzazioni, pregiudizi, modi semplificati di conoscere, interpretare e dare senso alla realtà; rinforza l’insicurezza, la paura di sbagliare, di compromettersi, di essere estromessi dal rassicurante e protettivo contenitore familiare.
Il ‘familismo amorale’ che caratterizza la mafia si fonda su questa espansione dell’Io/‘Noi’ micro (familiare, amicale) contrapposto al più vasto ‘Noi’ sociale, legato alla polis e al senso dello Stato.
Il Noi-Altri è assente nel ‘pensare mafioso’ o non sufficientemente rappresentato, non può quindi limitare l’Io/Noifamiglia che, per questo motivo, si esprime in modo esagerato e onnipotente, imponendo il bisogno individuale su quello collettivo.
Riflettere sul fenomeno mafia e sul ‘pensare mafioso’ da cui scaturisce è condizione indispensabile per sconfiggere tutte le mafie.
Il ‘pensare mafioso’ è inconscio ed in modo inconscio è trasmesso e insegnato. Avverto molte resistenze mentre cerco di scoprire la matrice del mio pensiero: le accolgo senza identificarmi. Mi accorgo che la matrice di pensiero inconscia intorno a cui mi sono costruita è l’insicurezza e la vergogna ad essa collegata. Intorno a queste emozioni ho organizzato la mia identità.
La non tolleranza dell’ansia che suscita l’insicurezza mi porta ad una forma di pensiero che tende a saturare tutto ciò che è insaturo, che tende a tenere tutto sotto controllo, un pensiero che non tollera il silenzio, il vuoto, l’attesa: l’attesa di un pensiero nuovo.
Osservo alcuni atteggiamenti tipici dei mafiosi (sentirsi ‘superiori a’, non rispettare le norme, farsi norma a se stessi, considerare e usare l’altro come strumento, dare per scontato il consenso dell’altro, dare per scontato che è l’altro che deve piegarsi/ adeguarsi, cercare protezione, colludere, rinunciare a pensare autonomamente, sottomettersi al più forte) e mi interrogo: Quante volte nel quotidiano, in piccolo, ripropongo comportamenti che tradiscono un modo di pensare mafioso?
Quando parcheggio in doppia fila o passo avanti nella coda ad uno sportello, quando non pago il biglietto dell’autobus o cerco di fare il furbo per evadere le tasse, quando spreco i sacchetti di plastica o non rispetto la raccolta differenziata, quando cerco raccomandazioni per facilitare il percorso di una pratica o trasgredisco la segnaletica stradale, quando delego ad altri la fatica di pensare o taccio per timore reverenziale, quando……., quando….., quando…. (l’elenco può continuare, diventare molto lungo) non alimento la cultura mafiosa del non rispetto, del disprezzo delle regole della civile convivenza, della subordinazione/sottomissione ad un’autorità che mi espropria della mia soggettività?
Che ne dite, volete continuare l’elenco? Aiutiamoci a snidare comportamenti che rivelano il pensare mafioso nascosto dentro di noi.
Per ulteriori approfondimenti su Don Puglisi rimando al post che ho pubblicato su darsipace il 7 gennaio del 2010: La mafia dentro. Il coraggio della denuncia profetica.
Grazie Giovanna, un video e un post che dovrebbero girare nelle scuole, nei centri socio-educativi, negli oratori, nelle sedi di comunità piccole e grandi dove si possa guardare, parlare, riflettere per poi agire -nel pubblico e nel privato- testimoniando la nostra umanità più vera. Grazie davvero, mcarla
La testimonianza di don Puglisi è ammirabile, ha onorato la sua scelta di vita in modo radicale. Mi pare che ciò che ci mostra sia che la vita di ciascuno non dovrebbe essere niente di meno. E così ho un metro di misura su quanto inadeguata sia la mia testimonianza. L’elenco proposto da Giovanna mi pare già piuttosto lungo e, un po’ come il notabile ricco che incontra Gesù, me ne vado triste perché so di non potermi dire innocente. Posso però tentare di ricominciare ancora, di limare anche se di poco gli spigoli ed essere grata per i compagni di viaggio che, come me, calpestano lo stesso faticoso terreno dell’apprendimento del vivere.
iside
Carissima Maria Carla, grazie della tua risonanza, mi è di incoraggiamento nel proseguire la riflessione sulla cultura inconscia avviata già con altri post (Protomentale e ferita di origine 10 dicembre 2012, Ri-Animazione Progetto di Vita per una Nuova Umanità 15 aprile 2013).
Chi si risveglia si fa promotore di risveglio per altri nei luoghi in cui si trova ad operare. Se hai sentito che il video e il post possono aiutare a far acquisire consapevolezza per un nuovo modo di operare nel pubblico e nel privato opera per una loro diffusione.
Che lo Spirito di don Pino Puglisi ci guidi e affianchi in quest’opera.
Un grande abbraccio. Giovanna
Carissima Iside, è vero che il paragone con certi testimoni della fede può farci sentire tanto distanti, quindi inadeguati e tristi, ma ognuno ha una missione specifica ed ha le grazie per la sua realizzazione.
Don Pino doveva aprire un varco, nuovi spazi di consapevolezza e di azione, tracciare una strada che altri potessero percorrere, e la straordinaria partecipazione alla sua beatificazione indica che tanti desiderano mettersi sulle sue tracce.
Allora rendiamo lode a Dio che non ci lascia soli nel faticoso cammino della vita e ci invia pionieri che ci tracciano le strade e compagni di viaggio che ci affiancano e sostengono lungo la via.
Ricorda poi che c’è un martirio quotidiano non meno cruento di quello dei martiri. E tu ne dai testimonianza.
Ti abbraccio con affetto. Giovanna
Cara Giovanna, anche Papa Francesco ricorda spesso nelle sue omelie a braccio che un cristianesimo senza coraggiosa testimonianza e senza martiri non è tale. La croce è sempre al centro! Benediciamo il Signore anche per i martiri del nostro tempo, come don Pino Puglisi! Ma impegnamoci anche a lottare contro i persecutori! Mariapia
Conosco la realtà dei post da poche settimane, per mia incapacità, e se avessi letto prima questo post avrei messo nella lista dei martiri anche don Puglisi. Ringrazio Giovanna per il bel lavoro che ha fatto di lettura su due livelli di questa figura, il livello socio politico e il livello psico culturale. E, visto che le riesce così bene, le chiedo se ha la possibilità di fare un lavoro di questo tipo anche su un altro martire della terra di Sicilia, Livatino, detto anche il giudice ragazzino.