La situazione in Siria tiene tutti con il fiato sospeso. Pubblichiamo volentieri la lettera inviata dalla nostra amica Silvia e la risposta di Marco Guzzi. Pubblichiamo anche il video con l’accorato appello alla pace di Papa Francesco (da min. 3,13 a 17,10), appello rinnovato all’udienza di mercoledì scorso con l’invito ad una giornata di digiuno e preghiera oggi, sabato 7 settembre, per invocare dal Signore il grande dono della pace: pace nel mondo, pace nei nostri cuori, perché la pace incomincia nel cuore! “Si alzi forte in tutta la terra il grido della pace!”
Cara redazione, penso in questi giorni continuamente a “darsi pace” e sento il bisogno di condividere smarrimento e confusione per i momenti che stiamo vivendo. Ci risiamo, di nuovo venti di guerra sul mondo a sfiorare le nostre vacanze. Cosa possono dire i gruppi “darsi pace”?
Certo continuare e rinforzare il lavoro su di sé, moltiplicare il contagio per sfuggire all’eterna spirale di violenza dalla quale l’umanità sembra non riuscire ad uscire. L’agenda e i tempi, però, talvolta, sono dettati dagli eventi che non attendono i frutti del nostro lavoro.
E’ possibile che non ci sia alternativa tra l’indifferenza nei confronti di un popolo massacrato e il cedere alla spirale della violenza?
E’ possibile che non ci sia una via altra tra un pacifismo inerte e una forza bellica?
E’ possibile che non si riesca ad esprimere una forza ed una leadership diversa, capace di mobilitare e portare in campo le forze, sono convinta certamente maggioritarie, di chi non vuole arrendersi a questa alternativa diabolica?
Non penso, certo, di potere trovare una soluzione io, noi, i nostri gruppi, ma cerco voci per condividere e trovare gesti e iniziative, anche piccoli, ma che non siano rinunciatari.
Grazie per l’attenzione. Silvia Roà
Cara Silvia, ancora una volta assistiamo all’orrore della guerra, agli stermini dei civili, alla follia dei gas, alla follia omicida che infetta l’uomo nel più profondo del suo essere.
Ancora una volta un Occidente poco affidabile, che ha sbagliato già molte volte, aggravando i conflitti coi suoi metodi aggressivi e insieme impotenti, mostra i suoi muscoli inconsistenti, e spara sull’uomo.
C’è una terza via tra l’impotenza di fronte al crimine di un Assad e la consueta risposta interessata, altrettanto omicida, e quasi sempre dannosa dell’Occidente terminale?
La via c’è, ma è e sarà lunga, non dobbiamo farci illusioni: si tratta di edificare una nuova cultura e dare vita ad una politica planetaria radicalmente rinnovata, postbellica, sostanzialmente spirituale.
Questa è la nostra resistenza, operativa, per nulla inerte: rovesciare la fonte bellica nel nostro cuore, creare gruppi consapevoli di questo straordinario passaggio di umanità, operare ai livelli possibili con la persuasione, la ragione, e l’invisibile azione dello Spirito.
Per ora non vedo altro, ma non credo affatto che sia poco.
Un abbraccio. Marco
Cara Silvia credo anch’io che la ‘terza via’ dei gruppi DP sia l’unica davvero efficace per un ribaltamento culturale-e quindi storico/politico- per l’umanità sul nostro pianeta.
Si è appena concluso l’intensivo di Albino, a cui purtroppo ho potuto partecipare solo come “pendolare part-time”, ma ti assicuro che l’esigenza di un cambiamento profondo per ognuno di noi l’ho percepita chiaramente…come sostiene con forza Marco bisogna insistere su questa strada perché i frutti di questo lavoro apparentemente oscuro e impegnativo nel tempo saranno inevitabili!
Colgo l’occasione per ringraziarti ancora di avermi fatto conoscere lo straordinario laboratorio dei gruppi DP (ci siamo incontrate a Merate)…a tutti quanti un caro saluto, mcarla
Sono d’accordo con voi… ma se fossimo noi gli assediati, i torturati, non vorremmo che qualche stato, seppur interessato, ponesse fine alle nostre sofferenze, rimuovesse il tiranno? non è successo anche a noi nel 1945 durante la liberazione?
La libertà che oggi abbiamo, non la dobbiamo al sacrificio degli alleati e nostro durante quella dolorosa fase della nostra storia?
sia chiaro non ho alcuna risposta, ma molti dubbi; credo nel nostro lavoro e nel cambiamento che a lungo termine potrà operare, ma la storia (ed i poveri siriani massacrati ogni giorno) non può aspettare il nostro cambiamento.
Cmq di certo non credo nei paradisi in terra.
un saluto
Caro Stefano, hai ragione: anch’io credo che a volte sia necessario l’uso della forza: se, ad esempio, un pazzo sta uccidendo i miei bambini o colpisce a caso le persone per strada etc., oppure se una banda di criminali minaccia la nostra convivenza. Il problema oggi attiene alla legittimità dell’intervento militare, alla sua effettiva utilità, ai suoi veri scopi etc. In altri termini non abbiamo ancora costruito un ordine planetario democratico che possa legittimamente usare la forza, come in uno stato si usa la forza pubblica della polizia. E purtroppo negli ultimi anni abbiamo assistito a troppi interventi inutili o addirittura sospetti.
Un abbraccio. Marco
Mi trovi ora pienamente d’accordo.
un abbraccio
A me pare che l’uso della violenza non sia giustificabile neanche in una prospettiva di difesa. Pensando ai nostri percorsi in dP e alla corrispondenza che poniamo tra la dimensione personale e quella sociale-politica, se considero la modalità nella relazione individuale come predittiva di ciò che si produce in una relazionalità allargata, ciò che sperimento personalmente è che ogni volta che mi irrigidisco di fronte ad un attacco e rispondo a tono in realtà incremento il livello di aggressività e di rabbia in me e nell’altro. Se invece riesco a smorzare i toni, anche la persona che mi attacca tende a mollare la presa. Non credo che a livello collettivo sia diverso. In un interessante reportage della BBC avevo ascoltato l’intervista a persone pakistane sulle cui teste arrivano gli attacchi dei drones. La rabbia dei racconti pare non lasciare molti dubbi, soprattutto se chi colpisce è chi si suppone sia un nostro alleato. È un po’ come accade quando un medico pratica su di noi metodiche che ci danneggiano: siamo molto più disposti ad accettare l’aggressione della malattia che non un danno prodotto da chi ci dovrebbe dare una mano ad uscire dalla sofferenza.
Mi permetto un sogno: mi piacerebbe che si provasse a deporre improvvisamente qualunque arma e vedere cosa succede: credo che chi spara molte volte non sappia esattamente perché lo stia facendo, dato che la violenza non ha nessuna buona ragione di essere. Ho la netta sensazione che l’attacco ci sia perché si è identificato un nemico, ma se quel nemico perde i suoi tratti allora rimango senza bersaglio e il mio sparare non ha più un target possibile. Non avremmo nulla da perdere dato che la perdita di vite umane è, purtroppo, comunque garantita.
iside
Condivido pienamente le considerazioni di Iside. Auguri di pace a tutti! Mariapia
comprendo i vostri commenti, ma i miei dubbi riguardano unicamente l’immobilità (emotiva prima di tutto) che rischiamo di avere di fronte a certi episodi vissuti da lontano attraverso i media (come uno dei tanti film serali)
Io sono per intervenire, non per combattere. Intervenire può anche dire fare da scudo umano, stendersi a terra di fronte ad un carro armato…. difendere, esserci per difendere l’altro qui come altrove, non conta.
Ma se devo scegliere tra retoriche forme di pacifismo ed intervento bellico, …se devo scegliere, scelgo dolorosamente la seconda.
spero di essermi spiegato, un abbraccio a tutti
Cara Iside, il Cristo proprio oggi ci dice di porgere l’altra guancia a chi ci percuote, ed egli si è fatto uccidere, senza opporre alcuna resistenza: questa via può essere percorsa da chi senta un’altissima vocazione spirituale e sappia corrispondervi.
Non possiamo d’altronde imporre il martirio come criterio universale, come legge, per esempio, di uno stato.
L’uso legittimo della forza, da parte della polizia in uno stato democratico, non è violenza, ma appunto uso legittimo di una forza che difenda le vittime inermi dalla violenza criminale. Su questa terra purtroppo il male sussiste in tutta la sua cecità e potenza operativa. Il cristiano può anche accettare di farsi uccidere senza reagire, più difficile sarebbe comunque lasciare uccidere un bambino o un’intera scolaresca davanti ai miei occhi senza intervenire, ancora più difficile, e forse semplicemente impossibile e in fondo ingiusto, sarebbe chiedere a tutte le persone di lasciarsi uccidere senza difendersi da mafiosi, rapinatori, assassini, serial killer, o da bande criminali giunte al potere, tipo Hitler, Pol Pot, o altri assassini di massa e così via.
La storia di Bonhoeffer o di Simone Weil ci insegna che a volte perfino un cristiano vero può usare legittimamente la forza contro lo sterminio dilagante.
Dobbiamo perciò da una parte lavorare su noi stessi per eliminare ogni forma di reattività aggressivo/difensiva, anche fino al martirio; ma dall’altra operare per una graduale e realistica/ideale trasformazione storica: testimoniare il Regno che viene dentro un “non ancora” molto pesante.
Questa poi è la dottrina della Chiesa cattolica lungo tutti i secoli della sua controversa storia.
Un abbraccio. Marco
Certamente mi sento indicativamente in linea con quanto espresso da Stefano e da Marco. Non penso che non intervenire tra i contendenti sia da intendersi nel senso del declinare la propria responsabilità e ritrarsi in disparte lavandosene le mani. Mi pare appunto che siamo in un tempo in cui occorrerebbe mettere a punto sistemi di intervento organizzati, come detto, sul modello dei corpi di polizia nazionali. Questi poi dovrebbero poter contare su un sistema di regole che desse loro i confini dell’azione. Bisognerebbe avere delle coordinate che aiutassero a sapere in quali condizioni e in quali contesti sarebbe lecito intervenire, con quali mezzi ecc. Temo però che per ora siamo dentro prospettive di intervento ancora piuttosto caotiche. Per non parlare poi degli interessi economici e di potere e qui si apre una voragine…
Ciò che mi colpisce sempre, quando mi capita di ascoltare interviste con soldati rientrati dalle cosiddette missioni di pace, è lo sconvolgimento emotivo che assistere ed agire il combattimento lascia. Ad esempio, un taciuto numero di soldati inglesi che ritorna dall’Afghanistan si suicida entro pochi mesi dal rimpatrio, molti cadono in depressione, non sono in grado di sostenere un lavoro una volta congedati, la loro vita è in pezzi, smembrata come quei corpi su cui hanno scaricato la loro mitraglia. Va di moda parlare di disturbo post-traumatico da stress, ma dagli albori della storia ci raccontiamo le vicende di guerre, le abbiamo adornate di valore (militare), di onorificenze, ma alla fine ciò che resta è la spogliazione dell’umano perché dentro una qualunque situazione di violenza noi tradiamo la nostra vera identità e siamo un po’ meno noi stessi.
Non so quale compromesso per ora potremmo accettare, credo che la via diplomatica seria, lontana dalla retorica pacifista come dice Stefano, sia la via da seguire dato che sono millenni che ci lanciamo oggetti (dalle pietre ai proiettili più sofisticati) ma non sembra che abbiamo risolto un granché.
L’”estremismo” di Gesù mi pare che testimoni la potenza sovversiva del non assecondare la modalità bellica di relazionarci. E questo mi sembra che dovrebbe valere per tutti se in quell’evento ci è mostrato il vero volto dell’uomo. Il coraggio di non colpire chi ci percuote, ma anzi di riattaccare l’orecchio tagliato, è l’unico modo per fermare quelle faide che invece si moltiplicano con i gesti di aggressione, togliendo loro la sostanza emotiva su cui poggiano. Anche se fallisco miseramente sul piano personale, credo fermamente che questa sia la sola via praticabile per arrivare all’esaurimento della rabbia proprio perché privata delle sue (cattive) ragioni e stabilire così una relazionalità agapica di cura.
iside
Quel che da un po’ di tempo a questa parte osservo nelle feste patronali, è che spesso la conversione dei Santi, s’innesta sullo stato di “reduce di guerra”, almeno per i patroni di molte chiese nella mia zona; e quel che ne ricavo è una speranza: veramente il Signore è Signore della vita e fa nuove tutte le cose.
Pur condividendo il discorso di Guzzi nel suo realismo storico/evolutivo, anzi ringraziandolo perchè mi rende evidente delle coordinate che a me sfuggivano, mi pare che però qualcosa non torni.
Noi apprendiamo, studiando le nostre distorsioni che esse sono generate dalle nostre difese infantili, le quali pur salvandoci la pelle, non ci introducono alla pienezza della vita, che può compiersi solo in una relazione di Fede/fiducia (così in cielo come in terra); così lavoriamo su noi stessi per riconoscere le nostre distorsioni e, attraversando il nostro dolore impotente nel punto di separazione, tocchiamo per grazia una forza: “lo spirito d’amore” che ci salva.
La sua presenza in noi ci fa sentire amati e questo lo sperimentiamo, come una parola nuova che ci accompagna, come fosse un nuovo inizio nelle nostre azioni quotidiane.
Allora mi chiedo: è corretto l’uso delle armi per affermare con forza il diritto alla vita di tutti i popoli?
La difesa della vita passa attraverso una forza “non violenta” ed è a questa che dobbiamo tendere.
A mio parere, culturalmente è carente il concetto di libertà: che cos’è la libertà?
Penso che questo lavoro di ricerca e approfondimento, debba essere fatto almeno dalle persone di buona volontà, io talvolta lo sento un po’ scontato anche tra di noi, come se la libertà fosse “una cosa ovvia”.
Nell’ultimo intensivo ci è stato insegnato che non c’è Fede senza Verità, io ritengo anche che non ci sia libertà senza verità.
Ciao Rosella
correzione
Nell’ultimo intensivo ho appreso che non c’è SALVEZZA O VIA O VITA in una Fede senza Verità, ritengo anche che non ci sia libertà senza verità.