(Scienza e carità (Pablo Picasso, 1897))
Siamo alla terza puntata di Darsi salute (Darsi salute e Da cosa dipende la nostra salute?) ed è giunto il momento di confrontarsi con la malattia. Definire la malattia e il suo impatto sui diversi piani dell’esistenza umana richiederebbe un’antropologia di riferimento; tuttavia vi invito, almeno inizialmente, a mettere da parte ogni idea soggettiva/superficiale su ciò che pensiamo di essere e di guardare alla realtà del nostro essere così com’è e di ascoltare le sensazioni del nostro corpo, le nostre emozioni ed i nostri pensieri più oggettivi/profondi.
L’osservazione della realtà ci dice che siamo mortali nel senso che il corpo va incontro alla malattia e/o alla vecchiaia e infine alla morte e disgregazione. Per quanto riguarda la coscienza, non sappiamo se muoia con il corpo ma sappiamo che, in genere, non comunica con i vivi dopo la morte del corpo. Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che scompaia, che non voglia o che non possa farlo. Sappiamo quindi che il corpo muore e si disgrega, ma non sappiamo nulla sul destino della coscienza.
La certezza della morte del corpo e l’incertezza sul destino della coscienza sono pensieri dolorosi da sopportare per cui si cerca di non pensarci; tuttavia son ben presenti nell’inconscio dove generano ansie e paure che poi si manifestano nella vita in tante situazioni (Ernest Becker ha costruito il suo sistema antropologico partendo proprio da questa constatazione).
Vi invito, ora, a contattare la voce interna che ci ricorda che moriremo e ad osservare le emozioni e l’umore che produce. Notate il terrificante senso di paura e annientamento che emerge; notate come in realtà noi non solo crediamo nella mortalità del corpo ma temiamo pure che la nostra coscienza scomparirà; è infatti il temere che la coscienza sia mortale che ci riempie di terrore. Oggigiorno, inoltre, la cultura dominante tende a dare per scontata (e non più per incerta) la mortalità della coscienza che viene interpretata in chiave materialistica come epifenomeno del cervello e che quindi necessita dell’ integrità anatomico-funzionale di quest’ultimo per sussistere. Questo passaggio culturale dall’incerto allo scontato genera un senso di smarrimento ancora maggiore in quanto viene dato per scontato, anche se spesso solo inconsciamente, non solo il fatto che un giorno ognuno di noi scomparirà del tutto ma anche che, dall’inizio alla fine, ognuno di noi è solo un fenomeno dovuto al caso e alla necessità, privo di qualunque scopo, senso e libertà. Lo stesso ovviamente riguarda qualunque nostra azione e quindi anche le parole che ora sto scrivendo sono tutte frutto del caso: questo è il nichilismo.
Nei gruppi darsi pace chiamiamo punto o stato di scissione questa dolorosa esperienza di insight cognitivo/emozionale che è la conseguenza del nostro ontologico distacco dalla fonte della Vita. L’umanità infatti non è in contatto e quindi non percepisce e neppure crede naturalmente ad una fonte di Vita eterna, sebbene il desiderio di eternità sia presente in ogni cuore in quanto chiunque ama desidera che l’amore continui per sempre. Le soteriologie (vie della salvezza) sviluppatesi nelle diverse civiltà e culture umane, cercano di ritrovare il contatto con tale fonte, attraverso processi strutturati in forma di religioni. In questo post cercherò di argomentare come la paura nella mortalità della coscienza sia la definizione più oggettiva e universale di Malattia che l’umanità ha a disposizione e che la Guarigione sia possibile solo nel superamento di tale paura ancestrale.
Sotto l’influenza del modello medico-scientifico dominante, si ritiene che la malattia sia per lo più uno stato caratterizzato da dolore fisico, deformità, ridotta funzionalità, ecc. che può guarire, lasciare qualche disabilità o portare alla morte; definita così, la malattia non sembra essere in relazione con la paura della morte. Se però consideriamo la malattia dal punto di vista del vissuto della persona malata, scopriamo che le cose non stanno proprio così. Fin d’ora voglio anticipare che la malattia vista attraverso gli occhi dei medici/sanitari è molto diversa da quella vissuta dai malati. Oggi si parla di evidence-based medicine per riferirsi al fatto che la prima si basa su studi statistico-scientifici rigorosamente condotti su variabili osservabili, e si parla di narrative-based medicine per riferirsi al fatto che la seconda si fonda sulla narrazione, unica e creativa, non osservabile dall’esterno, che il malato fa della sua malattia. Si tratta chiaramente di due facce dello stesso fenomeno.
Ma procediamo in modo esperienziale e, visto che tutti noi siamo stati malati almeno una volta, proviamo a contattare quell’esperienza e a descriverla creando una nostra personale narrazione. Sul piano fisico abbiamo certamente sperimentato qualcuno dei sintomi o segni accennati sopra che potremmo, se fossimo stati attenti e concentrati durante la nostra malattia, descrivere con assoluta precisione anatomica, funzionale e sensoriale. Potremmo anche ricordare la diagnosi e l’interazione avuta con il medico. Ma la malattia non si limita a questo. Sul piano mentale ci può essere stata ansia, depressione, ecc.; sul piano sociale forse abbiamo provato vergogna, isolamento, ecc.; infine sul piano spirituale ci può essere stata confusione, paura, ecc. La malattia appare quindi come un fenomeno complesso in cui predomina un groviglio di diverse forme di sofferenza che è opportuno comprendere e sciogliere. Tra queste, solo il dolore fisico, e solo in parte anch’esso, può venir imposto dalla malattia, mentre le altre sofferenze sono sempre la conseguenza di interpretazioni negative e disperate della malattia, soggettivamente create; è come se la debilitazione fisica presente nella malattia ci ricordasse la caducità dei nostri corpi facendo riemergere la paura nella morte della coscienza, e il vuoto di senso e libertà della vita. La medicina narrativa, che raccoglie e studia le narrazioni dei malati, ha ampiamente evidenziato come la sofferenza più profonda del malato sia dovuta proprio alla paura della morte e dell’annientamento, tanto che il più grande tabù della nostra civiltà è parlare della morte con un malato, soprattutto se in fase terminale.
Facciamo ora un ulteriore passo. Come già accennato, a fianco della malattia intesa come il vissuto della persona malata, esiste pure la malattia dei “sacri testi” medici. Per il medico la malattia non è un vissuto ma un insieme di anamnesi, sintomi, segni, test ed esami da interpretare al fine di porre una diagnosi da cui dipendono la terapia e la prognosi. L’interpretazione del medico dipende inoltre dalla particolare tradizione medica a cui appartiene. Ne esistono molte; noi siamo immersi nella cultura medica occidentale, a base scientifica, ma siamo anche esposti a influenze provenienti dalla medicina tradizionale cinese, dalla medicina ayurvedica, dall’omeopatia, dalla naturopatia, dalla psicosomatica, ecc. Senza entrare nel merito dei punti di forza e debolezza di queste tradizioni, è importante a questo punto della nostra riflessione, cogliere ciò che le accomuna. Ogni interpretazione medica della malattia può infatti influenzare il vissuto della persona malata su tutti i piani esistenziali: il dolore fisico, lo stress mentale, l’isolamento sociale e la paura spirituale tendono ad aumentare con la severità della diagnosi/prognosi comunicata dal medico, a tal punto che la stessa condizione fisica può accompagnarsi ad un vissuto completamente diverso a seconda che la diagnosi sia stata comunicata o meno. Tutto ciò evidenzia quanto sia fondamentale quello che la persona crede circa la sua condizione nel determinare la malattia; tale credenza è influenzata certamente dal giudizio dei medici ma il giudizio dei medici è rilevante sul vissuto solo in quanto la persona malata è soggetta alla paura della morte del corpo e della coscienza.
Quindi siamo tutti malati e tutti abbiamo bisogno di guarigione. La sola guarigione possibile è credere che la coscienza non morirà. Ciò viene indicato, nella Bibbia ad esempio, con il termine greco “metanoia”, tradotta abitualmente come “conversione”, termine che significa cambiamento della mente e di conseguenza dei pensieri/credenze che la popolano. Nei gruppi darsi pace la mente è oggetto di osservazione, studio e trasformazione attraverso la pratica della meditazione. La meditazione ha enormi benefici dimostrati anche dalla scienza medicina occidentale; sempre di più, in ambito clinico, si utilizzano trattamenti per il controllo del dolore e della sofferenza basati sulla meditazione (mindfulness) soprattutto in persone affette da dolore cronico come in caso di cancro, artropatia, ecc. Tuttavia nei gruppi darsi pace sperimentiamo che la guarigione completa necessita di un passo in più, che presupponga la meditazione ma che la superi: ovvero il contatto diretto e personale con la fonte stessa della Vita che è l’esperienza di Cristo in noi. Sul piano del vissuto ciò significa che anche di fronte ad una situazione che oggettivamente conduce alla morte del corpo la persona mantiene la libertà di credere e sperimentare una coscienza sana, in piena salute, che sta semplicemente vivendo un momento di passaggio.
In conclusione, si può affermare che la malattia sia uno stato ontologico dell’uomo; l’uomo nasce malato perché nei suoi geni c’è già scritta la morte del suo corpo, così come nella sua mente c’è la paura della morte della coscienza. E’ quindi un’informazione sbagliata o carente, nei geni e nella mente, a produrre la malattia. In tale prospettiva il Logos divino è la nostra nuova Informazione che, se adottata liberamente, porta alla Guarigione e alla Salute.
Grazie per queste riflessioni. Credo che questi pensieri, gli stati d’animo e le paure siano qualcosa che ci accomuna tutti. Fanno parte anche della mia esperienza, a fianco del letto di malattia e morte di persone care, qualche volta come paziente o madre partoriente, anche in queste occasioni si è portate a pensare molto alla morte. In queste situazioni ho avuto modo di sentire con forza la grazia di una superiore presenza e la conferma di una continuità dell’esistenza. Credo di essere stata sostenuta in queste esperienze, anche nelle più dolorose, che tali rimangono, dalla preghiera, fatta di lacrime, di richieste e abbandono. Sono sicura che molte altre persone possano dare la mia stessa testimonianza. Ricordo di aver letto o sentito in televisione di persone che a seguito di incidenti o malattia fanno esperienze chiamate, se non ricordo male, di pre-morte e di aver pensato che ciò che raccontavano era confortante, dicevano di aver visto un tunnel e una luce che li attendeva e di aver provato grande gioia. Queste sono le stesse cose che mi ha riferito, in seguito ad una grave crisi cardiaca, una persona a me molto cara, aggiungendo anche altri vividi particolari e dicendomi “…poi mi sono risvegliata perché non era il mio momento (dovevo raccontartelo), prima avevo molta paura di morire adesso non ne ho più” e nella notte è serenamente spirata. Qualcuno obietterà: “Che stai dicendo?”, rispondo: “ Pregare per credere, anche prima di credere” e nella silenziosa meditazione fare spazio e attendere le sottili risposte. Un affettuoso saluto a tutti.
P.S. La conclusione del discorso mi rimane oscura, spero che possiate spiegarmela in modo che anche un comune mortale (battutaccia) come me possa comprendere. Grazie
Grazie, Alessandro, ho letto il tuo post con vivo interesse, ci si impara molto.
Un abbraccio. Marco
Grazie Alessandro, per questa tua profonda riflessione che mi ha dato occasione di pensare e ringrazio anche Brutto anatroccolo che ci ha voluto dare questa sua sentita testimonianza. Un caloroso saluto a tutti. Stefania
Non ho mai ascoltato “omelia” più opportuna per la festa odierna dei Santi e dei Morti, e omelia non è ironico ma sincero.
Hai scritto un inno alla Vita, un inno alla Fede nella Vita, un inno alla Fede che è fonte di Vita.
Nella mia vita ho sbagliato approccio e ho troppo sofferto sul tema della morte.
Tutto consiste nel credere e meditare, credere che vive in noi Cristo, la fonte della vita.
Ti ringrazio molto, GianCarlo
Condivido il fatto che l’interpretazione che diamo alla nostra vita, cioè l’orizzonte di senso cui scegliamo di dare credito, condizioni il nostro modo di guardare (anche) alla malattia.
Tuttavia, rispetto alla definizione di malattia e di guarigione in relazione all’angoscia di morte, posta come tesi, mi pare ci sia uno scarto insuperabile su questo lato della vita, per come noi qui sperimentiamo la vita.
Infatti c’è un abisso storicamente invalicabile tra l’esperienza di malattia / angoscia di morte che noi viviamo qui da un lato, e dall’altro la Parola che sana come compimento oltrestorico.
Nel mio modo di vedere le cose, la metanoia è una disposizione che mi incammina, come risposta ad un amore che mi precede, ma la salvezza/salute è l’esito meta-storico di un atto sorprendente che solo l’Abbà dei cieli può fare.
Il lavoro interiore, la ricerca spirituale, la fiducia che la morte non sia il punto finale della nostra vicenda ma un passaggio iniziatico sono modalità con cui possiamo smussare qualche angolo, levigare qualche asperità in un lavoro in-tensione-fiduciale-verso, nella consapevolezza però che questo non è il tempo del compimento/guarigione. Certamente se non mi identifico con la mia malattia, se riesco a sfruttare gli anfratti che la malattia lascia ancora aperti per esprimere la mia libertà e le sue passioni, se credo che la mia vita sia custodita nonostante tutto, posso depotenziare il potere malvagio della malattia. Questo però non mi porta ad una guarigione, ma ad un modo diverso di vivere la malattia. Pertanto, interpretando la malattia come angoscia di morte e la guarigione come azione del Logos rimane uno scarto tra lo storico (la malattia) e il meta-storico (la guarigione/salute) che rende impossibile l’esperienza della salute nel qui ed ora.
Tuttavia, nell’esperienza quotidiana si vede una variabilità di situazioni sul piano fisico che a me pare non siano omologabili. Se infatti da un lato è possibile che una persona affetta ad esempio da sclerosi multipla possa percepirsi più “sana” perché meno angosciata di una persona che vive una semplice influenza come una catastrofe, dall’altro lato però mi pare che essere privi di patologie non sia condizione assimilabile a quella di chi ad esempio è costretto in un letto per la vita.
Pertanto, mi piacerebbe potessimo arrivare ad una definizione di malattia e di salute (che naturalmente non ho) che riuscisse a tenere contemporaneamente conto delle dimensioni mentali, sociali e spirituali senza però perdere la dimensione fisica. C’è secondo me un aspetto della patologia fisica che ha una sua forza di compromissione della vita che va oltre l’angoscia di morte. Credo che questo abbia a che fare con ciò che, in termini estremi, si coagula nel cadavere inteso come “enigmatico avanzo” che lasciamo definitivamente nella risurrezione. Questo “avanzo” però, finché siamo vivi secondo il senso delle nostre categorie, pesa in modo insuperabile: non soltanto non possiamo prescindere dalla dimensione biologica, ma anzi, essa è condizione necessaria alla costruzione della nostra identità. Questa ambivalenza mi pare che dovrebbe essere integrata nella definizione di malattia e di guarigione per come viviamo tali condizioni nel nostro mondo.
iside
Ringrazio tutti e mi scuso perché, essendo molto lontano da una reale comprensione di cosa sia la malattia, non posso dire nulla di più. Caro anatroccolo, la conclusione del mio discorso è che la fede guarisce. Cara Iside, non so come risponderti. Forse, ancor prima che per l’angoscia della morte, l’uomo si caratterizza per la sua ignoranza; l’uomo è quello strano essere che sa di esistere ma non sa da dove venga, non sa dove vada, e non sa neppure cosa stia a farci su questa terra. In una visione materialistica dell’esistenza, è relativamente facile definire ciò che è malattia … in pratica ogni situazione fisica non piacevole! Se però pensiamo che la vita non sia solo materia/energia ma anche Intelligenza, diventa difficile capire cosa sia malattia e cosa non lo sia. La malattia potrebbe essere una cosa molto diversa da quella che pensiamo; potrebbe essere quella condizione del corpo/mente che ci impedisce di comprendere e raggiungere il nostro scopo e realizzare noi stessi.
Caro Alessandro, ho letto il tuo post più volte ma mi è rimasta la sensazione di qualcosa che non torna.
Il commento di Iside esprime benissimo questo qualcosa che non mi torna, e cioè quella dimensione fisico-biologica di sofferenza o limitazione che, per quanto puliamo e purifichiamo a livello spirituale, rimane come un muro insormontabile.
I corpi spesso sono ingombranti, molto più di quanto i nostri ragionamenti e la nostra spiritualità vorrebbero.
Anche se credo che la vita non sia solo materia/energia, questa dimensione, nella malattia, non può proprio essere evitata.
Io auspico un darsi pace/salute in cui la dimensione fisica sia più integrata e discussa, anche se mi rendo conto di quanto sia difficile trovare un percorso comune, proprio per la diversità delle situazioni individuali.
Comunque spero di leggere altri tuoi contributi su questo tema.
Un caro saluto
Antonietta
Grazie Alessandro
Riflettevo sulla tua conclusione: e’ una informazione genetica sbagliata che porta alla malattia e alla morte e forse è quello stesso errore genetico a predisporci a un comportamento egocentrato e bellico?
Gesù non era soggetto alla morte e amava i fratelli, quindi non aveva questo errore genetico?
Nella prima lettera di Giovanni 1Gv 3,14 c’è questa frase che mi sembra metta in relazione i due aspetti “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli”
Un caro saluto
Sì Alessandro, pare anche a me che dobbiamo fare i conti con la nostra ignoranza. Forse è una delle cose più difficili da sopportare pazientemente (Rm 5, 1ss): resistere sotto la pressione del male, ma anche del non sapere, rimanendo sospesi alla fiducia che il compimento salutare ci sarà donato. Questa mi pare sia una delle prove più ardue da attraversare, perché come al solito siamo su un delicatissimo bilico tra una legittima e doverosa sete di conoscenza e l’impossibilità di raggiungerla pienamente. Il rischio è che strattoniamo la realtà (e ahimé le persone) per far tornare i nostri conti, là dove ci è soltanto chiesto accoglienza ed affidamento.
Anch’io come Antonietta sono molto contenta di queste occasioni che ci offri di riflettere su temi tanto coinvolgenti, almeno per me.
Grazie!
iside
Cara Antonietta, penso che la guarigione inizi dal cuore, come ci ricorda Aldo. Chi ama i fratelli ha fiducia che la Vita dimora in lui e non sperimenta più ignoranza e angoscia di morte. Compiuto questo passaggio decisivo, rimane il corpo con le sue infermità. La medicina può aiutare, ed imparare a diventare il medico di sé stesso, può aiutare ancor di più; ma rimarranno sempre casi non guaribili, corpi infermi che chiedono perché. Ecco una possibile risposta suggeritami dal commento di Aldo.
Quando pensiamo alla malattia del corpo, intendiamo il corpo individuale; eppure esso è metafora della comunità. Quando noi soffriamo nel corpo, viviamo questa sofferenza come solamente nostra, e spesso non siamo lontani dalla verità nel crederlo, ma non dovrebbe essere così in una comunità di fratelli, in quanto tutti dovrebbero soffrire allo stesso modo per la sofferenza di un membro … e così la sofferenza e l’infermità sparirebbero, arse dall’empatia della condivisione di un solo corpo. In conclusione, solo una comunità fondata sull’amore per i fratelli permette la guarigione, anche del corpo.