Errare. Il verbo ha due significati. Apriamo il vocabolario (v. Sabatini Coletti) e leggiamoli. Il primo: sbagliare, ingannarsi; in senso morale, commettere una colpa, peccare. Il secondo significato: andare qua e là, vagare, peregrinare senza mèta o scopo in un luogo; deviare, allontanarsi da una certa direzione, anche con valore figurativo.
Orare. Questo secondo verbo significa “parlare” [dal latino orare «parlare» (che nel latino ecclesiastico acquistò il significato di «pregare»), derivato di os oris «bocca»]. Quindi, parlare a Dio, pregare Dio. Nel latino classico anche parlare in un’adunanza, arringare, perorare (v. Treccani).
L’errante, in senso spirituale, morale e religioso, è colui che commette un peccato, una colpa. E chi pecca devia, erra nel secondo significato, cioè girovaga senza mèta perché ha smarrito la diritta via dantesca. L’errante è colui che ha lasciato i conforti della casa paterna per dissipare le proprie sostanze (quelle ricevute dal Padre) altrove, in terra di peccato, abitata da cani e porci cui non è bene – dice il Signore – gettare le perle o dare “cose sante”, cioè le parti più preziose del tesoro paterno ricevuto in dote. Difatti, cosa dice Gesù ai suoi discepoli? “Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi” (Mt 7, 6). A cospetto di cani e porci in senso religioso, bisognerebbe scuotersi la polvere dai piedi, perché quella terra su cui si aggirano come lupi affamati è terra di impurità, di peccato, cioè di assenza d’amore.“Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. Se quella casa ne sarà degna, la vostra pace scenda sopra di essa; ma se non ne sarà degna, la vostra pace ritorni a voi. Se qualcuno poi non vi accoglierà e non darà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dai vostri piedi” (Mt 10, 12-14).
L’errante è un girovago nel mondo delle passioni e dei vizi. Non sa dove andare e dove fermarsi in quel “paese lontano”, perché non abita la propria casa interiore. Dovunque vada è un alienato in cerca di conforti umani, molto umani. Ha smarrito la bussola interiore e viene sballottato dalle passioni come una nave dai marosi durante una tempesta perfetta. Poiché il peccato chiama altro peccato, egli alterna un peccato all’altro, né riesce più a distinguere nettamente il bene dal male. Anzi, chiama male il bene e bene il male. Lo stato di coscienza è alterato. È un malato grave, ma non sa di esserlo, fino a quando non impatta dolorosamente nel limite della natura umana.
Il dolore, spesso, è una grazia di Dio, è cioè la corda che Egli – che vuole tutti salvi – ci lancia mentre stiamo per affondare nelle sabbie mobili delle nostre vite purulente. In quel momento, all’errante viene offerta una chance, una possibilità di ravvedersi e di far ritorno alla casa paterna, dove vi è cibo in quantità, dove cioè non si avverte la carestia di senso. Nella parabola del Padre misericordioso o del figliol prodigo, la conversione inizia nell’attimo stesso in cui il figlio degenere rientra in sé stesso, prende consapevolezza, si risveglia dal lungo sonno. E comincia a pregare, perché non vi è vera conversione senza preghiera. “Mi alzerò e andrò da mio padre, e gli dirò: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te: non sono più degno di essere chiamato tuo figlio; trattami come uno dei tuoi servi”. Egli dunque si alzò e tornò da suo padre; ma mentre egli era ancora lontano, suo padre lo vide e ne Ebbe compassione: corse, gli si gettò al collo, lo baciò. E il figlio gli disse: “Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio””.
Dire, parlare al Padre, quindi pregare, che è un’esperienza fondamentale e permanente nel cammino di liberazione proposto da Darsi Pace.
Ecco, allora, che l’errante può trasformarsi in orante, in persona che parla a Dio, che lo prega.
Erranti lo siamo un po’ tutti. Peccatori ma non corrotti, come dice papa Francesco. Essere consapevoli di questa condizione di alienazione causata dal peccato ci rende erranti che pregano, che cioè vogliono, consapevoli delle proprie fragilità, riannodare il legame col Padre, il quale è sempre pronto ad accoglierci dopo le nostre pericolose escursioni in paesi lontani, e a guarire le nostre ferite. E a fare festa.
Ma come orare, cioè pregare?
La preghiera è essenzialmente una questione privata tra noi e Dio. Non è epifania della nostra ipocrisia neopagana. È un dialogo fra persone che si amano, a patto che l’uomo non finga di essere immune da colpe, sia sincero, confidente, e soprattutto non abbia paura di mettersi a nudo.
“Tu, invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate. Voi dunque pregate così: sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male” (Mt 6, 6-13).
Semplice, vero?
Ringrazio sempre Darsi Pace per l’opportunità che mi offre di riflettere con voi su questioni centrali. Quando rifletto, rifletto su me stesso, interrogo la mia anima, e cerco di fare tesoro della riflessione che io stesso ho partorito. È un lavoro di analisi.
Caro Salvatore,
sei giunto all’essenza. Anch’io penso che il rapporto tra noi e DIo, che si alimenta intimamente con la meditazione che si fa preghiera, sia fondamento non solo della fede , ma della vita. A volte penso che in fondo non mi serve altro, è non vorrei occuparmi d’altro. Senza questa fonte il buio è davvero più buio , l’animo confuso e la via è smarrita. Non utilizzerei parole in apparenza così retoriche se non le sapessi inverate da personale e sofferta esperienza. Con simpatia (scusa se non mi va di firmare).
Erranti lo siamo un po’ tutti, ma errare è sempre una decisione consapevole di recarsi in terre straniere abbandonando volontariamente la casa del Padre? Viviamo in una realtà in cui viene negata la dimensione spirituale dell’esistenza. A volte, forse, non si sa neanche di avere un Padre, nessuno ce lo ha mai detto.
Quindi, spesso, girovaghiamo errando e soffrendo alla ricerca di senso. Siamo smarriti, lontani dal nostro centro interiore, perché non sappiamo neanche di averne uno, e cerchiamo la felicità nei posti e nei modi sbagliati.
Mi chiedo quanta parte di responsabilità individuale e quanta parte di responsabilità collettiva ci sia nella colpa, e nel peccato del singolo e nella sofferenza del mondo. Sono convinta che non pecchiamo e non soffriamo mai da soli.
Irene