Siamo così intenti ogni giorno ed in ogni occasione a sottolineare le differenze che ci sono fra noi al punto di non accorgerci più delle sovrabbondanti convergenze che ci sono o che potrebbero esserci fra noi. Questa incapacità di sorvolare sulle particolarità che ci dividono è tipica delle personalità ansiose ed emotive, le quali tendono a rimarcare i dettagli.
Poi, come se non bastasse, abbiamo inteso praticare l’ascesi – una ascesi evidentemente malata – e ci siamo ritrovati senza Dio perché avevamo trasceso l’umano.
È indubbio che oggi siamo tutti un po’ ansiosi, emotivi, nevrotici, alienati. Siamo diventati ciechi ed impuri a causa di questa nostra incapacità di essere completi, di affinare un’idea che riannodi i rapporti sfilacciati, di stemperare le tensioni degli animi agitati per la pretesa di poter controllare tutto e di poter possedere il tutto assoluto. Non troviamo pace e non siamo in grado di dare pace poiché nessuno può dare ciò che non ha.
Ora, l’impurità consiste sia nel non cogliere la realtà per come essa è (e ciò è frutto dell’angoscia) sia nel non sapere cogliere la differenza fra completezza e totalità. Non intendo l’impurità come commissione di atti impuri, legati come sempre alla sfera sessuale, che pure hanno a che fare con il peccato, ma come mancanza di carità, di amore, di uno sguardo risanante sul mondo e sul prossimo. Del resto si legge nella Prima Lettera di Paolo agli Efesini che “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo,
per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità”, per cui siamo immacolati e santi se siamo capaci di carità, non già se ci asteniamo dal sesso che, per fugare eventuali perplessità, va comunque vissuto nella carità, quindi nell’amore, nel totale rispetto dell’altro. Questo perché, come sappiamo, il corpo non è un ammasso di cellule, ma è tempio dello Spirito Santo: “O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi?”, scrive san Paolo ai Corinzi .
Chiusa la digressione, nella volontà di essere completi non si annida il cancro della superbia. Difatti, sono completo se sono solo un uomo e se riconosco i limiti presenti in questa mia condizione. Nella completezza trova posto l’alterità, poiché l’altro si rivela il mio alter ego, il mio interlocutore, la mia coscienza critica, il mio affetto. Nella completezza c’è Dio in quanto il riconoscimento della mia povertà è atto di fede e di umiltà a lui gradito, è gesto interiore di abbandono a Colui che completerà (rectius, porterà a compimento) l’opera delle sue mani. Sulla completezza umana si innesta la perfezione che Cristo chiede ai suoi seguaci. L’invito ad essere perfetti come il Padre celeste è invito allo sforzo altruistico, all’amore, all’attivazione della potenza latente nel cuore della carità-dilezione, giammai un monito all’onnipotenza, alla perfezione assoluta, totale (perfettismo).
L’opera di perfezionamento di sé non coincide mai con la perfezione assoluta, allo stesso modo come il metodo designa un insieme di attività finalizzate, ma non assicura sul raggiungimento del risultato. Nell’applicazione del metodo si sperimenta un certo grado di riuscita, non l’esito.
La totalità, invece, è misura colma e piatta, è vita statica, è solipsismo, è chiusura, mentre l’umanità ha bisogno di calici traboccanti. È bene che l’acqua ed il vino tracimino dall’orlo per bagnare la terra desolata e rendere felici i cuori desertificati. E Dio è l’Assoluto, ma non è il Totale.
Ma che c’entra tutto questo con le differenze e le convergenze? Chi rimarca le differenze e permane in esse è sostanzialmente un totalitario. Chi parte da esse per convergere con gli altri verso uno stadio superiore di umanità ed unità, verso quell’unica Verità che salda i destini umani, è uomo completo.
Con ciò non si pensi che si debba convergere ad ogni costo. Molte volte è un processo possibile, altre volte non lo è. Fra “mondani” e cristiani non ci sono molte convergenze. Incontriamo uomini e donne con i quali non ci sono possibilità di dialogo o meglio ci sono chance infruttuose tanto per chi è “mondano” quanto per chi si reputa cristiano (che poi lo sia realmente è tutto da vedere, poiché vi è la categoria dei cristiano-mondani, come vi è quella dei mondano-cristiani, in cui includerei rientrare coloro che sono parzialmente attratti dal messaggio del Cristo secondo suggestioni sincretistiche o modalità New Age).
In questi casi come ci si dovrebbe comportare? La modalità ci viene suggerita da san Pietro: “Siate sempre pronti a render conto della speranza che è in voi a tutti quelli che vi chiedono spiegazioni. Ma fatelo con mansuetudine e rispetto” (1 Pietro 3:15,16). Qui vi è una parte che “domanda” e una parte che ascolta, “rende conto” e “spiega” con mansuetudine e rispetto per l’altro, quale che sia il suo orientamento. La conclusione potrebbe essere infruttuosa, ma qui ciò che conta è aver dato testimonianza, cioè aver dato voce alla Speranza a beneficio di chi, dopo aver domandato, avrà anche recepito o sarà stato visitato dal dubbio.
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