Marco Guzzi è poeta, filosofo e comunicatore, in breve direi che è un creatore di cultura – intesa come visione dell’umano. Il suo ultimo libro, L’insurrezione, riprende e amplia nove seminari su alcuni poeti significativi degli ultimi due secoli. Nel libro si trova tutto il pensiero di Marco Guzzi, cioè tutto il suo sguardo sul mondo, e l’analisi poetica è un mezzo più che un fine.
Il libro non possiede nulla di accademico, è piuttosto un’esperienza in atto, un’avventura conoscitiva e quasi fisica. E’ una mappa del tesoro che ci chiede d’avventurarci – noi con lui – entro territori oscuri e ignoti.
Ci chiede di non temere il buio e avere fiducia, fiducia nell’esistenza del tesoro. Ci chiede di sperare in un contesto (quello odierno) in cui la speranza sembra oramai un patetico anacronismo.
Non esige “sapere” bensì ascolto, semplicità e un grano di credulità, una disposizione infantile a sospendere il nostro sempiterno scetticismo. Del resto non è ogni grande poesia un equilibrismo sull’abisso?
La linea poetica che Guzzi indaga parte da Holderlin, passa per Rimbaud, tocca Rilke, Trakl, Campana, Dylan Thomas per arrivare a Celan, Luzi, Char, Bonnefoy e parecchi altri, con incursioni filosofiche dalle parti di Nietzsche e Heidegger nonché molteplici richiami alla fisica, alla pittura, alla psicologia, all’arte, all’epistemologia. Guzzi non esamina i testi ma li interroga, vi presta orecchio. L’insurrezione rappresenta in tal senso una lettura al quadrato, perché noi lo leggiamo insieme all’autore – è come se l’autore fosse al nostro fianco e discutessimo con lui.
Ciò che accomuna i poeti inclusi è uno sguardo, uno “sporgersi” verso l’alterità, verso una dimensione sia cosmica che intima – e quindi vertiginosa. Lo spazio della coscienza – infinito e minuscolo – è il campo misterioso in cui ci si muove. Il valore dei testi non risiede nella bellezza estetica (pure straordinaria) ma nella loro profonda consonanza col tempo che viviamo, un tempo che Guzzi chiama del Secondo Appello.
Qui vibra la dinamo. Se è vero che duemila anni fa, con l’avvento di Cristo, accadde sulla Terra qualcosa di inaudito e definitivo – l’incarnazione di Dio nell’uomo e la proclamazione del Regno – possiamo forse affermare che oggi il processo allora avviato stia toccando un culmine, una soglia?
Le numerose insostenibilità che ci affliggono – economiche, politiche, ambientali, culturali, psichiche – testimoniano certo di un “tempo compiuto”; i poeti lo videro con largo anticipo e ciascuno a modo proprio (per vie inconsce o semiconsapevoli) cercò proprio nella figura e nell’esempio “impossibili” di Cristo l’unico approdo concreto, individuò nello specifico del messaggio cristiano l’unica risposta all’inquietante domanda della modernità.
Così appare più chiara la nostalgia di Holderlin per l’antica Grecia, poi mutatasi in un’ardente brama di futuro; o l’inferno rimbaudiano “schiavo del battesimo” eppure aurorale; o le sere decomposte di Trakl in cui brilla però un neonato barlume; o ancora il dialogo con l’altro da sé portato fino alla scissione da Celan e la furia “mattiniera” di Char, la sua incendiaria volontà di purezza.
Ma i poeti/profeti sono accomunati anche dalla tragedia biografica, perché il passaggio antropologico non si può vivere in solitudine, occorre un alveo culturale, un luogo di accoglienza, una sala/parto (per usare un termine caro a Guzzi). Il mondo non capisce o, peggio ancora, si rivela ostile al cambiamento; il vecchio ordine egoico/bellico non molla le leve del comando; e il prezzo da pagare per insorgere può arrivare alla follia e al suicidio.
La debolezza dei poeti consisté nell’incapacità d’immergere le visioni nel quotidiano, nell’umiltà del giorno dopo giorno. Ma essi scontarono l’anticipo; noi ci troviamo nel luogo e nel momento giusti per non sbagliare, per non letteralizzare (e cioè seguire alla lettera, schematicamente anziché creativamente e poeticamente) gl’impulsi distruttivi che ogni vera insurrezione porta con sé. “La poesia è l’amore realizzato del desiderio rimasto desiderio” recita un magnifico verso di Char. Dire così tanto in così poco è il drammatico privilegio dei poeti. Il nostro, suggerisce Guzzi, è di vivere un tempo in cui quel verso può diventare realtà.
Rimango a bocca aperta per questa presentazione. Complimenti!!
Grazie per questo post che presenta molto bene il libro e che mi stimola a leggerlo e a gustarmelo lentamente
Grazie ancora Enrico. Un abbraccio forte
Fabio
Anche io mi unisco ai complimenti e ai ringraziamenti di Fabio. Presentazione bellissima!
Ciao
Walter
Carissimo Enrico, come ti ho sempre detto, non solo sei un ottimo scrittore, ma sei anche un ottimo critico.
Dobbiamo inventarci una nuova forma di critica, che sappia valutare un autore in base ai criteri iniziatici che tu hai utilizzato: in che misura gli scritti di questo autore incarnano e illuminano i passaggi della trans-figurazione di umanità che stiamo vivendo, in che misura questo libro appartiene all’umanità nascente, e in che misura invece ricicla canoni, stili, sentimenti, e concetti, propri dell’Io egoico-bellico in via di estinzione?
Su questo dovremo molto lavorare, anche nel gruppo di creatività culturale.
Un abbraccio. Marco
Grazie a tutti per le belle parole.
A proposito di parole, il libro di Marco ne è pieno, davvero. E’ un libro che fa bene all’anima, dunque il mio consiglio è di leggerlo e rileggerlo. Un poeta che parla di (e con) altri poeti è cosa rara.
Sulla nuova critica cui Marco accenna, anch’io credo ce ne sia un gran bisogno, anzi un bisogno terribile. Discernere, ecco la parola vitale, cruciale oggi, in un’epoca in cui si pubblica molto e in cui sono molti a possedere una tecnica… ma poi cosa ci si fa con questa tecnica? E come si distingue dal vero talento? Come si distingue la menzogna dalla verità in un ambito – la narrativa – in cui tutto è già in un certo senso menzogna?
Vi ringrazio ancora, a presto.
Enrico