Suor Giulietta, un’amica che ha seguito i nostri corsi dalla lontana Cina, in occasione dell’Anno Giubilare della Misericordia ci ha inviato questa testimonianza:
L’anno di misericordia del Signore: questa parola evangelica e l’accentuazione speciale che Papa Francesco ha sottolineato per questo anno Giubilare Straordinario della Misericordia, hanno provocato un subbuglio nel mio piccolo cuore. Una slavina si è staccata dal mio mondo dei ricordi trascinando emozioni, lotte, sofferenze che con l’aiuto del Misericordioso si sono integrate nel mio vissuto diventando cellule vive che con la loro profondità, forza e potenza influenzano ancora oggi il mio essere e il mio interagire ogni giorno.
“Non passerà la notte”: questo il verdetto del medico dopo aver visitato la mia mamma. Rimasta sola nella notte buia, al lume di una piccola lampada, vegliavo, cercando di comprendere e trovare una ragione di quanto mi stava capitando. Fissavo il suo volto e ascoltavo il suono del respiro faticoso che si faceva sempre più irregolare. Curva sul suo letto tenevo strette le sue mani nelle mie, desiderando che lei sentisse la mia presenza, il mio calore ed anche la mia richiesta di perdono per le molte incomprensioni e specialmente per i venti e più anni di lontananza da lei per svolgere la missione in Taiwan. Lei diceva che era un nome difficile da pronunciare e geograficamente così lontana.
Il tic tac dell’orologio a muro faceva da sottofondo al mio dialogare muto con lei e con Dio mentre le ore scorrevano veloci. I primi albori dell’aurora scacciarono le ombre scure della notte ribaltando il verdetto nefasto del medico: potei notare un sensibile miglioramento e la ripresa della conoscenza; aprendo gli occhi mi guardava incuriosita, senza parole: potei leggervi la sua meraviglia e la sua gioia nel vedermi accanto a lei.
Al mattino presto il medico esprimeva la sua meraviglia per la vittoria della vita sulla morte, ma lasciava tutti noi suoi figli stupiti e impreparati a ricevere la sua diagnosi: Morbo di Alzheimer con varie altre complicazioni; questione di poco tempo, presto l’arrivo all’ultima stazione; importante non lasciare più la mamma sola, necessita di aiuto permanente. Valutando la reale situazione di noi quattro figli, tutti molto occupati e impegnati, l’unica che poteva prendersi cura della mamma ero io che ero una suora.
Avevo appena finito il servizio di governo nella mia delegazione, ero ritornata da poco a Roma per iniziare un anno sabbatico, un periodo di studio e di rinnovamento, quindi questo non era indispensabile per fare bene la suora. Lo studio sommo a cui ogni religioso deve tendere non è la carità?
Sentii dal profondo del cuore che la rinuncia allo studio era semplice e nello stesso tempo non facile: rinunciavo ad un servizio più qualificato per Gesù, per servire Gesù in un altro modo; non era sempre Lui l’oggetto del mio servizio? Quindi, chiesti i dovuti permessi ai miei superiori e ottenutoli mi misi con impegno in questa nuova avventura.
Ogni giorno il Signore mi riservava delle sorprese che mi lasciavano spiazzata. Avevo veramente tanto da imparare! La mamma vedendomi indaffarata nelle varie faccende domestiche mi domandava chi fossi, e che cosa facessi in casa sua. All’inizio rispondevo divertita che ero un angelo caduto dal cielo per il troppo peso e poi le chiedevo se lei si ricordava di avere una figlia missionaria in Taiwan che si chiamava Giulietta. Lei affermava di si, esprimendo tutto il suo orgoglio per questa sua figlia che ora era a Taipei. Lei si che era brava, capace di grandi cose, ma io chi ero? Non avevo io una mamma? Perché non andavo ad occuparmi di lei invece di starmene qui a casa sua senza far nulla? Oppure, dopo aver preparato il pranzo, nel momento di mettersi a tavola non voleva perché desiderava aspettare i figli per mangiare insieme, mentre io che non sapevo cosa significasse essere mamma potevo farlo senza preoccuparmi del loro ritardo.
A nulla servivano le mie argomentazioni per farmi riconoscere come sua figlia, oppure per farle comprendere che ora i suoi figli erano sposati e avevano una casa e quindi, anche se avessimo aspettato fino a sera, non sarebbero mai arrivati a mangiare con noi. L’impotenza di far breccia con argomentazioni logiche mi costrinse ad accettare la realtà di questa malattia: essa aveva il magico potere di cambiare e trasformare i vincoli più intimi, come quelli di madre e figlia, e di capovolgere i ruoli che la natura aveva stabilito. Cosa potevo fare? Imparai a diventare madre della mia mamma, ad usare il contatto fisico, con carezze e abbracci, per farle sentire il calore della mia vicinanza, la mia gratitudine per avermi generato alla vita, aver condiviso la fede, ed ora mi dava l’opportunità di imparare a ‘servire’, come del resto ha fatto il Signore con me. “Perché una vita che si spossessa di sé, perdendosi nell’amore, imita Cristo: vince la morte e dà vita al mondo. Chi serve, salva. Al contrario, chi non vive per servire, non serve per vivere”, dice Papa Francesco.
Fortificata da questa nuova esperienza di fede mi sentivo una nuova creatura, un miracolo di Dio, perché Lui aveva allargato, curato e riscaldato il mio cuore. Mi sentivo forte e pronta a testimoniare che, per chi ama il Signore, Lui dona molto di più di quanto noi possiamo domandare e pensare, secondo la potenza che già opera in noi (Ef 3,20). Chiedevo la guarigione della mia mamma per poter ritornare presto alla missione e Lui mi faceva sentire che io ero il MIRACOLO, che il servire la vita era servire Lui.
Poiché la malattia proseguiva il suo percorso lento e degenerante, e il tempo trascorreva impietoso, la gente incominciava a pensare che una missionaria che non ritorna nella sua missione o ha problemi personali o non vuole più fare la suora. Spesso persone devotissime e con tanto amore rivolte alla mia mamma dicevano: “signora Caterina, lei è trattata troppo bene, deve morire in pace e così sr. Giulietta può ritornare alla sua missione, là l’aspetta tanta gente, tante cose da fare”. Anche alcune sorelle della mia congregazione cominciarono a pensare che la mia scelta era come un tradire la mia congregazione: avevo ricevuto tanto ora che potevo dare rimanevo a lungo fuori della comunità; si, era una cosa buona, ma non era cosa migliore rispondere alle tante attese dei molti che ancora non conoscono il Signore? Non avevo già dato il mio contribuito a sufficienza? ora non era giunto il tempo per ritornare?
Don Alberione aveva imparato dal suo direttore spirituale a portare davanti al Maestro Divino tutto ciò che incontrava, viveva o sentiva, per farne oggetto di preghiera davanti al Signore; pure io, fin dai primi anni di vita religiosa, lo avevo imparato: ogni giorno portavo nella messa e nella mia adorazione le voci che sentivo, e che interpellavano la mia coscienza e le motivazione del mio agire quotidiano davanti a LUI e chiedevo luce, forza per fare sempre e in ogni cosa solo e sempre la Sua Volontà. Anche se il suo rispondere si esprimeva sotto la soglia del silenzio comprensibile all’orecchio umano, imparai, guardando Lui sulla croce, che se non si è capaci di morire per uno, non si è capaci di amare i molti. Quello che compresi e mi diede grande gioia l’ho letto nel discorso che il Papa ha fatto ai suoi collaboratori; lo faccio mio perché, anche se mi sento molto lontana nell’attuazione, esprime bene quello in cui ho creduto e credo:
Dio ha uno “stile” che “ci salva servendoci e annientandosi” e “ha molto da insegnarci”. La sua vittoria sulla morte non è “trionfante” ma “umilissima”: innalzato sulla croce, lascia che il male e la morte si accaniscano contro di Lui mentre continua ad amare. Gesù porta un cambiamento radicale non “a parole ma con i fatti; non in apparenza, ma nella sostanza; non in superficie, ma alla radice”, facendo “della croce un ponte verso la vita”. Anche noi dobbiamo scegliere l’amore servizievole e umile, che rimane vittorioso per l’eternità”; “un amore che non grida e non si impone, ma sa attendere con fiducia e pazienza. Mentre noi uomini “siamo portati ad amare ciò di cui sentiamo il bisogno e che desideriamo, Dio “ama fino alla fine il mondo, cioè noi, così come siamo. Che ci basti Lui: in LUI ci sono vita, salvezza, risurrezione e gioia. Allora saremo servi secondo il suo cuore: non funzionari che prestano servizio, ma figli amati che donano la vita per il mondo”.
Da quel giorno il letto della mamma lo considerai il suo altare, là celebravamo la nostra messa, portando ognuna il suo dono. Considero oggi, i 10 anni trascorsi in famiglia come una studio approfondito del valore inestimabile della vita in tutte le sue fasi, una missione veramente speciale che sta continuando a rimotivare le mie giornate vissute in un contesto di una comunità grande, internazionale con giovani e anziane. Sono ritornata a Taiwan dopo che la mamma è salita al cielo, sento la sua presenza e il suo aiuto, comprendo sempre meglio che la missione non è un luogo ma è una persona viva: Gesù Via, Verità e Vita, Maestro Misericordioso amante della vita.
Una testimonianza che vale più di 1000 omelie!
Il 6 gennaio ricorrerà il 16° anniversario della morte della mia mamma e lo scritto di suor Giulietta mi ha riportato con il cuore a quei giorni.
Ho riprovato l’emozione delle carezze, degli abbracci, di quello “scambiarsi tenerezza” tenendosi la mano (frase che già mi aveva molto colpito nello scritto di Mariapia in occasione della morte del marito).
Io purtroppo ho fatto un percorso inverso rispetto a suor Giulietta; per tutta la vita ho avuto un bel rapporto con la mamma, ma nei 3 mesi intercorsi tra la morte del papà e la sua ci sono state piccole incomprensioni.
Quando è mancata ho avuto grandi sensi di colpa che ho superato grazie alle parole illuminate di una grande amica e con la preghiera .Ora che sono approdata a Darsi Pace sento più vero e realizzato il perdono che la mamma e Cristo mi hanno concesso.
Grazie a suor Giulietta e alla redazione.
Buon anno e buon cammino a tutti.
Rosaria
Cara Suor Giulietta,
la tua testimonianza mi è entrata nel cuore anche perché essendo anch’io suora conosco le difficoltà di certe scelte all’interno di questo “mondo religioso”. La tua esperienza mi ricorda un detto di Chiristian Bobin : ” Non sono la bellezza, la forza o la mente che amo in una persona, bensì l’intelligenza del legame che ella ha saputo stringere con la vita” … è la Vita a cui hai dato respiro e che palpita nelle tue parole a dire che cosa CONTA per Dio. Chiara
Bellissima testimonianza: scalda il cuore ed illumina sulla “sapienza” del servire amando. Grazie!
Grazissime, Suor GIULIETTA,per la profondità della tua testimonianza e per la grande risonanza che ha avuto in me. Sempre, con stupore constato che le testimonianze autentiche edificano e lanciano ponti unendo stati di vita e storie diversissime ed uguali.
Ho 69 anni e anch’io per otto anni ho imparato a diventare madre di mia mamma, morta dieci anni fa a 97 anni. Ho anch’io almeno in parte verificato che “una vita che si spossessa di sé , perdendosi nell’amore, unita a Cristo, vince la morte e dà vita al mondo”. Dopo la sua morte sempre piu’ sento che questo spossessamento che ribalta i ruoli e rovescia gli sguardi è in atto in tutte le mie relazioni, purificando sopratutto quelle non facili con i due figli adottivi. Ora sempre più in CRISTO, più che figlia o madre mi sento davvero predestinata, come tutti, ad essere figlia adottiva. “Benedetto Dio, Padre del Signor Nostro Gesù Cristo,… in lui ci ha scelti , predestinandoci ad esser per lui figli adottivi, mediante CRISTO secondo il disegno d’amore della sua volontà..(Ef 1,3-5). Kirie, Amen, Alleluia.
Ho percepito calore, bontà e forza, e conosciuto un’altro po’ che cosa significa: “imparare ad amare”. Terrò con me come un amuleto le tue parole; “se non si è capaci di morire per uno, non si è capaci di amare i molti.”!
Grazie! E vista la festa di oggi auguri a tutti pieni di tanta Luce!
Un carissimo saluto,
Fabio.
Cara Suor Giulietta,
Leggendo la tua testimonianza due sorgenti di lacrime han cominciato ad irrigarmi il viso di consolazione.
Non è tanto il ricordo nostalgico del passato o l’assonanza o la differenza del tuo o del mio rapporto con la madre, ma la consapevolezza della Verità del Presente che viene, nel fragile corpo, “bisognoso di cure”, come fosse un bambino.
“Madre, figlia del tuo stesso figlio”
Il corpo, ancor oggi “mortale”, necessita di cure amorevoli, che solo uno spirito “immortale” può elargire coniugando liberamente sacrificio e amore.
Ciao, buona continuazione
Rosella