Se penso al gioco e al giocare, la prima cosa che mi viene in mente sono bambini sudati che si rincorrono, o seduti per terra tutti intenti ad escogitare qualche nuova avventura. È il ricordo piacevole e ancora vivo di un’infanzia, la mia, fatta di spazi estivi dilatati, pieni dell’entusiasmo di inventare il proprio tempo insieme con una combriccola di piccoli amici.
Poi si diventa grandi e il gioco diventa un’attività sempre più marginale, da nascondere nelle pieghe di altre attività più produttive e socialmente accettate. In fondo per tanti anni al gioco non ho pensato più, tutta intenta a realizzare concretamente gli obiettivi che ritenevo giusti per la mia vita.
Poi durante un esercizio del terzo anno di Darsi Pace è successa una cosa inattesa. Ad una domanda sulla qualità spirituale che ho paura di mostrare agli altri, mi sono ritrovata a scrivere di getto queste parole:
“Ho paura di mostrare agli altri la mia voglia di giocare”.
Ma il gioco è una qualità spirituale? E perché ho paura di mostrare questo lato di me?
Il gioco è una di quelle attività che appartengono alla filogenesi della nostra specie: da sempre l’uomo gioca e ha bisogno anche di giocare. Questa cosa mi sembra suggestiva, perché non ha una finalità materiale diretta e immediata. Certo, nel bambino il gioco ha una fondamentale funzione di apprendimento, ma dietro sembra esserci molto di più. Il gioco si ritrova intessuto dentro così tante attività umane, e spesso proprio le più elevate: la cultura, l’arte, la poesia, la scienza, la politica. Sembra essere qualcosa molto più grande di noi, qualcosa di cui non possiamo fare a meno.
Anche la riduzione economicistica dell’uomo, che respiriamo ogni giorno, non riesce a sopprimere del tutto il nostro bisogno di libertà, fantasia, creatività, il nostro bisogno di cooperazione e di appagamento disinteressato.
Allora capisco che l’attività creativa che chiamiamo gioco è una qualità spirituale perché è in un certo senso… l’attività di Dio! Dio crea continuamente e vuole continuare a creare il mondo insieme a noi.
Ma io ho paura di mostrare la mia voglia di giocare. Perché?
Mi frena un’immagine di me costruita con pochi margini di libertà esteriore, arroccata dietro al bisogno di farsi accettare soprattutto per la propria serietà ed efficienza. In fondo per il proprio conformismo. Ho seguito per anni il modello di adulti tristi che patiscono il ritmo e i contenuti del loro mondo sociale e lavorativo e cercano di dimenticarlo durante il loro tempo libero, ma non di cambiarlo. E così le forme di creatività che vedevo nel mondo adulto erano senza speranza e senza sapore, in fondo senza gioia.
Avevo paura di giocare nel modo che volevo io, con cose semplici ma anche con idee grandi, liberanti, che mettessero in moto la voglia di provare a costruire qualcosa di nuovo.
Allora mi accorgo che questo percorso di Darsi Pace, i suoi intrecci culturali, spirituali e psicologici io li sto vivendo anche come un gioco, nel suo senso più profondo di impegno libero e creativo. È una finestra che ogni giorno provo ad aprire su un altro mondo possibile e su un altro modo possibile di essere me.
Ho voglia di giocare a questo gioco grande e misterioso e di farlo con la semplicità e la passione della bambina di allora.
Ringrazio Antonietta per le sue profonde ed interessanti riflessioni.
Condivido pienamente l’affermazione ” Dio crea continuamente e vuole continuare a creare il mondo insieme a noi”, affermazione che supera una concezione statica dell’attività creatrice di Dio il quale, anch’io lo credo, desidera coinvolgere personalmente tutti noi uomini e donne, chiamandoci a trasformare il mondo attraverso la nostra liberazione interiore e la conseguente espressione delle nostre autentiche potenzialità.
A mio parere questo discorso riassume molto efficacemente il senso del mio percorso nei gruppi Darsi Pace, un cammino umile e paziente che intendo affrontare con serietà ma, nel contempo, con gioia e con spirito di gioco.
Maria Letizia
Dici bene, cara Antonietta, ed infatti il manuale Darsi pace propone da subito il nostro itinerario proprio come un gioco (pag. 25), citando il grande Schiller: “Allora l’uomo è veramente uomo, quando, giocando, si diverte con le cose”.
Grazie, e auguri! Marco
Ciò che comprendo lungo il cammino trasformativo è che per giocare a creare è necessario rinunciare all’ idea che sono io a creare abbandonandomi fiduciosa nelle mani del Creatore.
Abbandonarmi dentro la relazione, l’ ascolto e la ricezione, una dinamica libera dalla paura in cui l’emozione fondamentale è un Amore creativo.
Sì cara Antonietta, giochiamo insieme a questo gioco che disegna, mentre si fa, la nostra vera identità.
Grazie e un abbraccio.
Giuliana
Cara Antonietta
Giochiamo? bella domanda.
Condivido “teoricamente”, cioè sono d’accordo su ciò che rappresenti narrativamente, ma, nella mia esperienza adulta, non tornato due cose:
la prima è la vergogna
Quando gioco realmente, non provo alcuna vergogna ma solo una grande gioia nella libertà che desidera attraentemente di connettersi con altri. Ma, spesso, forse sempre, questo fa lo stesso effetto del ritorno del figliol prodigo: rompe tranquilli schemi precostituiti.
E questo è il punto dolente che richiama l’altra dissonanza.
la seconda, l’immagine del gruppo
Mi pare che molte cose buone, che educano e fanno cresce nella consapevolezza di sè, si facciano nei nostri gruppi, ma che si giochi realmente mi lascia un po’ perplessa.
Mi piacerebbe sentire la voce dell’esperienza di coloro che compongono il gruppo creativo. in merito al tuo quesito. meglio ancora che qualcuno mi desse testimonianza di gioco con il tuo post.
Al momento io gioco solo con i miei nipotini di 5, 3, 1 anno e mi diverto.
Il resto è un duro lavoro che faccio su me stessa, spegnendo molte delle mie aspettative: giuste o sbagliate pretese che siano; nell’attesa che nasca “quasi da sè” l’energia necessaria al gioco “di gruppo”, mi educo a vivere tra “il già e il non ancora” del mio “tutto e niente”.
Ti abbraccio con affetto e ti auguro ogni cosa buona.
Rosella
gioco
ho letto ora la risonanza di Giuliana e ti ho vista abbandonata/sostenuta sulle/dalle spalle di tuo padre.
ciao
Cara Antonietta grazie per questo stimolo di pensiero!
Quello che noi teniamo caro nei nostri gruppi è il clima emotivo con cui affrontiamo la nostra quotidianità.
La situazione più dura e aspra, può essere vissuta in un clima emotivo di tensione, paura, irrigidimento, come se fossi minacciata da un pericolo, oppure in un clima emotivo disteso, di fiducia, come il bambino che sa che la mamma darà il nutrimento necessario, in questo clima più disteso posso giocare la mia vita con la serietà e la leggerezza con cui gioca un bambino, con l’affidamento e la cura minuziosa dei particolari, libera dalle tensioni inutili che l’adulto spesso si trascina rendendo l’asprezza della vita un vero e proprio inferno.
Un caro saluto a tutti
Daniela
Mi rendo conto, leggendo questo post, di quanto spesso mi lasci trascinare dal lato faticoso della vita incastrandomi negli ostacoli e, invece, mi dimentichi del lato giocoso, cioè creativo, frizzante, curioso, intrigante… ma soprattutto leggero! Sento il peso, ma faccio fatica a sciogliere gli spessi strati di ghiaccio che mi incapsulano. Inizierò a riflettere sul gioco come modalità insurrezionale della mente…
iside
Da ragazzo spiare i ragazzi giocare
al ritmo balordo del tuo cuore malato
e ti viene la voglia di uscire e provare
che cosa ti manca per correre al prato,
e ti tieni la voglia, e rimani a pensare
come diavolo fanno a riprendere fiato.
Da uomo avvertire il tempo sprecato
a farti narrare la vita dagli occhi
e mai poter bere alla coppa d’un fiato
ma a piccoli sorsi interrotti,
e mai poter bere alla coppa d’un fiato
ma a piccoli sorsi interrotti.
Cara Antonietta
queste frasi della canzone di De Andrè – Il malato di cuore- mi hanno fatto spesso pensare alla mia difficoltà ad entrare nel gioco della vita con tutta me stessa.
Se penso al gioco dei bambini, io li vedo così concentrati nel dar vita al loro mondo interiore, che si dimenticano di stare “giocando”.
Gioco e Vita sono la stessa cosa, cambia quanto ognuno di noi è disposto a “mettere in gioco” di se stesso, quanto invece siamo dei “malati di cuore” che temono di perdere la vita vivendo.
ennia
L’idea del gioco mi sembra molto liberatoria, mi pare che possa risanare e far cambiare.
Condivido quello che scrivi e il tuo post diventa così uno stimolo, per giocare con le parole che compongono i mie pensieri, e poi anche con quelle parole che esprimo a chi mi sta vicino o si presenta dinnanzi. Cerco che, nella condizione di malattia con gravi impedimenti fisici in cui mi trovo, il gioco con le parole i pensieri, con le immagini che si presentano, con la voce, o con un gesto o un cenno, diventi una partita dove sono partecipe perché sia di continuo un gioco gioioso, un riso o un sorriso. E in tal senso trasformi tutte le più piccole e più semplici e normali azioni quotidiane valorizzandole di significato. Non voglio insomma che le mie personali negatività abbiano il sopravvento, e che vincano i pensieri depressivi che pure sono in agguato. In fondo mi dico le scelte sono sempre e solo due; e allora no, non voglio, neanche con le parole che esprimo o nei pensieri che produco, che prevalga la distruzione, l’annientamento, la morte ma emerga, nonostante tutto e sempre, la vittoria della vita nel suo splendore! Per questo i momenti di riso, di scherzo, e, cioè, di gioco diventano punti di forza! Revisionando il passato collego allora un elenco di tutti i momenti giocosi, piccoli o grandi, che restano vivi e gioiosi. Cerco di imprimerli nella memoria e custodirli in uno scrigno che chiamo: “Ma ti ricordi quella volta che……?”
Combatto così le mie battaglie quotidiane, puntando su oggi, su adesso e su ora, sperando di farcela a costruire ancora occasioni, o momenti di bellezza e di gioco, sempre, pregando e ringraziando lo stesso di esserci, di non essere solo, e di tutti e di tutto.
Grazie Antonietta per aver ci ricordato l’importanza del giocare!
E un saluto affettuoso a tutti voi!
Fabio.
Molto belli i vostri commenti, grazie.
Provo a rispondere qualcosa, in ordine sparso.
È vero, cara Rosella, anch’io penso che noi non sappiamo ancora giocare insieme, non sappiamo ancora come stare insieme in modo sereno e costruttivo. Le nostre relazioni (le mie almeno), anche quelle più libere, sono spesso impacciate, legate, ma nonostante gli errori e i fallimenti sento che il lavoro che facciamo va nella direzione giusta.
Mi ritrovo molto anche nelle parole di Ennia, cioè nella paura di giocare/vivere con tutto noi stessi. Per una parte che desidera tanto vivere in pienezza ce n’è sempre un’altra, nascosta nell’ombra, che rema contro, che vuole nascondersi, che magari fa azioni di sabotaggio. La mia è particolarmente subdola e agguerrita. Non credo possiamo liberarci di questa parte ma ascoltarla, cercare di capire le sue ragioni e continuare però a nutrire la nostra parte che desidera la vita.
In questo tu Fabio sei un maestro, ci mostri che quando la vita diventa un gioco durissimo c’è sempre un altro modo di vedere le cose, c’è ancora una possibilità di scelta e di creatività. Che libera noi e libera gli altri.
Quindi continuiamo a provarci, proviamo ad imparare a giocare, a farlo bene, a farlo insieme.
Ciao!
Antonietta
Mi permetto, come piccola aggiunta a questo bel post e alla relativa discussione, di immettere qualche minima considerazione sul gioco, da un punto di vista leggermente diverso, che avevo – guarda caso – postato poco tempo fa. Voglio inserirlo qui perché mi colpisce e mi conforta l’affinità tra il tuo intervento e quanto avevo scritto,
http://www.segnalerumore.it/2015/11/limportanza-di-giocare.html
Un caro saluto,
Ciao Marco, è vero, il tuo scritto ha tante affinità con questo post, e la cosa conforta anche me.
E’ sempre un piacere leggerti…
Antonietta