“Siamo chiamati perciò in un certo senso a reimparare a parlare, e quindi ad essere Chiesa (…) Sarà questo immenso setaccio spirituale a rinnovare anche le forme in cui le comunità cristiane si sono finora organizzate, e forse ad avviare seriamente quella riunificazione dei cristiani che finora sembra rimanere una pia aspirazione.”
Ritrovo provvidenzialmente questa frase – che estraggo dal volume La nuova umanità di Marco Guzzi – proprio mentre sto ragionando su un post a margine della settimana per l’unità dei cristiani, mentre sto pensando sotto che angolo affrontare il tema, come renderlo palpitante per la mia personale sensibilità e dunque – confido – per quella di chi andrà a leggere: ormai lo so bene, posso sperare di comunicare davvero soltanto ciò che prima abbia risuonato profondamente in me.
Reimparare a parlare, appunto. Mi pare significativo e salutare questo tuffo nell’umiltà. Io per primo sento di averne molto bisogno. Fateci caso: la riunificazione dei cristiani, se diamo credito a questo passaggio, è sì posta come una prospettiva sperabile, ma non certo a valle di sapienti strategie ecclesiali o elaborate dinamiche pastorali. Non sembra proprio dover arrivare a botte di riunioni, dialoghi forzati, incontri programmati, ricerche sapienti di territori comuni, nei quali camminare – ovviamente – con tutte le dovute cautele. Capitemi: tutte cose che servono, certamente. Alle quali molti uomini capaci si stanno adoperando, grazie al cielo. Ma il punto che sto inseguendo ora è un altro. Stiamo alle parole, semplicemente: a cosa viene ricondotta – nella frase del libro – la crescita ragionevole della speranza di una futura riunificazione dei cristiani? A tutto questo?
Niente affatto.
Quello che viene proposto è molto più umile, appunto. Si tratta innanzitutto di riconoscere che c’è da imparare di nuovo, ovvero di porsi in atteggiamento di apertura nello stato più elementare, quello necessario per apprendere. Quello che sapevamo, non è vero. Tutto ciò che sappiamo non è vero. O meglio, non è vero nei termini in cui lo pensiamo vero. Va scoperto sotto una luce nuova.
Come il percorso proposto in Darsi Pace, in fondo. Certo si arriva alla scelta di fede, e chi è in questo percorso sa bene che vi si arriva in modo ragionato e progressivo, non certo a-problematico. Ci si arriva – e questo è il punto, a mio avviso – illuminando questa scelta in modo nuovo, ovvero (probabilmente) nel modo che è sempre stato quello autentico, ora spesso e volentieri offuscato. E non è poi un caso che il cammino sia proposto a persone orientate verso le più diverse esperienze spirituali, sia offerto a persone di ogni credo.
C’è infatti da imparare da zero. Da imparare a parlare. Non, appunto, di decidere di cosa parlare, ma proprio di imparare a parlare. E’ molto molto più elementare, più decisivo ed estremo. Come dire, non è che scelgo quale costruzione concettuale la mia mente deve selezionare e portare avanti, in modo spesso belligerante, asfaltando se possibile le opinioni contrarie. No, no. Tutt’altro. E’ che è la mia mente che deve imparare a costruire concetti e idee in modo nuovo. Del resto, come fa una mente scissa, persa nel principio di separazione che è linfa vitale per l’ego, a lavorare verso la vera unità? Non c’è verso. Ogni sforzo produrrà inevitabilmente nuova separazione.
Ed ecco il punto. Nella misura in cui io parto da una mente divisa, non posso fare altro che propagare la scissione, anche contro ogni mia volontà cosciente. In ogni cosa, in ogni ambito. Sia quello familiare, che quello lavorativo, ricreativo, ecclesiale. Se voglio cambiare il mondo, mi insegna la frequentazione dei corsi Darsi Pace, devo cambiare io, prima di tutto. Se voglio un mondo unito, ogni mondo (e quello dei cristiani non fa certo eccezione) devo essere unito io, prima di tutto.
E un primo stadio essenziale è fare tabula rasa, di tutto quello che presuntuosamente credo di sapere, di me e dell’universo. Di tutte le mie belle convinzioni preconfezionate, accuratamente plastificate, avvolte nel cellophane a più strati, per evitare che il contatto con le circostanze del reale le possa in qualche modo alterare, che rischi di metterle in discussione. Caspita, ci ho messo una vita a crearle e poi a plastificarle – mi dico –e ora me le volete togliere? Ma se mi togliete quelle io a che mi appoggio? In che consisto? Se mi togliete il mio bel mazzetto di convinzioni inalterabili, io sono di nuovo davanti al baratro.
Ecco, il baratro. La rigidità, la separazione, viene proprio dalla paura del baratro. Io ho una dannatissima paura del baratro. Una paura bella concreta. E temo peraltro che questo baratro io ormai non lo possa più scansare. E tutto lo sforzo continuo – e ultimamente vano – di esorcizzare il baratro, non mi permette di procedere verso l’unità. Tanto meno di partecipare davvero al processo così importante, così potenzialmente storico, come la riunificazione dei cristiani. Non scherziamo, ragazzi: finché sono sul ciclo del baratro – ultimamente convinto che sia la fine assoluta di me e di tutto (anche se me la racconto spesso in termini molto pii e devoti e mi diletto sovente in dotti distinguo teologici…), io sono immerso e perso in una guerra totale di divide et impera. Questi sono i fatti, i purissimi fatti. Ma di quale unità vado sparlando, allora?
Non per dire che tutto quanto si fa e si pensa per la riunificazione, sia inutile. Non si tratta più di negare qualcosa, contrapponendo altro – sarebbe lo stesso mefitico gioco dell’ego, ancora perpetuato. C’è da allargare, da includere, da impastare amabilmente tutto insieme.
Dice infatti papa Francesco, “La misericordia di Dio, che opera nel Battesimo, è più forte delle nostre divisioni. Nella misura in cui accogliamo la grazia della misericordia, noi diventiamo sempre più pienamente popolo di Dio, e diventiamo anche capaci di annunciare a tutti le sue opere meravigliose, proprio a partire da una semplice e fraterna testimonianza di unità. “
Dunque è proprio necessario imparare di nuovo, imparare ad accogliere e non più a dividere, contrappore, separare. Capisco allora, che non è appena una ennesima scelta. E’ davvero un nuovo vocabolario, con il quale iniziare a balbettare parole nuove.
Dismessi i paramenti da battaglia, arrendersi tutti alla stessa cosa. Tutti. L’unità dei cristiani mi viene da pensarla proprio così, come una resa comune. Al medesimo stupore, che solo sorpassa i vari distinguo e le fredde distinzioni normative. E tutte le strategie saltano allegramente, in questa logica. Capita perfino che una ragazzina di vent’anni – chiamata prestissimo al cielo, guarda caso – ne sappia di più di tanti dotti sapienti. Così scrive Lidia Macchi (poco prima di morire, espulsa a forza da un mondo che difende con unghie e denti una architettura egoica peraltro in inevitabile collasso) in una lettera ad una amica,
E io voglio uscire dalla foresta, perché la vita è mare, cielo, monti e pianure, case, alberi, volti umani, stelle, sole e vento e noi siamo fatti per questo Infinito che c’è; basta solo guardarsi in giro e per questo seguire questo “Qualcuno” che mi è venuto incontro nel groviglio della foresta e che mi dice: “Guarda lassù tra le foglie, vedi, c’è un pezzettino di cielo blu, blu, usciamo a vederlo”
Qui avverto, finalmente, una sola pacificante unità. Queste parole sono balsamo, musica. Avvolgono e stemperano ogni divisione, anche di fede. E potrebbero venire in mente tante frasi di un’altra più famosa ragazza, anch’essa chiamata presto al cielo, Etty Hillesum. Non a caso, poi, anche lei donna. Un’altra Penelope che unisce, ricuce. Conosciamo la storia. Ulisse attraversa il mondo con la potenza maschile della spada, che definisce, illumima ma spesso (ancora) chiarisce per contrapposizione. Nello stesso tempo però il principio femminile, Penelope, armonizza, ripara. Lei non combatte, non penetra nuovi territori con l’astuzia e l’inganno. No, lei cuce e aspetta. Significativo, l’atto suo del tessere: mette insieme, compone in una trama armonica, accosta con pazienza fili diversi. Sotto un altro piano, come non ricordare Maria, una ragazzina ancora più giovane, che – lei stessa madre del Principio di Unità – custodiva tutte queste cose nel suo cuore…
L’unificazione dei cristiani, per concludere, appare dunque filiazione sperabile e perfino possibile, di quella unificazione interna per la quale siamo chiamati, ora più che mai, ad un lavoro cordiale e anche gioioso. Di quella gioia che ti prende, quella illogica allegria (per dirla con Gaber) che ti assale quando intuisci che il punto non è quanto tu sia indietro o avanti, sporco o pulito, santo o peccatore. Il punto – in ogni singolo momento, in ogni minutissimo grano di tempo – è solo dire sì a questo lavoro cordiale che ti viene proposto.
Per alcuni è un attimo, come Lidia. Per altri è il lavoro di una vita. Per tutti, è la riposta gioia di collaborare a rendere il mondo più luminoso, a rendere il mondo uno.
Anche a me fa paura il baratro, ma è forte il desiderio di un linguaggio nuovo che mi permetta di parlare con gli altri senza mentire, senza innalzare muri o delimitare recinti.
La via è lavorare su di me, ogni giorno e più volte al giorno riparto da qui.
La gioia è comprendere che “l’illogica allegria (..) di vivere il presente”, come canta Gaber, nella fede cristiana ha un nome preciso la cui potenza ci attraversa ogni volta che facciamo spazio, lasciamo morire ciò che finisce del nostro modo di essere e ci apriamo senza paura a ciò che non sappiamo.
Grazie Marco per le tue luminose parole.
Giuliana
” è forte il desiderio di un linguaggio nuovo che mi permetta di parlare con gli altri senza mentire, senza innalzare muri o delimitare recinti.” Dici bene Giuliana, ti ringrazio per il tuo intervento.
Mi rendo conto proprio in questi giorni come questo imparare a parlare nuovamente sia un compito importante ed urgente; vedo alzarsi steccati e sento rumori di piazza, cattolici e non. Vedo gente contenta nel costruire il suo bel muro (The Wall, cantavano i Pink Floyd già negli anni ottanta…). Il nuovo fa fatica, il parto è doloroso. Ma irreversibile.
A proposito dell’illogica allegria. Che strana sincronicità, scopro adesso che proprio oggi 25 gennaio è la data di nascita di Giorgio Gaber, che ho citato nel post senza sapere di questa singolare “coincidenza”
Caro Marco,
grazie del tuo intervento e della condivisione delle tue riflessioni. Riguardavo ieri il breve video su Heidegger con il commento di Marco Guzzi e così, nel linguaggio che è linguaggio poetico, ritrovo la necessità di una parola nuova. Una parola che non sia comunicazione funzionale, ma che, nell’atto dell’esserci, sgorga. E’ forte la sensazione di sentirsi parlati e di percepire l’unità interiore che riluce da questa qualità del dirsi.
La sensazione interiore di spaesamento e la paura del baratro sono dimensioni che condivido e percepisco, nel mio stato egoico di separazione. Così accolgo e mi riconosco nelle parole di Giuliana, nel desiderio quotidiano di lavorare su sè stessi, ogni giorno e più volte al giorno. Di accogliere la ri-partenza come una opportunità sempre nuova di pacificazione.
Condivido qui una citazione da “Politica della bellezza” di J.Hillman: “[…] Questi mutamenti del ri-vedere, della seconda veduta, sono proprio quello che indicano le parole “riguardo”, “rispetto”. Ri-spettare significa guardare di nuovo. Ogni volta che guardiamo la stessa cosa di nuovo, acquistiamo maggior rispetto nei suoi confronti e aumentiamo la sua rispettabilità. Scopriamo l’intima relazione degli “sguardi” – del riguardare e dell’essere riguardati, parole che hanno a che fare con la dignità. […] uno sguardo accresciuto, un rinnovato senso di rispetto di sè. […]”.
Nella quotidiana fatica e nella quotidiana bellezza.
Grazie.
Adriana
Non conoscevo quella canzone di Gaber “ L’illogica allegria “ che descrive un momento di “Illuminazione” nel quale la mente cessa di essere scissa e quindi anche intorno a sé non vede più separazione.
Solo in quello stato mentale è possibile l’unità dei cristiani, anzi l’unità di tutti gli uomini.
Solo in quello stato mentale le contraddizioni tendono a scomparire.
Mi tornano in mente le parole del Salmo 84 “Misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno”
Giustamente scrivi che solo il lavoro su di noi, sul nostro continuo giudicare e separare, ci fa vedere un pezzettino di Cielo tra l’intrico dei rami e alimenta la nostra speranza.
Grazie per i tanti spunti di riflessione che hai offerto.
Aldo, ti ringrazio per il commento. Devo dirti, aprendo una minima parentesi biografica, che quella canzone per me ha un senso spiccatamente “spirituale”, derivato dal modo stesso con il quale ne sono venuto a contatto. E’ stata infatti “adoperata” per un ritiro di Comunione e Liberazione, aprendone il significato più profondo, proprio nel senso che tu bene-dici. Mi ha colpito sia per l’occasione (non mi aspettavo proprio che una “canzonetta” fosse messa a tema in un ritiro spirituale…) che per la bellezza intrinseca e la significanza del brano. Così mi è piaciuto poterla ricordare qui…
E come ho scritto, sono rimasto poi molto colpito che il post è apparso nella data di nascita di Gaber, senza alcuna predeterminazione. Il reale ha delle connessioni misteriose, delle sincronicità sorprendenti – ed è in effetti sempre più profondo di tutte le rappresentazioni che ci possiamo fare…
Grazie per il tema proposto che mi pare davvero importante e molto coinvolgente. La parola utile, per imparare a parlare, e da tenere poi costantemente presente credo proprio sia: “discernimento”! Così come spiegato, e indicata con precisione e molto bene, nei commenti del post: http://www.darsipace.it/2015/11/09/unantologia-poetica-dellascolto/
Un caro saluto a tutti e ancora grazie per gli stimoli che ricevo,
Fabio.
Caro Marco,
condivido appieno la tua riflessione e ne apprezzo ancora una volta la modalità con cui ce la offri. In definitiva ogni volta che nelle nostre parrocchie si parla di unità dei cristiani si ha la sensazione che in realtà stiamo semplicemente invitando “gli altri” a tornare a casa. Ma il dentro e il fuori (qualsiasi casa) non sono categorie dell’unità.
Grazie a tutti, Paolo.
Grazie Paolo,
interessante la tua riflessione. Forse il fatto è che dobbiamo tutti quanti, avviare la fase del “ritorno” verso casa. Dentro e fuori sono schemi che dividono, sono schemi vecchi. Non posso dimenticare del resto che alla mia prima lezione del primo anno, Marco scrisse sulla lavagna la frase “La via del ritorno” http://blog.marcocastellani.me/2014/10/un-luogo-di-ricominciamento.html
Caro Marco,
Le tue parole sono di fuoco, mi stimolano a non riposare nel mio cammino di unificazione interiore, ma ad intensificare ciò che tu chiami “la riposta gioia di collaborare a rendere il mondo più luminoso, a rendere il mondo uno”. Il Cristo che si presenta nel tempio come l’Angelo della Alleanza, ci insegni a parlare in Lui e con Lui.
Grazie infinite! Bernarda
Cara Bernarda,
grazie per le tue parole. Sì sì, ciò che conta – mi sembra – è partecipare a questo lavoro, assentire a questa “collaborazione”, proprio dal punto in cui siamo, dalla situazione nella quale ci troviamo. Diceva Marco tempo fa, che nessuno stato d’animo è obiezione alla pratica meditativa; e per facile analogia, mi pare che si può fare questo lavoro da qualunque punto di partenza, qualunque sia la nostra situazione di debolezza o distrazione o caduta o irritazione o frustrazione…
Tutto ciò per noi è obiezione, spesso. Per noi, ma non per Lui.
Un abbraccio,
Marco