Rubo questa definizione alla chiacchierata con un’amica, perché l’accostamento dell’aggettivo “primitivo” a molte relazioni che io vivo mi è sembrato azzeccato.
Per carità, sono tutte relazioni “normali”: non ci sono grossi conflitti, al massimo cordiali chiusure, strategiche difese. A volte sentiamo che c’è una vicinanza empatica, vorremmo darci l’un altro qualcosa di meglio, ma siamo così maldestri che raramente ci riusciamo. Altre volte partiamo con le migliori intenzioni, poi basta una parola, un gesto e tutto si rovescia in un secondo.
Ci avviciniamo, ci feriamo, ci allontaniamo, ci chiudiamo. Diamo fino ad essere annientati e rabbiosi. Oppure scappiamo con l’ironia, con la falsa modestia, prendiamo tutto il possibile dall’altro e poi fuggiamo sazi e ciechi.
Mi sembra che ancora non sappiamo come si fa a stare bene insieme. Ma la cosa peggiore è che pensiamo che poco esista oltre a questo, che le relazioni tra gli esseri umani siano inevitabilmente intrappolate dentro questa reattività e questo sottile sfruttamento l’uno dell’altro. A volte anche nei rapporti più stretti, anche negli affetti.
Dietro c’é un nichilismo, un pessimismo inespresso ma evidente: tanto l’uomo è fatto così, bisogna difendersi e sopravvivere.
Io avevo gettato la spugna: meglio che mi dedichi a me stessa, magari alla ricerca interiore, e al diavolo gli altri. E gli altri, quasi tutti, si possono mandare inconsapevolmente al diavolo anche all’interno di una quotidianità accogliente e responsabile. È sufficiente separarsi dal proprio sentire profondo, e scollarlo dai gesti e dai pensieri. Quello che viene fuori è un misto di moralismo e alienazione, e il gioco è fatto.
La scoperta che persone nuove possono dare vita a relazioni nuove per me è stata fondamentale.
Allora mi piace pensare che tutto questo sia solo lo stadio iniziale, primitivo, di ben altre possibilità che esistono per stare insieme. Stare insieme a noi stessi per prima cosa: smontarsi delicatamente pezzo per pezzo con il lavoro interiore libera un sacco di energie che cercano spontaneamente una relazione autentica, con Dio e con gli altri.
In tutto questo Dio c’entra, eccome. La fede a questo punto non è più un optional: ciò in cui crediamo diventa il motore di ciò che vogliamo e possiamo essere. Credere non è più un elenco di precetti più o meno condivisi, ma un ascolto quotidiano che ha bisogno di strumenti e pratiche, pur non limitandosi ad essi. È come accordare uno strumento musicale, ogni giorno di nuovo. Pazientemente. E scoprire che questa intonazione non è una cosa esterna o estranea ma è la tua nota più vera e più profonda.
E qui inizia il laboratorio: ci sono persone con cui possiamo sperimentare e gustare le sinergie tra le anime, partendo entrambe da questa quotidiana accordatura ad Altro da noi. È una lenta e piacevole trasformazione reciproca, che poi esercita i suoi effetti terapeutici anche sulle altre relazioni, comprese quelle più strumentali o problematiche.
Non è questione di diventare più buoni, ma più liberi e più veri. Insieme possiamo imparare a esprimerci meglio, creare meglio, vivere meglio. Possiamo riprendere fiato e aiutarci a vicenda per compiere la nostra, magari piccolissima, vocazione.
A questo punto come faccio ad accontentarmi di qualcosa di meno di questo?
Inizio il mio settimo anno di Darsi Pace con questi pensieri: ho ancora molto da lavorare su di me, ma intanto osservo con gioia la nascita di prospettive nuove, prima del tutto impensabili.
Che bello leggere il tuo ‘post’, Antonietta…molto chiaro, lieve, senza inutili celebralismi.
“Mi sembra che ancora non sappiamo come si fa a stare bene insieme”…ecco, con questa semplice frase hai fotografato esattamente proprio la nostra condizione di esseri umani alla ricerca di relazioni più vere e autentiche. Siamo ancora all’ ABC, forse nemmeno!
Grazie comunque per la speranza
che ci doni con la tua testimonianza, ciao, mcarla
Grazie Antonietta, molto bello il tuo post!
Concordo con Maria Carla sulla gradevolissima assenza di celebralismi. Aggiungo solo che questa pacatezza lieta nel guardarsi dentro e anche questa benevolenza verso le proprie parti non ancora cambiate – che ora ritrovo nel tuo bel post – devo confessare che l’ho incontrata in diversi colloqui con formatori DP (alcuni, veri “momenti di grazia”) e mi ha sempre fatto molta “impressione” (nel senso buono del termine). Tanto che già da questa comprendo la bellezza e la bontà di questo cammino, nel quale ora mi sto avviando al terzo anno.
Voglio essere però più specifico ancora. Se avessi scritto “ora dopo sei anni di DP ho risolto tutto, tutto è più semplice e chiaro…” (o una modulazione più accorta di questa frase, ovviamente) non sarei stato così lieto di leggere, come lo sono stato stamattina. Invece appena questo, trovare persone che hanno acquisito questo atteggiamento pacato ed “osservante” anche verso le proprie parti d’ombra, è quello che più mi attrae e mi lega a questo percorso.
Grazie, dunque, perché mi confermi nel cammino. Alla vigilia della ripresa dei corsi di Darsi Pace, ritengo che non potrei chiedere di più, per capire quale parte di me ascoltare: se quella che vuole mollare tutto, e passare il tempo ad accusare il mondo (gli affetti / il lavoro / Dio stesso…) per la propria residua infelicità, o quella che vuole proseguire, e abbracciare tutto, e farsi risanare, nei tempi e nei modi che l’Essere decide.
Il lamento o il lavoro, non c’è proprio alternativa.
Ho tanto da fare, e voglio scommettere sulla seconda opzione.
Marco
grazie Antonietta, mi sono sentita in semplice e matura compagnia. mi piace e ” rubo” anch’io la definizione “relazioni primitive”; vivo le tue stesse sfaccettature nelle relazioni, condivido le tue considerazioni appieno, sono una “vecchia” di DP e … sono qui a vivere le difficili relazioni umane, sempre con più difficoltà. Perciò sentire che qualcuno vibra su queste corde dà, perlomeno, sollievo e mi fa sentire meno aliena. poi come dici tu scelgo: “o il lamento o il lavoro”. E ringrazio DP e tutti i cercatori di sè di esistere, così da sentirmi meno sola e un pò rinfrancata nel continuare il lavoro.
un abbraccio. luciana
non volevo essere anonimo! sono Luciana
Che gioia risentirti cara Antonietta, così profonda e così leggera. Grazie!
Il cammino iniziatico non dà alternative: o stai dentro o stai fuori. Non puoi starci con un piede sì e l’altro no.
La lotta interiore e le oscillazioni tra la fuga e il desiderio di procedere non dipendono dall’ annualità che stiamo attraversando, ma dalla conoscenza che lasciamo farsi nella nostra carne che richiede sempre di ritornare all’ Inizio, di ricominciare ogni giorno, ad ogni respiro. E non per sentirci più buoni, ma per essere più liberi e veri.
Quanto è bello “riprendere fiato e aiutarci a vicenda per compiere la nostra, magari piccolissima, vocazione.”
Non ci si sente più soli e perduti, gli altri sono compagni di viaggio, fratelli e sorelle in un mondo che non appare più ostile e minaccioso.
Nello spazio-tempo che si dilata sentiamo di poterci abbandonare un po’ di più e attraversare il travaglio di oggi con leggerezza e speranza.
Ti abbraccio, giuliana
Cara Antonietta non ti conosco di persona ma sei senz’altro parte di me, altrimenti come avresti potuto descrivere così bene ciò che sperimento? : “Stare insieme a noi stessi per prima cosa: smontarsi delicatamente pezzo per pezzo con il lavoro interiore libera un sacco di energie che cercano spontaneamente una relazione autentica, con Dio e con gli altri.”
E Dio c’entra eccome!!!
Grazie per la bella condivisione
Loredana (darsipacista telematica)
Grazie Antonietta! ❤️
“Mi sembra che ancora non sappiamo come si fa a stare bene insieme … E qui inizia il laboratorio”
Siamo qui per imparare. Anche a stare insieme. La leggera profondità di questo post, come a rilevato Giuliana, racconta lo stile del percorso, di un prenderci sul serio ma senza pesantezze. Lascio a terra la zavorra del tanto io lo so già che mi dico da dentro e della pretesa del dovresti già saperlo che mi viene da fuori. Rimbalzo, incontro, scontro, ricomincio, ci riprovo. È tutto da scoprire, con qualche delusione da incassare, ma nella fiducia che l’essenziale si può toccare, si tocca con mano, la mano dell’altro.
iside
Cara Antonietta,
troppo avanti !!!
“… scoprire che questa intonazione non è una cosa esterna o estranea ma è la tua nota più vera e più profonda.”
anche per me il lavoro di questi anni è stato un lavoro di liberazione.
Accogliere e riconoscere i miei limiti, offrirli (o ” s’offrirli ” come meglio intendo io l’offerta di sè ad altro da sè) per sentirsi/essere liberati da un amore che tutto può e che si comunica personalmente a te.
Mentre la tua testimonianza:
“La scoperta che persone nuove possono dare vita a relazioni nuove per me è stata fondamentale”
la sento ancora un po’ complicata nella carne della mia storia.
Certo le relazioni con le persone, siano esse appartenenti a gruppi parrocchiali, o movimenti o la famiglia stessa, sono fondamentali, ma, la sola novità che ho incontrato nel relazionarmi con esse è il fatto che ora posso stare meglio in compagnia di chiunque, proprio grazie al lavoro fatto su me stessa che ho appreso in Dp.
.
Lavorare su di sè, al proprio cambiamento, restando tra gli altri ha favorito lo spegnimento di ogni pretesa (o quasi!!!), mi ha donato grandi spazi pacificati nelle relazioni ma anche un certo distacco, ammantato di rispetto per la libertà altrui, che però talvolta mi appare come indifferenza e, francamente, non saprei…
Ciao, grazie di tutto, un abbraccio con affetto
Rosella
Cara Antonietta, non ci conosciamo ma il “cara” me lo estorci con il tuo scritto.
Come tu abbia fatto in così poche righe a concentrare tanta chiarezza e profondità non lo so:
certo non è solo farina del tuo sacco, noi crediamo che c’è anche quella dello Spirito.
Dici cose vere e un po’ spaventevoli:
” E gli altri si possono mandare inconsapevolmente al diavolo anche dentro una quotidianità accogliente e responsabile”.
“E’ sufficiente separarsi dal proprio sentire profondo, e scollarlo dai gesti e dai pensieri.
Quello che vien fuori è un misto di moralismo e alienazione”.
Mi rispecchio in queste parole per tanti miei comportamenti che sono di inconsapevole “cattiveria”, ed è duro.
E per di più devo ringraziarti.
ciao, Giancarlo
Grazie per i vostri commenti e per la vostra empatia!
Questa nuova umanità fa fatica a venire fuori, il processo non è lineare, le resistenze a volte sembrano aumentare. Ma a questo punto non è più solo un pensiero o un desiderio, sta diventando a sprazzi qualcosa di reale. Piccolo, ma reale.
Di questo sono molto grata alle persone che mi sono vicine, con cui mi posso confrontare e confortare in questo viaggio.
Ciao
Antonietta
Grazie Antonietta,
per il dono che ci hai fatto con il tuo post, soprattutto per quella frase che ci fa sentire meno soli: “Mi sembra che ancora non sappiamo come si fa a stare bene insieme”.
E ringrazio anche te, Rosella: ancora una volta sento una forte sintonia con quello che scrivi.
“La sola novità che ho incontrato nel relazionarmi è il fatto che ora posso stare meglio in compagnia di chiunque, proprio grazie al lavoro fatto su me stessa che ho appreso in Dp (…) mi ha donato grandi spazi pacificati nelle relazioni ma anche un certo distacco, ammantato di rispetto per la libertà altrui, che però talvolta mi appare come indifferenza e, francamente, non saprei…”.
Anch’io ho notato che le mie relazioni vanno meglio, vivo meno conflitti e ho meno bisogno di attivare strategie difensive, ma sento qualcosa che a volte somiglia molto all’INDIFFERENZA: non c’è dolore, non c’è rabbia… ma nemmeno gioia… è un po’ come aver assunto un’anestetico.
Forse è una fase di passaggio. Mi auguro che lo sia.
Il lavoro che sto compiendo su di me con DP, mi ha messa in condizione di “leggere” sul viso delle persone con cui mi relaziono, o nel tono della voce, o “dentro” le parole che usa, quello che “non dice”… e, allora, decido di tenerne conto e di modulare il mio comportamento per favorire l’altro, oppure per evitare di entrare in conflitto con lui/lei.
Sto diventando molto brava a fare questo.
A volte mi chiedo che differenza vivo rispetto a prima di conoscere DP, visto che comunque spesso censuro me stessa e scelgo di agire in modo diverso da quello che desidererei…
Mi sono risposta che la differenza è questa: agisco in modo consapevole, scelgo il comportamento da tenere.
Ma mi accorgo che – è vero che scelgo – ma quello che mi muove è “il non voler soffrire”, l’evitare il più possibile la sofferenza.
Ne prendo atto. Lo condivido con coi tutti. E mi appresto al cammino di questo settimo anno.
Un abbraccio a tutti. Nuccia/Filomena
cara Nuccia,
proprio ieri parlando con un’amica dicevo che “piuttosto che dimenticare” preferisco permanere nel dolore di una relazione insoddisfacente.
In un luogo oscillante e incerto nel quale “conoscere” il senso profondo della relazione stessa.
E lì non è tanto l’equilibrio che mi serve ma quel “punto d’appoggio interiore” dentro e fuori di me nel quale abbandonarmi alla Fede/fiducia.
Mi rendo conto che così facendo lentamente si apre in me la speranza che “pregare” possa essere efficace e mi sento anche più sciolta e libera rispetto a quella parte di senso di colpa che mi permane quando con estrema naturalezza “dimentico” per non soffrire.
Io trovo che per ricordare sia necessaria una decisione personale, mentre la dimenticanza sia spesso inconsapevole e involontaria, come fosse il frutto di un desiderio inconscio di “farla finita”; ma, forse, questa riflessione è solo frutto dell’età che avanza.
Un abbraccio e a presto
Rosella
precisazione
proprio ieri parlando con un’amica dicevo che “piuttosto che dimenticare” LE PERSONE preferisco permanere nel dolore di una relazione insoddisfacente.