“Per lo psicologo transpersonale Burgental il nostro problema consiste nel fatto che cerchiamo sempre il nostro sé all’esterno, nelle conferme esterne, nei successi esterni, nella sicurezza esterna. Ma “la nostra patria è all’interno. E là siamo sovrani. Finché noi non riscopriremo questa verità antica – e ciò ognuno per sé a proprio modo – siamo condannati a vagare e a cercare consolazione là dove non esiste: nel mondo esterno” (Autostima e accettazione dell’ombra, Anselm Grün)
In questo periodo più che mai sento di dover fare mie queste parole. Nei momenti di buio, in quelle giornate storte, mi capita spesso di sentire dentro di me un grido, un forte grido di aiuto verso l’esterno. Sento di essere fragile, sconnessa, debole. Perché grido all’esterno? Quale aiuto o conforto sterile può arrivarmi? Credo davvero che bastino semplici parole di un io lontano dal mio per sapere placare i miei tormenti? Che poi, una volta trovata la semplice anima disposta ad ascoltarmi e propensa ad aiutarmi, sento, a volte, un vuoto maggiore…e ne consegue la tendenza a chiudermi in me, ad isolarmi e sto peggio… o forse non sempre.
Accade così che un pomeriggio di qualche giorno fa, ero sola a casa in un momento di instabilità. Ho sentito per la prima volta, dopo tanto tempo, una forte repulsione nei confronti di un aiuto esterno. Ho sentito che, anche volendo, non sarei stata capace e non avrei voluto veramente esprimere a un altro, un esterno dal mio io, il mio stato d’animo, quel che stavo provando e passando.
Ho quindi preso coraggio, afferrato un vecchio quaderno mai utilizzato (aspettavo l’occasione giusta) ed ho iniziato a scrivere. Una calligrafia disordinata, quasi illeggibile, ma dopotutto chi doveva leggerla se non solo io? E così, un fiume di parole, come se dalla mia testa fluissero direttamente sulla carta seguendo l’andamento arzigogolato dei pensieri, da un ragionamento ad un altro, da una critica all’altra, da una paura ad un critica e via dicendo.
Ho avuto paura di vedere scritte quelle parole, di vedere con gli occhi le mie paure davanti a me, di realizzare la loro estrema verità, la loro esistenza in me, l’esistenza di quei brutti pensieri che mi tormentano e mi demoliscono seppur sciocchi.
Dopo ho provato a praticare, partendo con lo scoraggiamento costante che accompagna l’inizio di quasi tutte le mie pratiche, quando mi sveglio con il piede sbagliato. E lì, in quel piccolo breve momento dedicato solo ed esclusivamente a me, ho percepito che il resto del mondo si allontanava distante. Nel calore confortevole della mia stanza, sulle note di una lieve musica, con la luce del tramonto filtrante dalla finestra, mi sono sentita sola, completamente sola con me stessa…e sorprendentemente non sentivo di aver bisogno di altro. Ho iniziato a conversare con me, nei miei pensieri, ad ascoltare le sensazioni e a lasciare che queste prendessero le redini della situazione solo per poterle vedere.
Ammetto che non mi era mai capitato prima, o comunque non così forte. Ho cercato di consolare me. Se io sono l’esatto frutto dell’amore di Dio, sono parte di lui e lui vive dentro me, l’unica vera parola di consolazione può e verrà solo ed esclusivamente da lui in me. Io devo essere in grado di amarmi ed accettarmi incondizionatamente poiché nessun’altro sarà in grado di poterlo fare più di me, poiché io sono l’espressione di Dio, e non ho bisogno di altro.
La vera consolazione può essere dunque veramente solo dentro di me?
Non so rispondere con certezza a questa domanda, c’è una presupposizione di fondo di dovere avere fede. Sì, potersi abbandonare a quella voce, provare a darle retta, lasciandola libera di parlare. Se le nostre paure ci paiono grandi scritte a penna su un diario, immaginiamole lì annidiate come tarantole nell’inconscio e nel silenzio della nostra mente. I piccoli demoni che ronzano dentro di me si palesano più forti ed invincibili che mai, quando sono lontana da me.
Ho i brividi solo a pensarlo. Come faccio ad avere fede? Come mi affido a qualcosa che non vedo, non sento, ma… percepisco? Forse anche lì, devo avere fede di poter avere fede… e questo può partire solo ed esclusivamente dalla fiducia che devo e posso riporre in me stessa.
Sarà difficile, ci lavorerò probabilmente una vita intera, ma credo che il vero contatto con noi stessi, se mai riusciremo a raggiungerlo (in quel caso credo che solo il provare a mettersi in gioco valga la candela), sarà più salvifico di centomila parole pronunciate a voce che si disperdono nell’aria, prima di arrivare a consolare il nostro cuore.
Il loro tragitto effettivamente è lungo, dalla bocca dell’altro passano all’aria, poi alla nostra bocca, la nostra pelle e poi giungono al nostro cuore. Che lungo cammino devono affrontare queste parole consolatrici che forse via vai, stanche, si lasciano andare un pochino, si rammolliscono e arrivando deboli a noi! E non sempre partono dal cuore dell’altro (come nel caso di una parola d’amore dalla nostra mamma), spesso magari iniziano il cammino già svogliate, già scevre.
Come ci stupisce allora che da esse non traiamo alcun conforto? Quale via più breve se non dal nostro cuore al nostro cuore? Dalla nostra anima alla nostra anima? Non so…mi è venuto da fare questo pensiero e ho voluto condividerlo. Concludo col dire che paradossalmente, sono proprio una di quelle persone che ha bisogno spesso di centomila parole (non sterili).
Bellissimo e splendidamente autentico.
“Se non ci esrcitiamo a coltivare la compassione (accogliere la sofferenza) per noi stessi non riusciremo mai ad avere compassione per gli altri…”
Da Compassione di Christina Feldman
Che meraviglia! “Solo” deriva dal latino e vuol dire “completo, pieno”. Solitudine quindi é uno spazio pieno, se sappiamo abitarlo… grazie x la profondità!
Quanto sei bella Daria!
E quanta gioia mi regali con le tue riflessioni che non sono tanto diverse dalle mie.
Stiamo imparando a parlare ascoltandoci, non è facile all’inizio, ma con un pò di allenamento scopriamo che solo da questo luogo interiore, sole con noi stesse, possiamo ascoltare parole che consolano, rassicurano, incoraggiano, parole che ci rigenerano e ci riportano nelle relazioni con gli altri con maggior fiducia ed apertura.
Grazie in un abbraccio, giuliana
…non ci crederai…avevo proprio bisogno di queste parole! Arrivano al momento giusto, in cui sento forte il bisogno di consolazione. La citazione all’inizio poi sembra la risposta a una cosa che stavo scrivendo pochi minuti prima. Testuali parole tratte dal diario: sotto la paura del giudizio c’è la paura di non valere niente e se non valgo niente NON ESISTO. Che tradotto sarebbe se non sono brava agli occhi del mondo non merito di vivere. Non sono casuali queste risonanze. Grazie!
Brava Daria, bell’inizio.
Sapere che le parole di mamma sono consolazione per te se pur minima mi rende felice. Credo che la voce consolatoria può venire certamente dal profondo della nostra parte integra e sana, ma è pur necessario ogni tanto ascoltare note di conforto da chi ci circonda, da chi ci vuole bene.
E c’è un’altra bella verità Daria, dare consolazione agli altri tu sai quanto è appagante, sanare parzialmente le sofferenze altrui sana anche le proprie.
E in un certo senso il tuo scritto mi ha fatto riflettere su quanto è delicato il compito di chi ascolta e consola.
Il lavoro è solo iniziato sia per me che per te ma siamo sulla buona strada, la sfida alle nostre paure è appena cominciata!
Ciao Daria grazie. Mi fai ricordare sulla solitudine, di quando dalle prime volte, da cosa fredda e triste cresceva, iniziando a trasformarsi in un sentire affettuoso e molto accogliente e per come hai anche tu descritto nello scoprirne la bellezza.
Non solo un rifugio sicuro ma soprattutto un’importante fonte di sostegno di anima e corpo e attraverso la quale è possibile il contatto con il divino che abita in quei luoghi che sento essere molto ricchi.
Ho vissuto alcuni periodi in cui mi è sembrato di non avere altra scelta se non quella di coltivare l’unica cosa che potevo fare, mi pareva mio malgrado: rimanere in solitudine entrando sempre più in me stessa.
La scelta stava nel -come- farlo ed ho scelto con: spirito d’avventura! Ha funzionato e continua a funzionare!
Ciao, Barbara 🙂
Grazie Daria,
leggo il tuo post con un ben senso di sollievo, come di una verità finalmente svelata. Chi mi consola? Quante volte sento il cuore gemere, gemere proprio, con questo anelito, questa domanda non astratta ma pungente, affondata dentro la carne peggio di un coltello… Chi mi consola? Chi mi consola, ora, adesso? E’ una creatura in carne e ossa che mi può consolare e completare, accudire e proteggere, come mi sussurra una parte di me (quella che ancora aspetta una “soluzione magica” all’angoscia dell’esistere)? E perché ogni incontro, ogni contatto sembra incompleto? Oppure no, è un diverso atteggiamento di me verso il mondo? Cosa? Chi o cosa mi consola realmente?
Allora di solito mi rintano, mi nascondo. Non posso ammettere questo bisogno estremo di consolazione, deve essere proprio patologico, mi dico. Meglio nascondersi, eclissarsi e tornar fuori quando questo bisogno è sotto controllo, più o meno. Cosa sarà poi. La ferita dell’infanzia, o qualcos’altro, che si fa vivo. Vedo la gente intorno a me esistere, muoversi, e non mi pare che anche dentro di loro affondi così decisivo e imperativo questo immenso e perpetuo bisogno di consolazione. Ma chi lo sa. Gli altri in un certo senso “non esistono”, o meglio gli altri li vedo diversi, a seconda dello stato in cui mi trovo.
Così la prima sensazione quando scopro che questo bisogno di consolazione non è solo mio, è un grande sollievo. Un reale sollievo, almeno di qualche attimo. E un inizio di rilassamento. Mi posso finalmente rilassare, distendermi, almeno un po’: non è così “disumana” la mia condizione. Anche altri la sperimentano.
E così tutte le parole che scrivi, sono a me familiari. Così il fatto di consolare sé stessi: a volte mi trovo così impaurito di tutto, così attaccato a strategie piccole piccole di sopravvivenza e compensazione, che scatta come una tenerezza verso me stesso, capisco di dovermi veramente accudire, per non soccombere. Quasi abbozzo un sorriso, benevolente. Prima ancora di criticarmi, accudirmi. Volermi bene. Difficile, ma non impossibile.
Aver fede, poi. Ma alla fine cosa significa, davvero? Esistenzialmente? Credo che abbia qualcosa a che fare profondamente con il sentirsi amati, e potersi iniziare a rilassare, in questo campo di amore. Credo, a volte, ma sono in un cammino, è tutto un già e non ancora. Sono in cura, e imparo piano piano a prendermi tempo per me, a stare nelle mie sensazioni. Detto dopo i cinquant’anni sembra strano (avevo sempre pensato che a quest’età uno è tranquillamente stabilizzato, normalmente), ma per me è tutto nuovo, in un certo senso. Tutto da imparare, da scoprire.
Avere un universo in cui prendere casa, ecco il sogno.
Se c’è chi consola il mio cuore, sono comunque a casa.
Ovunque.
Brava Daria, sei sempre più vicina al tuo vero, splendido essere. Massimo C
Cara Daria, le tue riflessioni vanno dritte al cuore , mi risuonano fortemente . E’ vero,la salvezza è nel rifugio interiore “nell’ isola del sè”, come insegna anche il Buddha,ma noi cristiani abbiamo una marcia in più, nel senso che la comunità cristiana è anche il luogo dove si sanano le ferite del cuore , proprio in forza della Risurrezione di Gesù e della realtà del Corpo Mistico . Il bambino interiore per potersi amare ha bisogno dell’ adulto interiore buono e, qualora questo manchi, la comunità può assolvere il compito sostitutivo di figura genitoriale positiva esterna da interiorizzare ,una presenza amorevole, capace di tenere a bada le pulsioni distruttive ed autodistruttive. Possiamo “fasciare le ferite dei cuori spezzati”, come prefigura Isaia.
Con tanta umiltà e un po’ di paura ho voluto condividere con voi questo mio pensiero…e le vostre parole mi hanno colmato il cuore di un calore inestimabile ed imprevedibile. Ormai, faccio parte del percorso da qualche anno…e conosco, perché l’ho provato, il grado di empatia che si riesce a raggiungere in una comunità (in ricerca) che si unisce per volontà ed affinità. Ma vederne ogni tanto il frutto in maniera così chiara e limpida, mi lascia sempre senza parole. Grazie di cuore per i vostri interventi!
“Ho quindi preso coraggio, afferrato un vecchio quaderno mai utilizzato (aspettavo l’occasione giusta) ed ho iniziato a scrivere. Una calligrafia disordinata, quasi illeggibile, ma dopotutto chi doveva leggerla se non solo io? ” ……. Brava! Ritengo che prendere un quaderno e scrivere di getto senza ingabbiare i pensieri affinché siano “politicamente corretti”, sia uno dei tanti mezzi cui ricorrere nei momenti di particolare caos interiore o sotto l’influsso di quelle emozioni che sul momento non sappiamo decodificare. Io lo faccio spesso e ne traggo un certo beneficio! Riacquisto la calma interiore e mi sento meno confusa e sola. Quei pensieri, che nel loro turbinio sembravano soffocarmi, riprendono ordine e perdono la loro carica venefica e alla fine…. giungono anche parole di consolazione che vengono da un Altro da me.
So di non aver scoperto nulla di particolarmente nuovo. In fondo, si tratta di una variante dell’esercizio a 9 punti che il percorso Darsi Pace suggerisce al secondo anno. Ricordarsi però di farvi ricorso anche nei momenti in cui cerchiamo consolazione è sicuramente utile.
Grazie per la tua condivisione e per gli interventi di coloro che hanno offerto le proprie esperienze.
Rosanna P.
Grazie Daria,
delicata e luminosa,
come un fiore che sboccia…
Brunella
Grazie Daria, le tue parole le sento preziose e mi arrivano al momento giusto. Un abbraccio.
Grazie di cuore per i vostri commenti…piccole pillole di luce nella giornata!