Sul Monte Olimpo della Medicina, il dio Protocollo va per la maggiore. I suoi sacerdoti, gli OperatoriSanitari, presiedono austeri alle cerimonie sacre, dove la ritualità è strettamente scandita.
Profano è introdotto nell’atrio del tempio dove Operatore Uno scartabella il TestoSacro/ManualeDiagnostico e pone un’etichetta sulla sua fronte. Dalla funzione battesimale, Profano emerge con una nuova identità e un nuovo nome: sarà riconosciuto per la sua diagnosi, espressa con sigla in codice e nome esteso. A questo punto, X – d’ora in poi lo chiameremo così per ragioni di privacy – viene ammesso alle varie navate del tempio dove si avviano le celebrazioni al dio Protocollo. Operatore Due consegna a X la lista delle libazioni che dovrà eseguire in via Crucis, negli altri edifici del complesso templare. Operatore Tre, avendo esaminato attentamente il TestoSacro/LineeGuida, verifica che X abbia effettuato tutte le abluzioni del caso: TAC, RMN, esami del sangue, esame delle urine. Troppi asterischi, peccati capitali! La tabella dice che la sua pressione sanguigna non è adeguata all’età, il BMI è troppo elevato: se proprio non riesce a perdere peso, veda almeno di allungarsi in statura, così da entrare nei valori previsti dalla griglia. Il dio Protocollo è un dio intransigente, non ammette sgarri alle sue regole.
Essendo X un peccatore irrefrenabile, restio alla conversione spontanea, Operatore Tre non ha altra scelta che prescrivere una terapia. X azzarda una domanda, prova a sottrarsi a ciò che non capisce, poi tenta la via della contrattazione, magari si potrebbe regolare il dosaggio, con quel farmaco ha già avuto problemi in passato. No, assolutamente no! Il dio Protocollo è chiarissimo al riguardo e Operatore Tre va al tabernacolo, estrae l’effige del dio e fa giurare X che seguirà rigorosamente tutti i comandamenti.
Dopo qualche tempo, ritornato al tempio per la cerimonia di verifica, X sa in cuor suo di aver molto peccato e le analisi non mentono, gli asterischi sono lì a mostrargli la sua infedeltà al dio. Operatore Quattro lo redarguisce aspramente, i suoi parametri sono ancora fuori tabella. Questa insubordinazione non può essere tollerata. Il dio Protocollo è inequivocabile: chi non obbedisce alle sue norme sarà immolato sul suo altare. X prova a balbettare qualche giustificazione in proprio favore, cerca di impietosire gli OperatoriSanitari, ma tutto è inutile. Nessuna inflessione è ammessa dal dio Protocollo.
Si apre così il rito finale, sull’altare arde il fuoco sacro, X dice le sue ultime orazioni.
Ad assistere alla scena, da dietro un trittico di pregio, Operatore Cinque sente un moto nel cuore. Possibile che sia proprio così? Eppure aveva giurato con Ippocrate, non con Protocollo, ricorda. Per X ormai è troppo tardi, ma per Y, che lo sta aspettando nella cappella laterale, forse si può fare qualcosa. Forse la potenza dominatrice del dio Protocollo non è del dio, ma dei suoi sacerdoti che, seguendo una liturgia senza sbavature, hanno smesso di interrogarsi sull’umano e hanno attribuito al dio Protocollo poteri che non ha, intenzioni che non ha. Forse è tempo di ripensare la sua teologia.
Con coraggio, Operatore Cinque prende in mano l’effige del dio, legge con attenzione il suo TestoSacro e sottolinea le migliaia di volte in cui si usa il condizionale, si mettono dei forse, si danno percentuali e non certezze, si indicano tendenze e non assoluti, si consiglia e non si impone.
Operatore Cinque guarda negli occhi Y, al quale innanzitutto restituisce il suo nome, perché non ha più paura della normativa sulla privacy. Lo chiama per nome, e inizia la rinascita. Operatore Cinque ascolta cosa il suo paziente ha da raccontare, come si sente, quali sono le sue sensazioni; solo dopo consulta le Linee Guida, guarda le analisi, decodifica le tabelle. Riconosce un essere umano tutto intero, parte integrante del team che coopera per la cura.
Protocollo in realtà non voleva questa distorsione del suo annuncio, perché ci deve sempre essere spazio per adattare le indicazioni generali alla situazione personale. Scambiare i mezzi con i fini è un gioco pericoloso che porta a sacrificare un essere umano al culto del sabato. Non c’è altra grandezza fondamentale se non la creatura che si ha di fronte: questo è il primo e più importante dei comandamenti, la bussola che orienta tutto il resto.
Abbiamo bisogno di una medicina che si avvicini alla persona con la finezza dell’orafo che maneggia piccole cose delicate, una medicina che sappia trarre il massimo dalle acquisizioni scientifiche ma le sappia anche interpretare in un contesto più ampio. Abbiamo bisogno di medici che non si pongano come tecnici aggiustatori di meccani da risistemare, ma come esseri umani in colloquio con altri esseri umani, medici per i quali il successo terapeutico non può fare a meno della relazione, che sia la relazione medico-paziente, o la relazione tra le discipline.
ben detto e ben descritto. il disagio del paziente è anche quello del medico, tanto più se quest’ultimo uscito dall’Università almeno una trentina di anni fa, quando era agli sgoccioli ma ancora esisteva una cultura centrata su scienza e coscienza, i cardini di ogni atto medico, ora come dimenticati a favore di protocollo e autodifesa (volgarmente detta in un altro modo).
Vorrei soltanto aggiungere questa nota esplicativa.
Il post qui sopra nasce all’interno del progetto DarsiSalute, una declinazione dei Gruppi di Creatività Culturale del Movimento Darsi Pace. Siamo un gruppo di appartenenti al Movimento che ha deciso di provare a riflettere su tematiche come salute, malattia, cura a partire dalla prospettiva offerta dall’approccio di Darsi Pace. Come avrà bisogno di vivere e interpretare queste grandi aree della vita la Nuova Umanità nascente?
Veniteci a trovare nel blog https://altrascienza.it
iside
Mi associo volentieri alla nota esplicativa di Iside, invitandovi a visitare il blog AltraScienza (http://altrascienza.it) e magari partecipare al dibattito su questo post, anche in quella sede. Vi sono già alcuni interessanti commenti, su cui volentieri segnalo quello di Barbara Suligoi (Direttore del Centro Operativo Nazionale dell’Istituto Superiore di Sanità) che rilancia e riapre un dibattito che sarebbe veramente prezioso poter approfondire, apportando alla discussione quei “colori” che solo molteplici esperienze possono veramente regalarci.
Veniteci a trovare, ricordo che la registrazione per lasciare commenti è molto semplice, e rende possibile anche evidenziare delle parti di testo, che si ritengano significative.
Grazie in anticipo,
Marco
Ben detto.
Occorre aggiungere però che mentre Operatore Cinque guarda negli occhi Y, si scatenano gli altri Operatori Uno, Due, Tre , Quattro … l’intera Categoria Operatori e con loro gli altri Consociati (quando non conniventi) a difesa delle proprie misere sicurezze (quando non interessi) e insieme trascinano gli altri Y1, Y2 … YN, presenti e futuri, terrorizzati dalle proprie paure, tutti “all’Armi!” contro chi ha osato una nuova relazione o una nuova visione.
O no?
Andrò senz’altro su “altrascienza.it”
Buona giornata
Maria
Grazie Maria,
sarebbe utile in effetti se potessi apporre il tuo commento anche sul blog AltraScienza, come pure Anna Maria, se lo desidera.
Ricordo al proposito che abbiamo allestito una “microguida” essenziale per l’utilizzo del nostro blog (che si appoggia alla “costellazione” di blog su piattaforma “Medium”) al seguente indirizzo https://altrascienza.it/micro-guida-a-medium-d9de7f4e3c8b
Grazie di cuore a quelli che investiranno e stanno investendo tempo per provare con noi la nostra risorsa!
Buona giornata,
Marco
I primi a subire questo sistema siamo noi medici,a combattere ogni giorno con normative senza senso imposte dall’alto,in una continua scissione tra quello che sentì essere la tua professione e quello che ti impongono di fare
Visiterò senz’altro il blog, intanto mi complimento per lo stile! Sembra un racconto di fantascienza e traspare il disagio della “vittima” predestinata ad un iter disumano e del tutto fallibile.
Purtroppo temo che la realtà superi la fantasia e recentemente (durante un ricovero in ospedale di mio padre) ho toccato con mano la freddezza quasi spietata di alcuni operatori.
Io da insegnante posso dirvi che sperimento un crescente fanatismo burocratico, che sembra essersi impossessato della scuola e che spesso mi disarma!
Grazie del prezioso lavoro,
Eliana
A me pare che qui emergano due questioni che però sono riconducibili ad uno stesso punto di origine: l’allontanamento dalla sostanza umana. Da una parte la burocratizzazione da scartoffie, da fogli da compilare, da moduli da far firmare, da consensi da raccogliere. Dall’altra la visione di una scienza ancora troppo legata ad una epistemologia della semplicità, che, per tentare di far tornare i conti dentro una biologia che non conta come lei, confonde i risultati statistici e di popolazione con il singolo caso clinico. L’esito è voler costringere il singolo in range numerici che sono medie di popolazione. Dovendo fare questo salto improbabile, ci si appella alle LineeGuida non come guida appunto, da calare nella specificità irriducibile del singolo, ma come saldo principio irremovibile, idolo di un sistema che si deve tutelare dagli attacchi più che mettersi in gioco per la cura della persona.
Del resto, le strettoie di una burocrazia soffocante colpiscono ciascuno di noi, in qualunque settore. Se abdichiamo alla fiducia, che è la “radiazione” di fondo su cui poggiamo, iniziamo a contrarre, prende campo la diffidenza, quindi la paura di perdere qualche cosa che viene così tradotta in diritti possibilmente da rivendicare. Ma i diritti di uno si trasformano per l’altro in aggressioni da cui ripararsi e quindi, per reazione, più regole, più fogli da compilare, più tabelle da riempire ecc. ecc. per mettersi al riparo dalle rivendicazioni appunto.
I professionisti sanitari che cercano di essere umani, come dice Maria Antonietta (e che esistono! mi sento di dirlo pure io nella mia lunga carriera da paziente) sono però dentro un sistema che chiede loro di correre su binari irremovibili e lo spazio di manovra è piccolissimo.
Ma noi lo sappiamo: tutto il nostro impegno in Darsi Pace è per cercare di preparare il terreno dei nostri corpi alla forma di una Umanità Nuova. E questo è lavoro epocale.
iside
Davvero ben detto e ben scritto Iside!
Mi viene in mente- quando parli di “binari irremovibili” a proposito degli operatori sanitari e del loro ridottissimo “spazio di manovra” – il titolo di un libro relativo alla tecnica Rolfing ( IL CORPO SPAZIOSO, se non ricordo male) che suggerisce una dimensione di cura diametralmente opposta a quella che spesso viviamo…che libera, anziché costringere, che ascolta il corpo del paziente invece di ‘protocollarlo’ in percorsi rigidamente uguali per tutti.
GRAZIE Iside, sempre molto ‘mirati’ i tuoi post!!!
mcarla
Ben scritto Iside!
“Se abdichiamo alla fiducia, che è la “radiazione” di fondo su cui poggiamo, iniziamo a contrarre, prende campo la diffidenza, quindi la paura di perdere qualche cosa che viene così tradotta in diritti possibilmente da rivendicare. Ma i diritti di uno si trasformano per l’altro in aggressioni da cui ripararsi…” e credo che in ultima analisi si può rifrasare nel modo in cui diceva Giussani, “la lontananza di Cristo dal cuore rende lontano l’ultimo aspetto del cuore dell’uno
dall’ultimo aspetto del cuore dell’altro, salvo che nelle azioni comuni (c’è la casa da portare
avanti, i figli da accudire ecc.)” Vale per marito-moglie, per amato-amante, per medico-paziente, e per tutto quello che possiamo immaginare.
Si tratta di fiducia, quella vera “radiazione di fondo” (più vera e decisiva di quella cosmologica) che permea l’universo e che possiamo raccogliere, o respingere. La fregatura (o la fortuna) è che ci tocca decidere proprio ogni momento, e come tocca a noi tocca ai medici delle strutture sanitarie, ai baristi, agli operatori ecologici. Anche a valle di questo lavoro epocale (e direi, quale lavoro può veramente interessarci che non sia epocale? Non abbiamo tempo e voglia per giocare in piccolo!), sarà sempre la decisione dell’uomo, la libertà del cuore, a farci “cadere” dentro uno o l’altro universo.
Universi, peraltro, totalmente differenti. Con la bella prerogativa che si può scivolare dall’uno all’altro in un secondo.
“Tu oggi sarai con me in Paradiso” certifica la storia di uno di questi scivolamenti, dettati solo dall’apertura di uno spiraglio di libertà (così da risuonare sulla frequenza di questa radiazione, anche se spiacevolmente inchiodati ad un legno).
Non un fatto morale, ma di cuore.
Divertente e profondo questo post, che ha suscitato reazioni di vario tipo e ambito.
A me ha suggerito di accostare il discorso sui protocolli medici a quello sulle leggi morali, sui dieci Comandamenti. Se seguiamo questi ultimi o cerchiamo di imporli in modo rigido , astratto, senza uno sguardo profondo, attento alle debolezze umane, alla complessità delle situazioni, alle nostre storie concrete, non sapremo mai essere retti e liberi. E’ un discorso che occorre affrontare e approfondire, confrontando anche i metodi vecchi e nuovi usati dalle scienze della natura a quelli delle argomentazioni etiche e giuridiche. Mariapia
Ringrazio moltissimo Iside per il suo scritto che ci dà la possibilità di fare delle riflessioni su argomenti di largo interesse.
I pazienti vivono questi protocolli nella situazione psicologica particolare della malattia, alcuni si sentono più sicuri e curati in questi percorsi, altri invece colgono una rigidità, una vuota ritualità in cui l’anima dell’operatore sanitario non è coinvolta. Questo dipende, come è già stato detto, da come i protocolli vengono applicati e vissuti. Spesso la relazione personale col paziente viene messa in secondo piano e l’adempimento rigido del protocollo diventa il fine.
Il fine della relazione sanitaria è aiutare la persona sofferente, il modo in cui questo si realizza è importante e dovrebbe essere in armonia con lo scopo stesso. L’operatore sanitario può indurirsi al punto da non sentire più quel moto al cuore necessario per ogni relazione umana e talvolta dimentica il suo giuramento di non nuocere. Posto il fine della relazione tale giuramento in verità non dovrebbe essere nemmeno necessario.
Il protocollo dunque è solo un mezzo per l’operatore sanitario, è solo una traccia utile per un lavoro complesso che richiede la competenza di diversi specialisti. Esso definisce le competenze e i contenuti minimi per l’attività degli operatori sanitari coinvolti.
I protocolli sono anche un metodo organizzativo del quale si sente l’esigenza nelle grandi organizzazioni al fine di standardizzare i processi come è in uso nelle aziende economiche.
I protocolli rendono misurabili gli aspetti economici del sistema organizzativo della sanità e facilitano un tipo di ricerca che si fonda sul confronto di casi simili.
Il protocollo è un metodo per fissare le esperienze precedenti al servizio del malato, per porgere con facilità tutto ciò che può essere utile per lui.
Nel rapporto sanitario però la cooperazione attiva del paziente è determinante per la riuscita della cura, quindi ogni percorso diagnostico-terapeutico deve essere flessibile per diventare individuale. Il riferimento fondamentale nella sanità rimane l’individuo che abbiamo di fronte non l’uomo in generale e astratto.
Il paziente che ci interroga attende un aiuto e noi ci mettiamo a sua disposizione con le nostre conoscenze e capacità per aiutarlo innanzitutto a capire cosa gli sta accadendo e poi per aiutarlo a introdurre cambiamenti nella propria vita, per attivare la sua volontà verso il suo bene. Non si tratta di prescrivere ma di porgere aiuto per ampliare la consapevolezza e stimolare la volontà di guarigione nel paziente.
Non è però sano che il paziente voglia rimanere profano e peccatore irrefrenabile.
Abbiamo bisogno sia come operatori sanitari che come pazienti che non ci manchi un riferimento non solo tecnico-scientifico ma interpretativo, di significato, per ciò che di doloroso accade.
In fondo non basta che un protocollo sia interpretato in modo più umano dai sanitari e che questi non perdano di vista la relazione umana e la cura della persona sofferente. È assolutamente urgente chiedersi quale medicina viene veicolata da questi protocolli, se il contenuto offerto attraverso questi metodi organizzativi ben studiati è realmente sano, ossia se i percorsi diagnostici e terapeutici offerti contribuiscono realmente a rendere l’umanità meno malata, se sono capaci di generare veramente la salute dell’uomo, se possono realmente risanarlo o, quanto meno, se ne alleviano la sofferenza.
un grazie a tutti
Appunto! Sono assolutamente d’accordo sull’ urgenza della domanda relativa a “quale medicina viene veicolata da questi protocolli “…
Un saluto a tutti, mcarla
Quello che mi fa impressione è che trovo mancante una -Cultura della Salute- su larga scala, non solo per piccole élite.
Quello che invece abbiamo:
-la “cultura dell’ingozzo” ben pubblicizzata su larga scala: cibo spazzatura ed “informazione”, anche di tutto il peggio che c’è! un’accozzaglia non meglio definita che finisce ad intasarmi tutti gli “stomaci” che ho!
-la cultura del divertimento: mi sbatto come una matta così dimentico la miseria umana di cui sopra!
-la -cultura della Malattia- ! Cultura gestita e ben pubblicizzata dall’Azienda Sanitaria. … Azienda! Azienda che si occupa strenuamente di –Prevenzione- ! un vero angelo!!!
Se la prevenzione fa … flop!… e, … dopo che mi sono nutrita dei primi due punti, sono pronta !!
Ed allora … l’Azienda sanitaria che appare come l’angelo (!) … potrebbe salvarmi la salute che “ Dio mi ha voluto togliere”… perché riusciamo molte volte a pensare anche così!!
Azienda … che tra i vari protocolli, mi impone in caso di ricovero anche di sottoscrivere se, alla mia morte, voglio donare o meno i miei organi … ma si dimentica di chiedermi se sono d’accordo o meno di prendere quintalate di antibiotici come primo e principale criterio di cura, a prescindere! Anche se, per esempio, ho 84 anni e un corpo delicato e sensibile come quello di un bimbo. Parlo per esperienza personale per quanto ho visto quando mio padre ha avuto bisogno dell’azienda sanitaria. Ne sto ancora molto male.
Comunque sia, se sono malata devo affidarmi ad un –dipendente- di tale azienda. In genere sono “affidabili dipendenti”.
Altri, secondo me troppo pochi, sono le “serpi in seno” al –sistema medico-. Se si “allargano” troppo, rischiano di esser perseguitati, lo sappiamo.
Essi sono quei medici, come anche scritto a conclusione del post, che sanno anche chiedermi:
“ … come stai vivendo? ..”
“ ma … sei felice? … stai facendo quello che ti piace?…”
… “prenditi del tempo per dedicarti a te! “
…
Questo è l’unico “formulario” che voglio compilare o le prime cose che voglio sentirmi chiedere quando sto male!
Poi certo, ci sono delle malattie che richiedono cure e -programmi – di cura ben specifici nei quali l’azienda Sanitaria con tutti i vari operatori, allora sì, si fanno proprio Angeli di umanità e tutela alla salute umana ed è ciò che, Alida, descrivi, quando tutto funziona al meglio.
E quando tutto questo funziona! è magnifico.
Io l’ho visto purtroppo solo nei momenti in cui mio padre, all’interno dell’azienda, lasciava il suo corpo.
Come già scritto da Iside e in molti commenti, ciò che risalta nel suddetto quadro è soprattutto un grave e mancato discernimento, da parte di medici ed operatori, tra “paziente e paziente” o meglio tra persona e persona.
Persona che, come scrive Iside, Alida ed ognuno di noi, si affida nella necessità di farsi aiutare!
Sì la chiave è proprio la Persona, un essere umano con un nome, una sua storia, La sua storia!
Non un numero statistico o il nome di una patologia!
Ma siamo poi sicuri che, se vivremmo nella – Cultura della Salute -, saremmo tutti così ammalati …?
Barbara P.
Non so se avete notato quali sono i ritmi di lavoro di medici e infermieri negli ospedali. Parlo da paziente e da parente di pazienti, ho visto medici presenti e disponibili anche i giorni festivi. Ho visto invece molti pazienti rompic.., con atteggiamenti da tutto mi e’ dovuto, diritti, diritti, suono in continuazione del campanello per chiamare e lamentarsi, sporcare apposta, ecc….
Se si tratta di salvarmi la vita o conservare una vita accettabile, preferisco un medico competente, anche senza miagolii, piuttosto che mi chiedano se sono felice. Se sto bene ci penso io alla mia felicita’.
Cara Iside,
parlando del Sistema Sanitario riesci a toccare una complessità di tematiche con leggerezza, l’opposto della superficialità.
Ringrazio te e chi è intervenuto sull’ argomento proposto portando il discorso al nocciolo: l’allontanamento dalla persona, dalla sostanza umana.
E questo ora accade non solo in campo sanitario ma in ogni settore, anche in quello educativo che ha il compito di formare la persona. Le carte, il protocollo, l’organizzazione anziché servire l’essere umano lo sostituiscono.
Il nostro impegno in Darsi Pace è, come tu dici, quello di preparare il terreno dei nostri corpi alla forma di una Umanità Nuova e il lavoro che va fiorendo nei Gruppi di Creatività Culturale mi dà tanta speranza proprio perché va in questa direzione.
Nell’ umiltà delle piccole cose, di consapevoli gesti quotidiani torniamo a fidarci, a sentire che non siamo soli, torniamo a guardarci negli occhi e a chiederci “Come stai?” non per innalzare barriere difensive, ma perché ci spostiamo in uno stato in cui niente e nessuno resta fuori dove convivono i ruoli ma finalmente spariscono i giochi di potere perchè siamo tutti Uno e ognuno se stesso.
E’ questa consapevolezza da coltivare dentro la complessità dei problemi e delle relazioni che viviamo ogni giorno.
In Darsi Pace possiamo farlo sapendo di essere insieme anche se distanti fisicamente, condividendo la fatica e la gioia dei piccoli passi.
Ti abbraccio, giuliana
Il sistema sanitario che vorrei: senza l’affanno del tempo, senza paura di ascoltarmi, con l’accoglienza di chi mi aiuta a discernere ciò che stona da ciò che fa parte della mia personalissima armonia. Curanti che non devono aggiustarmi per forza, che hanno il coraggio di dirmi non lo so, ma che non per questo gettano la spugna. Curanti che non decidono per me, che non mi forzano nelle scelte terapeutiche, che veramente hanno affinato i loro sensi al punto da capire insieme a me cosa è bene per me, tutta intera, di là da ogni reperto radiologico o ematico. Curanti che danno credito a ciò che racconto loro della mia storia e a ciò che vi leggono, e sappiano integrarlo con saggezza in ciò che leggono sul foglio delle analisi. E quando la guarigione non è possibile, non mi dimettono ma continuano a prendersi cura di me, per accompagnarmi nel percorso della cronicità e della degenerazione, per darmi il sostegno che mi serve per vivere nonostante la malattia. Un sistema sanitario e sociale che dà secondo necessità perché ha un sistema di valutazione che ha riconosciuto la sensibilità e l’empatia come strumenti di lavoro, da non lasciare a casa, ma da portarsi dietro mentre si compilano i fogli delle richieste di servizi. Un mondo in cui il sistema e il paziente non sono in concorrenza, ma insieme dalla stessa parte.
Un’utopia? Può darsi, ma in fondo anche andare sulla luna lo era per gli antichi…
Certo, andare sulla luna ha richiesto molto lavoro, grandi scommesse, passione, cadute, errori, impegno… a noi non aspetta niente di meno se vogliamo davvero cambiare.
iside
Non c’è da dire niente di più niente di meno…grazie Iside!
mcarla
Grazie, Iside !!!
Maria Letizia
Ho commentato il post su AltraScienza, ma vedo che anche qui la discussione si è fatta davvero ricca e profonda! Apprezzo notevolmente tutto ciò che è stato scritto, aggiungo solo un piccolo contributo.
I medici, come gli operatori sanitari in genere, sono persone quanto i loro pazienti, nella relazione si trovano solamente “dall’altra parte”, ma in fondo abbiamo tutti gli stessi bisogni e le stesse difficoltà. Nello stesso mare navighiamo, insomma, solo con ruoli diversi, ma che nel tempo possono cambiare (anche il medico spesso diventa paziente).
La difficoltà di relazione vissuta dal paziente può essere vissuta anche dall’operatore. Le barriere, le maschere, le sofferenze e le difese sono parte dell’umano. Pretendere di essere accolti e trattati in un certo modo, talvolta arrivando a minacciare denunce, può mettere in difficoltà l’altro rendendo la relazione più rigida e condizionando anche il modo di agire del medico.
Sono il primo a dire che la formazione medica deve fornire le basi di un sapere che non è solo tecnico, ma anche umano, quindi psicologico, culturale, filosofico e spirituale. Prima di questo, però, c’è qualcosa che interessa tutti, abbiamo bisogno di un contesto culturale e sociale più pacifico.
In una società più sinceramente umana avremmo operatori maggiormente preparati alla relazione e contesti di cura più idonei. Nascerebbe una nuova consapevolezza della complessità della persona, del senso della vita e della malattia, e anche i protocolli sarebbero pensati e applicati su questa base. Allo stesso modo i pazienti vivrebbero più preparati la sofferenza della malattia e i limiti della medicina.
La relazione di cura non dipende quindi solo dal medico, ma in buona parte anche dal paziente. Se quest’ultimo decide di non proseguirla, di non continuare a curarsi, o di farlo in altro modo, può dipendere da scelte consapevoli, ma anche da fattori inconsci, da pregiudizi, da storie personali.
Io credo che Darsi Pace abbia delle proposte concrete che possono contribuire a questi processi di crescita personale e sociale, e sono certo che questo gradualmente si rifletterà anche sulle politiche sanitarie, sugli operatori, sulle modalità di cura e su tutti noi, a prescindere dal ruolo che assumiamo di volta in volta.
Sì, Pier Luigi, il cambiamento qui riguarda tutti. Non siamo due fazioni, pazienti contro professionisti sanitari, come in un derby. Siamo tutti dalla stessa parte. Poi c’è l’allenatore che è il sistema sanitario per come è organizzato, ma anche le politiche sanitarie a monte, e la politica tout-court, per non parlare degli interessi economici in ballo. Sono convinta che molti medici, infermieri, terapisti ecc. facciano i salti mortali per rendere più vivibile, ma anche più ragionevole, l’ambiente di cura. I margini di autonomia però sono strettissimi. Qui non si tratta della buona volontà del singolo, sempre molto apprezzata, ma di una trasformazione profonda dello stile complessivo, di provare a ricreare le cose da un altro punto di vista, che non è né il “mio” né il “tuo”, ma il “nostro”. Non mi è chiesto di cambiare idea per prendere quella di un altro, non mi è chiesto di cambiare squadra, ma di crearne una nuova. E qui la sfida si apre nella sua complessità, ma anche nella sua inevitabilità se vogliamo sopravvivere – tutti. Il rischio altrimenti è che modifichiamo qualche dettaglio, con enormi sforzi per andare contro corrente in un sistema strettamente strutturato, senza cambiare nulla nella realtà.
La trasformazione che ci è richiesta è radicale, non un po’ più di gentilezza (che comunque non guasta) e un po’ più di rispetto per il lavoro altrui (che non guasta neanche quello), ma un sistema sanitario completamente diverso dove il senso di salute, malattia, cura ecc. sia vissuto in forma complessiva e sintetica, invece che spezzettata e a settori. Dove l’umano è uno e unico e non smembrato, analizzato, catalogato, e rispedito al mittente.
iside