«Il deserto cresce; guai a colui che porta il deserto», cantava il viandante che soleva chiamarsi l’ombra di Zarathustra.
A ben vedere, la cultura, il pensiero e l’arte degli ultimi 200 anni in un certo senso non fanno altro che dirci che ci troviamo a vivere una svolta radicale, di portata ancora incompresa, all’interno dell’intera storia dell’uomo sul pianeta. Da alcuni decenni a questa parte inoltre anche la scienza ci ha svelato un inquietante nesso diretto, prima di oggi totalmente impensabile, tra le modalità primarie di vita dell’uomo (mangiare, produrre, consumare, ecc.) e l’equilibrio climatico dell’ecosistema terrestre. Se con l’ultima guerra mondiale l’uomo ha infatti compreso di avere in potere la vita degli altri uomini in misura fino a un secolo fa inconcepibile, ora avviene la medesima cosa per il potere dell’uomo sulla natura e sul clima: quindi di nuovo nei confronti del destino umano su vastissima scala.
Il fin troppo noto fenomeno dello scioglimento delle calotte polari (che, secondo alcune previsioni, potrebbe essere totale d’estate entro il 2050), oltre a tutti gli sconvolgimenti conseguenti, corrisponderebbe ad un fenomeno che non si verifica sulla terra da circa 10.000 anni, ossia più o meno dall’inizio di quell’arco di tempo che costituisce la nostra era interglaciale.
Se noi ora, passando oltre per una volta a tutte le considerazioni catastrofiche che si potrebbero fare in proposito, ci interrogassimo su un potenziale significato più alto, più vasto e a lungo termine di un fenomeno epocale come questo, cosa potremmo comprendere in più rispetto a ciò che già sentiamo detto ovunque?
Innanzitutto è interessante osservare come anche la nascita delle prime civiltà umane, riconosciute tali in quanto dedite all’agricoltura e a un sistema più centralizzato di governo, risalgano ugualmente a 10-12.000 anni fa, ossia a quello stesso periodo che si fa coincidere con la grande svolta del Neolitico. Ciò significa che la prima grande svolta cosmico-antropologica, alla quale facciamo risalire l’origine di ciò che chiamiamo “civiltà”, è accaduta in coincidenza di una altrettanto imponente svolta climatica e ambientale: appunto l’ultimo grande disgelo planetario.
Forse dovremmo tenere a mente proprio questo misterioso sincronismo quando riflettiamo sul fatto che l’inesorabile decadimento di tutti i valori e di tutti i fondamenti spirituali della civiltà occidentale (il grande Nichilismo annunciato a fine Ottocento), almeno a partire dalla metà del secolo scorso, non solo sta coincidendo con il più rapido e grande disgelo mai avvenuto negli ultimi 10.000 anni, ma sta anche avvenendo per la prima volta in conseguenza diretta dell’agire e del pensare dell’uomo.
Scriveva già Nietzsche in un frammento postumo del 1884: «La disgregazione, e quindi l’incertezza, è propria di quest’epoca: nulla poggia su una solida base e su una fede dura: si vive per domani, perché il dopodomani è dubbio. Tutto è sdrucciolevole e pericoloso sul nostro cammino, e il ghiaccio che ancora ci sostiene è diventato ben sottile: noi tutti sentiamo il caldo sinistro soffio del vento del disgelo: qui dove ancora camminiamo, fra poco più nessuno potrà camminare».
Ci chiediamo quindi: che relazione c’è tra il deserto annunciato da Zarathustra e la desertificazione reale delle aree temperate del pianeta cui stiamo assistendo in questi anni?
Sappiamo inoltre che la grande crisi dell’Occidente coincide con una sostanziale liquidazione o dissoluzione di tutte quelle verità metafisico-sacrali che per secoli e secoli si sono credute immobili ed eterne: dai sistemi teologico-filosofici a quelli politico-sociali, dalle relazioni umane a quelle internazionali, e così via. In fondo se tutto ciò è vero si potrebbe anche parlare di uno scongelamento epocale della verità per come fino ad ora l’abbiamo essenzialmente conosciuta.
Crediamo allora che sia un caso che proprio al culmine dell’età dello scioglimento dei ghiacciai spirituali dell’Occidente stiamo assistendo contemporaneamente anche al reale, inesorabile scioglimento degli (altrettanto millenari) ghiacciai polari?
Non può essere un caso, se è vero che tutto ciò che accade all’uomo, cosmicamente e personalmente, segue un ordine misterioso che si svela progressivamente nel suo stesso darsi.
Ma allora sorge un’altra domanda ancor più impellente: come è possibile che un evento ad ultimo liberatorio e salvifico, come quello della confutazione di ogni modalità tirannica e ghiacciata del vivere, possa corrispondere, anche solo lontanamente, ad una prospettiva climatico-planetaria così oscura e catastrofica? Come è possibile che, quindi, un evento di nascita, di trasformazione epocale – nel senso di una grande crescita della coscienza – si accompagni anche ai più grandi sconvolgimenti potenziali che l’ecosistema umano possa prospettarsi?
Qui entriamo in un mistero ancora più profondo, che si connette al paradosso intrinseco delle doglie del parto, all’enigma della vita che si perpetua attraverso la morte. Proprio il paradossale infatti, dopo il XX secolo, si mostra per noi il luogo primario della verità, giacché quella verità così perfetta, piatta, limpida era al contrario quell’enorme blocco di ghiaccio che, immobile e compiuto in se stesso, al di fuori di sé non lasciava trasparire alcuna ambiguità, nessuna contraddizione.
Invece il secolo scorso, nella sua drammaticità, ci ha dimostrato che la verità è molto più complessa, fluida, inafferrabile di quanto avessimo mai pensato.
E questo vuol dire tanti e duri paradossi da attraversare.
Il più grande potremmo proprio sintetizzarlo in questo modo: il fuggire dalla morte, dal vuoto, dal deserto dell’anima comporta per l’uomo il ritorno catastrofico del rimosso nella forma della desertificazione complessiva del pianeta.
È l’uomo medesimo, oggi lo sappiamo bene, che sceglie la via da percorrere, anche se non ne comprende mai bene la portata. L’uomo non riesce ancora ad accettare di avere in sé una componente auto-distruttiva, che non vuole minimamente salvarsi dalle catastrofi, ma che anzi quasi gode nell’invocarle contro di sé. Se non capiamo cioè che nemmeno la nostra mente è unilaterale e univocamente indirizzata al bene, non faremo altro che inseguirne senza accorgercene la parte più disperata, più suicida e più distruttiva: in altre parole, quella vecchia conformazione ghiacciata di noi che ancora non vuole sciogliersi, perché ha troppo paura non tanto di morire, quanto proprio di vivere.
L’uomo in un certo senso si uccide da solo perché ha troppa paura di vivere.
Ecco di nuovo l’entità del paradosso che dicevamo.
Alexander Langer, grande attivista ed ecologista italiano, così disse in un discorso a Dobbiaco nel 1994: «Soprattutto pare tutt’altro che assicurata la volontà di guarigione: se ci fosse, produrrebbe azioni e segnali ben più determinanti. Visto però che le cause dell’emergenza ecologica non risalgono a una cricca dittatoriale di congiurati assetati di profitto e di distruzione, bensì ricevono quotidianamente un massiccio e pressoché plebiscitario consenso di popolo, la svolta appare assai più difficile. Malfattori e vittime coincidono in larga misura».
Oggi noi potremmo aggiungere che se questa cricca esiste, ciò è stato reso possibile sicuramente anche sulla base del nostro consenso di massa. Appunto un grande paradosso, ma che dobbiamo accettare come tale e attraversare, se vorremo avere un futuro di guarigione e non riprecipitare in forme ancora inedite di auto-distruzione.
L’anno che più di ogni altro nella storia ha forse incarnato questo culmine del caos distruttivo è il 1945. La fine della seconda guerra mondiale, se davvero vogliamo indagarla nel suo significato ultimo e liberatorio, è servita a dirci più o meno che per l’uomo è giunto il momento di una conversione radicale di sé. L’io umano e cosmico necessita di un salto, di un grandissimo passaggio di coscienza, proprio perché il permanere nella sua vecchia condizione glaciale ha causato un trauma di siffatta portata. La ferita del 1945 ci impone ancora oggi, a distanza di oltre 70 anni, una radicale conversione dell’anima, e quindi dell’ecosistema. La conversione però richiede raccoglimento, revisione interiore, vuoto purificatorio: in una parola, richiede deserto.
Ma quale via ha intrapreso l’uomo dopo quella catastrofe? Siamo sicuri di esserci davvero cimentati col significato più profondo di questo evento?
Per quanto grandi possano essere stati gli atti di revisione interiore, sul piano anche politico e non solo morale, comunque non hanno impedito all’umanità di tuffarsi sull’onda della più grande crescita economica e consumistica che si sia mai vista. E di fatti, se osserviamo i grafici climatici più rigorosi, notiamo che la grande fase del riscaldamento globale, quella che sta comportando tutti i più grandi rischi che si prospettano oggi per il nostro secolo, sono tutti o in massima parte scaturiti dalla grande stagione del petrolio americano, dal boom economico degli anni ’50 e ’60 e quindi dall’immensa fase di globalizzazione dell’industria e del mercato consumista ancora vigente.
In altre parole, la mancata discensione dell’uomo nel deserto interiore, che i tempi ci richiedono insistentemente, si sta oggi ripercuotendo su di noi nei termini di una reale desertificazione, di una siccità e cambiamento catastrofico del clima in tutto il pianeta.
Non prendere sul serio il viandante dello Zarathustra che ci dice «Il deserto cresce», vuol dire, in virtù del paradosso di prima, che il deserto lo facciamo crescere davvero sul nostro pianeta, e che esso ci travolgerà inesorabilmente, perché abbiamo tentato in ogni modo di fuggirlo, di nasconderlo sotto le luci colorate di Las Vegas, sotto le tonnellate di dolciumi e di merci dei supermercati di tutto il mondo. Il deserto, oggi, a quasi 20 anni di distanza dall’inizio del nuovo millennio, sembra paurosamente minacciarci durante le sempre più terribili estati italiane e indirettamente nei giganteschi uragani che colpiscono aree ricche e povere del mondo.
Ma se è vero che nessun evento ha un solo volto, che nessuna verità è un cubo quadrato di ghiaccio, dunque nemmeno il deserto è solo morte, solo vuoto, solo distruzione: anzi, lo è nella misura in cui noi non ci decidiamo ad accoglierne la misteriosissima fecondità, la potenzialità purificante, vivificante, espiante che paradossalmente nasconde in sé.
Il vuoto non è solo il nulla della privazione, ma è anche il presupposto di una nuova e più potente pienezza. Questo è il messaggio che ci ha lasciato Carlo Carretto, che per dieci anni a partire dal 1954 trascorse la sua vita nel deserto del Sahara, ricordandolo così vent’anni dopo in una lettera: «E mi trovai nel deserto, come in un secondo periodo della mia vita, a svuotarmi delle mie sicurezze e a liberarmi dagli idoli. E’ stata la più splendida avventura della mia vita, anche se la più rude e dolorosa. Dal deserto le cose si vedono meglio, con proporzioni più eterne. Il cosmo prende il posto del tuo paese natio e Dio diventa davvero un Assoluto».
Il valore rigenerante della vacuità, della povertà, del silenzio è a ben vedere l’unica reale modalità di conversione che si prospetta per il nostro tempo, giacché il caos pubblicitario e commerciale della nostra società esiste solo in contrapposizione a questo moto inesorabile della storia antropologica. Se l’uomo sceglie di fuggire e ostacolare il deserto purificatorio che incombe nella sua anima, si tirerà da solo addosso il deserto (in senso stretto), e inoltre vivrà lo scioglimento dei propri ghiacciai interiori in modo catastrofico e apocalittico, così come stiamo vedendo avverarsi in questi anni.
Decidiamoci dunque, politicamente e personalmente, ad accogliere in noi il significato iniziatico, critico-evolutivo dell’attuale disgelo universale della vita. Ascoltiamo il richiamo epocale che chiama alla conversione, alla liquefazione delle nostre strutture bloccate, dei mondi sterili e più freddi del nostro spirito e della nostra politica.
Il ghiaccio che dobbiamo sciogliere è tutto interiore: sono le istituzioni stesse della nostra anima e della nostra politica a doversi scaldare, a doversi curare nel deserto risanante dei nostri tempi apocalittici, appunto rivelanti una nuova modalità cosmica di stare al mondo come umani.
Così Thomas Eliot ci esortava già a questa nuova e grande verità in uno dei suoi cori da La Rocca:
Dimentichi, voi trascurate gli altari e le chiese;
voi siete gli uomini che in questi tempi deridono
tutto ciò che è stato fatto di buono, trovate spiegazioni
per soddisfare la mente razionale e illuminata.
E poi, trascurate e disprezzate il deserto.
Il deserto non è quello del remoto tropico australe,
il deserto non è solo voltato l’angolo,
il deserto è pressato nel treno della metropolitana,
presso di voi, il deserto è nel cuore del vostro fratello.
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Grazie Luca, per questa analisi profonda e spericolata, incredibilmente ricca di verità profetica.
Solo la solitudine e il silenzio, da coltivare nel cuore, potranno educare questa umanità smarrita a ritrovare una via evolutiva e a scongiurare il rischio di bruschi risvegli dopo fasi troppo protratte di dimenticanza e di distrazione.
Grazie anche per aver ricordato le parole di Langer: il suo invito a proseguire instancabilmente nella ricerca di “ciò che è buono” è un lascito prezioso, che ci aiuta a superare tutti i disfattismi e le crisi di sfiducia. Il processo è guidato, la vita fiorirà, nonostante tutto, anche attraverso il deserto.
Paola
Grazie, Luca, per le tue bellissime e profondissime riflessioni.
Grazie per aver citato anche Carlo Carretto che nei suoi scritti ci invitava a fare un po’ di deserto nella nostra vita per ritrovare noi stessi e l’Assoluto.
Grazie per averci ricordato che solo nel silenzio e nella meditazione possiamo ritrovare il filo della nostra vita e ricominciare con fiducia a ricreare il mondo attorno a noi.
Maria Letizia
Grazie infinite Luca, hai dato voce a riflessioni mie, intime che sto facendo da un po’ di tempo e mi sono riconosciuta in pieno nelle tue parole.
Non ho letto tutto. Ma sono pienamente in consonanza con voi. Sono un poeta insorto e spero anche in futuro risorto.
Caro Luca, è visione apocalittica la tua, in senso letterale, e dunque tanto spaventosa quanto luminosa di luce che si può trovare solo con grande fatica.
La tua è una teologia incarnata che nella comunità di “Darsipace” cerca una nuova antropologia.
L’umanità e le variazioni climatiche interagiscono ma in modo biunivoco: non è uno che determina l’altro ma è un divenire misteriosamente correlato.
Esiste una visione semplicistica e materialista che riduce anche le “patologie” climatiche a questione di atomi, cellule e molecole, e le confina entro l’ambito chimico-fisico.
E’ la stessa cultura dello sterile razionalismo che pensa l’uomo come aggregato casuale di molecole e non è capace di vederlo come l’essere co-creatore di mondo.
L’umanità, il pianeta e il cosmo sono “Uno”, e sono “Uni-verso”, cioè dotati di senso.
L’uomo per il suo bene presente e futuro deve recuperare questa verità ( come ci diceva Castellani nel post “Come in cielo così in terra”), che è contenuta nelle filosofie millenarie che pure sono in crisi, alleluja.
L’uomo e il mondo non sono semplice materia destinata a ridursi tutta in polvere.
Noi non siamo animali razionali, ma figli di Dio: siamo la coscienza dell’Universo che si esprime oggi con le parole di Eliot e di Carretto, di Hillesum e di Teilhard, del credente Einstein e di Panikkar, di Guzzi e anche con le vostre di giovani del Gruppo poetico insurrezionale.
Siamo consapevoli di avere una fonte interiore di luce che deriva da Altro, e questa nostra fede fonda la speranza nell’insurrezione della Nuova umanità, che sopravvivrà alle catastrofi che possono sconvolgere il pianeta.
Catastrofi provocate dalle attività umane in parte, perchè in parte si sono sempre verificate nella storia come la Groenlandia simboleggia e come testimoniano le antiche siccità dello Sahel subsahariano.
Con tutto ciò resta vero il dispiegarsi concomitante delle vicende dell’uomo e del pianeta, e tale concomitanza ci interpella a quanto Luca ha scritto.
In mezzo a duri paradossi ” il fuggire dalla morte comporta il ritorno del rimosso in forma di desertificazione”, concordo che sono le istituzioni ghiacciate della nostra anima e della nostra politica che noi dobbiamo riscaldare.
Grazie, GianCarlo
Dicevano le stesse cose quelli che aspettavano la fine del mondo agli inizi dell’anno Mille. Niente di nuovo sotto il sole.
Pero’ penso sia piacevole ,per voi , sentirsi parte di un gruppo, identificarsi e pensare di essere gli eletti. Ogni intervento rinforza il precedente e uno alla fine crede.
Dopo un elenco di commenti, grazie, grazie, bravo, bravo, non so resistere a dare delle punzecchiature.
“La Speranza nasce dalla consapevolezza che non c’è più speranza.”
Il tuo articolo ha fatto emergere questo pensiero, non ricordo se lo avevo già ascoltato nel passato o letto da qualche parte.
E’ una specie di Koan, che mi ha dato una sorprendente serenità.
Volevo condividerlo
Un caro saluto
Le suggestive e forti parole di Marco mi suscitano un sentimento si serenità e un senso di appartenenza alla vita su questo “nostro” pianeta che, anche quando sarò ri-diventato polvere, sento che avrà un “senso” la “mia” polvere. Ma se penso ai miei figli e ai miei nipoti……..la mia sensazione si trasforma…!!
Al Signore/a anonimo dico che noi italiani siamo campioni a punzecchiare e a stare sul balcone a criticare e deridere chi si impegna, e addirittura ci sentiamo forti se mandiamo tutti al “vaffa” purtroppo di moda.
E dico che non conosce i praticanti di Darsipace che pensano e parlano ben consapevoli dei limiti propri e comuni ad ogni essere umano, e che non si sentono migliori di nessuno.
Eletti sperano di esserlo nel senso di chiamati alla ricerca della verità.
Lei signora anonimo forse ama la volgarità delle risse che alcune conduttrici televisive attizzano per far emergere il peggio di tutti: è l’opposto di ciò di cui ha bisogno questa povera Italia.
Io amo apprezzare e ringraziare chi è capace di dire qualcosa di vero, qualcosa di buono, qualcosa di bello.
Auguro anche a Lei di avere qualcosa da apprezzare.
Giancarlo
Cari amici,
vi ringrazio profondamente per le vostre parole, per il vostro sincero apprezzamento.
Ringrazio in particoare Giancarlo, che ha dato grande ampiezza alla mia riflessione condividendo il suo orizzonte di lettura. Sono molto felice che un pensiero che avevo in me da tanto tempo, cui tenevo non poco, abbia suscitato in voi consonanza.
Quello che credo fortemente è che oggi, nonostante l’impotenza e il blocco creativo sempre più totale, possiamo e dobbiamo ricominciare a osare il pensiero: a pensare in senso forte, in senso nuovo e radicale, senza temere la follia visionaria e apocallittica che, come è stato detto, ha in ogni tempo mosso in avanti la coscienza dell’uomo sul pianeta.
Il pensiero non è assolutamente intellettualismo o semplice congettura personale, fuori dalla “realtà” (stabilità poi quest’ultima da chi? …).
Il pensiero è invece il ritmo del nostro respiro. Il pensiero è il venire ad essere del mondo, prima ancora di quaslasi “fatto” o “dato” visibile. Conviene che capiamo quindi che senza questo non si dà affatto l’uomo, in alcun modo.
In fondo sta tutto qui il crinale della svolta che cerchiamo.
Grazie di nuovo a tutti,
Luca C.
La riflessione di Carlo Carretto riportata da Luca nel suo articolo è tratta da “Lettere dal deserto”, un libro bellissimo che mi sento di consigliare a chi voglia approfondire, o magari riscoprire, il senso e il valore della preghiera.