L’umano è per natura inquieto. L’inquietudine, potremmo dire, nasce dal nostro essere al mondo senza saperne il motivo, che pure continuiamo a ricercare, in modo più o meno consapevole. Leopardi, nel celebre Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, ammette di invidiare la vita placida e beata di quella greggia che non sembra turbata dalle fatiche dell’esistenza, né dal tedio che invece assale il poeta quando cerca un po’ di quiete:
(…)
sì che, sedendo, più che mai son lunge
da trovar pace e loco.
(…)
L’esperienza umana è dunque caratterizzata da una problematicità di fondo, che può essere magari colta con maggior sensibilità dall’anima del poeta, ma che certamente ognuno di noi conosce bene.
L’inquietudine non ci consente di restare appagati di ciò che il mondo ci propone, come invece succede all’animale che, saziati i propri bisogni, può riposare fino a che di nuovo gli istinti non manifestino la necessità di una loro soddisfazione, trovata la quale sarà possibile tornare a una condizione di pienezza, e così via. La nostra inquietudine ci segnala invece una mancanza di fondo che ci costituisce.
Essere umani significa quindi, in qualche modo, essere mancanti, carenti. Heidegger, in termini filosofici, affermava ad esempio che il modo d’essere dell’uomo ha come tratto essenziale il suo “aver-da-essere”. In altre parole, ciò che noi siamo non è mai definito, non è mai dato una volta per tutte, ma anzi è sempre al di là di ogni nostro tentativo di volerlo controllare, dominare.
Quella che sembra essere l’impossibilità di poter definire cosa sia questa mancanza che ci abita, ha reso piuttosto affascinante, per gli uomini di tutti i tempi, la prospettiva di colmarla. Questa apertura, questo buco lacerante, questo richiamo continuo a ricercare altro – senza sapere cosa – a desiderare qualcosa che non riusciamo nemmeno a nominare, ma che avvertiamo come una ferita bruciante, spesso ci sembra una condizione insopportabile.
Vorremmo essere padroni della nostra vita, poterla gestire come meglio vogliamo, e così per riguadagnare una posizione dominante, per riprendere possesso della nostra vita, come ha scritto il filosofo Silvano Petrosino, tentiamo un atto decisivo, ovvero di “riconvertire la logica del desiderio in quella del bisogno”; convertire questo oscuro richiamo del cuore, questa sete infinita e inquietante, in qualcosa di tangibile, manipolabile, disponibile alla nostra presa.
Petrosino fa anche notare come questa dinamica quindi, in cui l’essenza umana, che è desiderio, viene ridotta a qualcosa di definibile e tangibile, prima di diventare una logica imposta dalla società, trova il suo corrispettivo in una nostra tendenza individuale, psicologica ed emotiva.
Ricapitolando: siamo inquieti perché siamo al mondo, “gettati” nel mondo (ancora Heidegger), senza coglierne, almeno questo è ciò che sembra, il senso. E ciò che ci circonda non ci dà quella sensazione di pieno appagamento di cui invece godono gli animali, poiché a differenza loro, siamo animati da bisogni concreti, fisiologici, ma anche da un desiderio indefinito.
Proprio a questo punto si situa la risposta della nostra società, dell’ambiente in cui siamo nati e cresciuti. Qui ci limiteremo ad evidenziare i tratti della società in cui siamo immersi, quella occidentale contemporanea. Questa si propone infatti di gestire la condizione dell’individuo, che poniamo si stia interrogando, in modo più o meno esplicito, sulla direzione da assegnare alla propria vita, per sfuggire alla terribile sensazione che tutto sia, come scrive Eliot nel Frammento di un agone:
(…)
nascita, e copula e morte,
tutto qui, tutto qui, tutto qui,
nascita, e copula e morte.(…)
La società assegna infatti all’individuo una definizione di sé: l’umano non è più soggetto desiderante, ma è ridotto a produttore di profitto (“risorsa umana”) e consumatore, dotato quindi di bisogni ben definiti. In secondo luogo, si propone di colmare tali bisogni, surrogati del desiderio.
Lo scopo della complessa esperienza umana viene quindi oggi a coincidere con il successo formativo/lavorativo e con la capacità di entrare in possesso di beni superflui. Per questo si parla correntemente di società della performance e consumistica. Assecondando questa visione, siamo costretti a negare in noi stessi tutte quelle dimensioni, vitali e preziose, che risulterebbero d’intralcio alla nostra realizzazione sociale.
Ognuno di noi potrebbe trovare numerosi esempi a questa affermazione. Una ricerca del 2005 pubblicata dal Wall Street Journal
(https://www.wsj.com/articles/SB112190164023291519) mostrava il nesso tra il successo negli investimenti e l’incapacità di provare emozioni. Oppure pensiamo alla condizione di una donna che voglia coniugare il proprio desiderio di maternità, di cura e accudimento – di sviluppare cioè il proprio principio femminile – con le legittime aspirazioni professionali. Per realizzare le seconde, dovrà probabilmente rinunciare alla prospettiva dei figli (il tasso di natalità nei contesti urbanizzati é in costante calo). Più in generale, l’uomo si trova a piegare il proprio desiderio di realizzazione entro le logiche di un bisogno di riconoscimento sociale che passa esclusivamente dalla carriera.
In conclusione l’individuo, se vuole ottenere gratificazione dalla società in cui vive, spesso deve rinunciare a quel desiderio infinito che sarà pure vago e confuso, ma autentico e vitale. La domanda stessa sul senso della nostra esperienza umana diventa un tabù, perché rallenta l’azione, la ferma. Riflettere, soffermarsi sul senso delle cose, non è considerato funzionale in quanto inceppa la catena di montaggio, come già denunciò Pirandello nella Quaderni di Serafino Gubbio operatore, il cui protagonista “fallisce” in quanto non riesce a dissociare il lavoro che svolge in una casa cinematografica dal proprio vissuto emotivo: è troppo umano. Anche il che fai tu, Luna in ciel? leopardiano sarebbe oggi liquidato affermandone l’inutilità – dopo aver magari sperato invano di poterne estrarre risorse preziose.
La questione tuttavia non è di così facile risoluzione. Perché saremmo così propensi a questa sottrazione di libertà se non avessimo nulla da ricavarci? Se è vero che qualcosa ci viene tolto, e siamo noi stessi a consegnarlo, qualcosa pure otteniamo, ed è – ricollegandoci a quanto detto in principio – proprio la fuga dall’incertezza (di cogliere la nostra essenza) e l’approdo ad una apparente certezza (di un’identità piena, riconoscibile, tangibile).
Rispetto alla “greggia” da cui siamo partiti, i nostri bisogni sono moltiplicati e incessanti, perché devono pur sempre colmare una mancanza profonda, tuttavia nel terzo millennio ormai abbiamo tutto a disposizione di un click, che sia un nuovo viaggio o un acquisto, e la frustrazione è ridotta ai minimi termini. Per mascherare l’inquietudine che ci atterrisce, saltelliamo da un posto all’altro, alla ricerca frenetica del nuovo prodotto, del nuovo viaggio con cui riempire il weekend, della nuova esperienza imperdibile, della promozione esclusiva, di qualcosa che ci darà proprio quello che ci manca.
Ma otteniamo davvero ciò che cerchiamo? Sotto questa euforia non si nasconde forse un malessere profondo, derivante dall’aver castrato il nostro desiderio, dalla rinuncia ad una realizzazione più autentica? Credo che nell’epoca in cui ci troviamo a vivere, sempre più persone abbiano iniziato a mettere in discussione la validità delle proposte di questa società, e di una definizione mercantile e utilitaristica dell’essere umano. Il desiderio umano non può essere messo a tacere troppo a lungo, come non si può impedire a un fiore di sbocciare o a un albero di fare frutti. Ciò che molti di noi sperimentano è una crisi, più o meno profonda, che deriva proprio dalla nostra lontananza dal centro vitale che vorrebbe sgorgare ed espandersi in noi.
Forse, se Leopardi, sedendo e disperandosi per non trovar pace, fosse stato avvicinato da un anziano maestro indiano, avrebbe imparato a lasciar andare il tumulto dei pensieri, e si sarebbe accorto, praticando, che l’agitazione mentale e lo smarrimento non sono che le prime fasi di un lungo percorso alla riscoperta di sé.
Oggi più che mai, in una società che ci vorrebbe privare della capacità di desiderare altro, di aspirare a qualcosa che sentiamo, a tratti, dentro di noi come possibilità concreta e gioiosa, possiamo scegliere di lasciar cadere la finzione dei bisogni illusori che ci vengono proposti, di promesse che non vengono mai mantenute. Possiamo tornare a sentire, ogni giorno, anche solo per dieci minuti, la forza che nasce in fondo al nostro respiro, se accogliamo la vita nell’inspiro e ci abbandoniamo fiduciosamente nell’espiro. Forse il senso che cerchiamo disperatamente nel mondo risiede altrove: siamo nati per desiderare e creare qualcosa che nel mondo ancora non esiste.
Infine, una nota in margine sull’immagine scelta per accompagnare l’articolo che avete letto: nel dipinto surrealista di Magritte intitolato La battaglia delle Argonne (1959), una nuvola sta per scontrarsi con un macigno. L’artista belga ha sempre lasciato aperto il campo delle interpretazioni, per cui ci prendiamo anche noi la libertà di farlo. Immaginiamo che lo scontro imminente indichi la dimensione oppressiva, di una minaccia che incombe, nella quale vive l’uomo contemporaneo. Assiste alla scena la luna. Si può ipotizzare un seguito possibile: il macigno attraversa la nuvola, rivelandone l’inconsistenza, ed entrambi gli elementi escono di “scena”. Resta la luna, silenziosa e quieta. Ciò che ci inquietava svanisce, e uno spazio libero si apre all’orizzonte.
Davvero bello e ‘importante’ questo post…nel leggerlo mi sono subito venuti alla mente i versi di Pablo Neruda
“Potranno tagliare tutti i fiori ma non fermeranno mai la primavera!”
Grazie Filippo…
mcarla
Grazie, Filippo per il post, molto articolato e profondo e per l ‘immagine scelta. La tua libera, poetica interpetrazione della Battaglia delle Argonne di Magritte del 1959, illumina il senso dello scontro epocale che sta vivendo l’uomo di oggi e vissuta dall’uomo di ogni tempo quando urge e si impone una Svolta che ci porta sul crinale della Storia.
ipotesi: l’inquietudine è strutturale? cioè prima che l’inquietudine nasca da una attitudine, una modalità di pensiero, una visione della vita… risiede nella struttura del sistema nervoso?
emisfero sinistro: conservazione, rifletto, paura…emisfero destro: desiderio di futuro, scoperta, ignoto…. come si mette d’accordo l’acqua con il fuoco? Tutta la vita siamo in bilico su vado? mi butto? lo faccio? lo dico? e tra aspetto? rifletto? evito?… in sostanza tra mi piace e non mi piace
Se vale ciò alla fine si sceglie per caso e poi gli si dà una ragione, compito arduo del corpo calloso che deve mediare tra questi 2 emisferi
se fosse così? se di base l’inquietudine fosse strutturale ? e poi diventa pensiero?
se fosse così “dividi et impera” strategia del potere sociale di incrementare l’inquietudine ( che in base a tale ipotesi è connaturata nel cervello) inizia proprio con un lavoro , oserei dire, studiato a tavolino prima nelle nostre menti e poi di riflesso tra gli umani
conclusione: se fosse coì allora bisogna cambiare il cervello e poi possiamo capire, quindi modificare la struttura per cambiare funzione, ancora una volta urge un lavoro interiore a cui è chiamato l’uomo, un lavoro che modifica la base, la radice.
Prima si deve cambiare e poi si può capire, comprendere
cambiare il cervello per cambiare la mente
grazie
Grazie per la riflessione che condivido pienamente. Noto però, nell’Opera di Magritte, che si libra nell’aria non solo la nube ma anche il macigno. Perché un macigno volante, così, come invece è naturale, per una nube?….Inoltre, mi resta imprecisato, in un possibile scontro fra i due, quale possa avere la meglio, eliminando l’altro. Forse, allora, una fusione, una integrazione fra essi?….In tal caso…un pensiero sì oscuro, la nube, che diviene un macigno! Auspicabile una dissoluzione di entrambe.
Belle e necessarie riflessioni ma, come spesso accade, noi esseri umani siamo ormai abituati a versare fiumi di parole (e spesso confuse) quando basta meditare ogni giorno la Parola di Dio per trovare più risposte e imparare a tacere un po’ di più.
Proprio stamattina nell’aprire il libro del profeta Osea mi sono fermato a meditare queste profonde parole che Dio pone sulle labbra del profeta: “Me ne ritornerò alla mia dimora, finchè non sconteranno la pena e cercheranno il mio volto, e ricorreranno a me nella loro angoscia” (Osea 5,15).
E cosa dire dello stupendo Salmo 63,2: “o Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne in terra arida, assetata, senz’acqua”.
In fondo basta Credere, imparare a far più silenzio per lasciare più spazio alle Parole di vita eterna.
Un caro saluto a tutti
Grazie Filippo, un articolo molto bello e molto lucido, con una chiarezza che manca “sorprendentemente” (ma non troppo…) in diverse elaborate analisi dei disagi contemporanei. Ma come accade spesso, se l’uomo non vuol vedere, la sua parte emozionale, creativa, spesso va più a fondo, perché non si rassegna a non dare un “nome” alle cose, un “senso” al cosmo. Quel “ripartire dalle emozioni” messo all’inizio del manuale Darsi Pace, come una chiave di volta di ciò che seguirà, che è un atto di estrema onestà intellettuale, Riprendo ed espando pensieri abbozzati in altra sede.
“Riflettere, soffermarsi sul senso delle cose, non è considerato funzionale in quanto inceppa la catena di montaggio”. Ovvero, “The show must go on”, la produzione non deve rallentare, è l’unica divinità che ci rimane. Il misurabile, il quantificabile. Il trionfo cartesiano è totale laddove l’uomo perde la sua unicità, si detronizza da solo, in un delirio di masochismo, spacciato per consapevolezza. In un malinteso tentativo di riequilibrio dell’egocentrismo passato, scopre un egocentrismo a sottrazione, ma sempre letale. Anzi, ancora di più. Pirandello ed Eliot sono limpidissimi in questa denuncia.
A livello esperienziale, la lettura di questo tuo articolo mi ha ricordato la rock opera “The Wall” dei Pink Floyd (siamo alla transizione tra i ’70 e gli ’80 del secolo scorso), dove il grido disperato/aggressivo dell’uomo sottoposto a massificazione fin dall’infanzia, a mercificazione globale e puntuale (e consideriamo che non c’era ancora Internet…) percorre tutta la tavolozza espressiva, tra una deriva di violenza marcatamente neonazista alla disperazione personale più struggente, dove però affiora a tratti, irredimibile, intestirpabile, direi irredimibile – anche se mille volte brutalizzata – l’evidenza e speranza di una felicità possibile…
“When I was a child
I caught a fleeting glimpse
Out of the corner of my eye
I turned to look but it was gone
I cannot put my finger on it now
The child is grown
The dream is gone”
https://www.youtube.com/watch?v=_FrOQC-zEog
Questa “Confortably numb” (piacevolmente insensibile) che – per inciso – contiene a mio avviso l’assolo di chitarra elettrica più lacerante, più dolcemente struggente che mi sia capitato di ascoltare in assoluto.
Un’opera che è stata spesso fraintesa, ma trattiene esattamente questa inquietudine, ed insieme il desiderio potente di una rivoluzione, che non trova però le coordinate operative, rimane quasi congelata nell’evidenza del disagio. Personale, sociale, politico: è incredibile notare come i registri espressivi si mescolino mentre ci si addentra nell’opera. Come dire, non sono separabili, sono intimamente connessi (cosa che sarà sapientemente ripresa nella canzone “The Final Cut” dell’album seguente, che considero uno dei testi più belli della storia del rock, dove l’amalgama tra la metafora bellica e il disagio esistenziale personale arriva a livelli di eccellenza assoluti).
Questa coordinate di una rivoluzione necessaria, portata a un livello di necessità struggente, oltre tutto il chiacchiericcio televisivo (“I have thirty channel of sheet to choose from” confessa desolato Pink in “Nobody Home”) – che appunto, tu delinei come “lavorabili” nella seconda parte del tuo intervento.
Grazie!
Grazie Maria Carla e Giuseppina! Anche io avverto questa esigenza di una Svolta imminente, che a tratti può apparire minacciosa ma solo dalla prospettiva di ciò che è destinato a svanire.
@Beatrice: anche a me pare proprio così, ci vengono somministrati degli “anestetici” con cui cessare di avvertire questa inquietudine, oppure per dirottarla verso scopi consumistici. Come sperimentiamo nel lavoro interiore, è possibile pregustare una quiete autentica, certo da ritrovare ogni giorno e in ogni istante: non esiste solo la fuga ma anche l’accoglienza.
@Giovanni: anche la dissoluzione in effetti è un’ipotesi. Condivido con te l’idea che comunque quegli elementi di pesantezza e obnubilamento possano rivelarsi illusori.
@Domenico: non posso che condividere quanto affermi, per me scrivere è anche proprio un modo di fare chiarezza e dissolvere una confusione di pensieri e idee che altrimenti rimarrebbero nell’indistinto. La dinamica dell’ascolto silenzioso, a cui tu giustamente richiami, non esclude quella della comunicazione, e trovo convincente una tradizione religiosa come quella cristiana, che concilia il logos biblico con il logos filosofico.
Grazie a te Marco per il contributo! In effetti citi un’opera che apprezzo molto, così come credo sia molto vitale quel grido di dolore e denuncia, che poi vorrebbe in qualche modo purificarsi e sgorgare in un nuovo canto libero e gioioso.
Filippo
Caro Filippo,grazie per questo bellissimo post. È vero: il senso che cerchiamo nel mondo risiede nell’ altrove del nostro ” desiderio”, è nel profondo della nostra anima, del nostro Se Superiore e sarà il ” noi” , come dice don Ciotti, a partorirlo. A noi, cercatori di Luce, inventare il nuovo mondo!
Grazie per il tuo commento Carmela! Proprio così, e quindi diventiamo co-creatori di un desiderio che ci abita… La nostra esperienza umana non è già data, ma nasce dal modo con cui rispondiamo all’appello, ognuno con i suoi tempi e modi. Filippo