“Stai male? “Beh…No” “Allora che cos’hai?” “Mancanza” “Ah ok…” “Ma secondo te di che ha mancanza quel tipo?” “Mah mi sembra svitato…forse di acqua o cibo…”
L’anelito che spinge la mente alla ricerca riempie il momento di vuoto e di silenzio che ci fa sentire perennemente incompleti. Sembra che l’essere umano sia programmato con un “pezzo in meno” verso il quale verte il suo muoversi, il suo affaccendarsi, la sua ricerca.
La mancanza questo è, la ricerca di un senso.
Ha uno sguardo perplesso Damiel e un po’ perso nel vuoto quando due bambini gli si avvicinano per chiedergli cosa abbia. Lui è un angelo e Wim Wenders (noto anche per aver diretto “Paris, Texas” e il documentario “Il sale della terra”) ci racconta la sua storia ne “Il cielo sopra Berlino”, film indimenticabile del 1985.
Passa le giornate volando sopra i tetti della città con il suo fedele compagno Cassiel ma quando si innamora perdutamente di Marion, una giovane trapezista dai capelli ricci e lo sguardo profondo, decide di passare alla vita terrena.
Ora i suoi piedi carezzano il brecciolino della capitale tedesca negli anni ’80 e il suo scopo è trovarla. Era un essere primordiale e ultraterreno ma quella forza disperata e incontrollabile della mancanza, lo ha spinto a valicare ogni limite del possibile.
La mancanza è una terribile sensazione.
Potremmo dire che ne esistono di due tipi: quella materiale e quella immateriale.
La prima è la più pericolosa quanto la più fragile. Ogni televisore, radio, schermo o sito ci martella quotidianamente instillando in noi dubbi atroci come: “Come posso non avere quel profumo? Se lo comprassi realizzerei ogni mio desiderio, ne sono sicura”. O ancora: “Quanto desidero poter aver proprio quel nuovo modello di smartphone che… insomma, non posso non avere”.
Se qualche ora prima riuscivamo a cavarcela senza, in poco tempo veniamo catapultati in una realtà coercitiva che ci convince di avere finalmente uno scopo: guadagnare per comprare. Questo è davvero pericoloso, laddove si investono capitali a rate per poter pagare elettrodomestici di incerto utilizzo o ancora nel frenetico acquisto di capi d’abbigliamento di poco valore e qualità.
La tendenza è comune a ogni uomo e un po’ di fascino queste pubblicità riescono sempre e comunque a suscitarlo. Ma poi, una volta raggiunto l’oggetto dello sforzo o il lastrico, a un certo punto il circolo dovrebbe interrompersi o se non altro si fermerà per poi ricaricarsi alla ricerca del prossimo obiettivo. L’uomo però sa anche poter scegliere e selezionare e la fragilità di queste illusioni è latente quando iniziamo a domandarci se ce ne sia davvero bisogno e così, speriamo, prima o poi collasseranno una ad una.
Arriviamo al secondo tipo di mancanza, quella immateriale di una sensazione…una emozione o qualcuno, la più invisibile e dannosa. È la sensazione del vuoto che accompagna le nostre giornate. Spesso mi è capitato di chiedermi quando ho iniziato a percepire per la prima volta questo alito mortifero. Probabilmente è arrivata di pari passo con l’emersione del dolore quanto con l’inizio della crescita spirituale.
Imparare a conoscere noi stessi e a fare questo prezioso lavoro di auto-conoscimento porta a galla innumerevoli realtà da tempo sepolte; una di queste credo sia proprio il concetto di “Impermanenza” (o “anitya” in lingua pāli).
Con questo termine il Buddhismo intende affermare quanto segue: “Tutte le cose condizionate sono impermanenti. La loro natura è di sorgere e svanire. Allorché questo stesso processo di sorgere e di svanire viene meno, allora c’è la vera felicità”.
Mi sembra quindi di poter capire che l’uomo non vuole accettare questo insegnamento e tende per questo all’eterna incompletezza che sfocia in una sola e unica direzione: l’infelicità.
Questo è frustrante ma è ciò che ci distingue come umani, convinti di essere entità solide da costruire e riempire.
Come dice sempre il Buddha: “Il tramonto è bello ma non posso portarlo via con me”.
Noi vorremmo disperatamente poterci sentire completi ignorando quanto siamo assoluti e unilaterali per natura (in quanto in comunione con il divino e sua diretta estensione).
La grandezza e il vero scopo della nostra ricerca su questa terra deve poter perseguire un cammino in grado di sensibilizzarci. Possiamo muoverci per capire quanto siamo noi per primi ad avere il potere di rendere un momento infinito e incarnarlo.
Sta tutto lì il gioco. Sentirsi parte di una unica grande realtà che prescinde dal caso e da quel che comunque saremo costretti a subire.
La nostra speranza, quella che ci porta avanti e ci fa credere nella possibilità di una rinascita, trova forza e vigore nel sentirci davvero l’assoluto. A quel punto, per esempio durante il momento della preghiera, tutto potrebbe essere molto più rincuorante e rasserenante.
Ma non rischiamo di cadere nelle trame del fittizio…saranno pochi, pochissimi i momenti in cui riusciremo a sentire di aver compreso tutto questo e di poterci liberare dalla gabbia della possessione/depressione. Istanti, brividi di freddo…e per il momento dovremmo accontentarci di questo.
Credo sia opportuno considerare che per la maggior parte del tempo, vivremo questo dolore incarnato che riempie le ossa. Il desiderio di qualcosa ci offusca la mente e ci rende così deboli, fragili e poco decisi.
Credo però, per concludere, che sia già un primo passo rasserenante scoprire che una piccola possibilità di ribellione e di distruzione delle gabbie per giungere alla pace ci sia. Anzi esiste; e se proprio dovessimo ricercare qualcosa nella vita, porre questo insegnamento come meta da raggiungere sarà la più soddisfacente cui potremmo tendere per il bene di noi stessi.
Il vuoto sa di silenzio desiderabile da quando il Metodo e l’accompagnamento in Dp mi aiutano ad avvicinarmi ad esso e a starci dentro.
Prima la paura mi allontanava dal dolore del vuoto e la mente creava illusorie distanze colme di pensieri sbagliati.
Ora sento nel mio dolore e nel dolore dell’essere umano lo struggimento dell’anima, il richiamo nell’ordine creativo, l’anima si sente creatura che fiorisce nel suo continuo rapporto con la creazione.
Abbiamo bisogno di forme, di linguaggi per crescere ed evolvere, ma siamo chiamati anche a lasciarci consumare nella forma che finisce di noi stessi e a lasciarci riplasmare.
Nelle pratiche lo sperimentiamo: lasciamo affiorare e fluire tutto il rumore di superficie, lasciamo uscire il pianto e il grido racchiusi nel cuore e ci poniamo in ascolto della parola che ci abita, ci consola, ci benedice, ci rigenera.
Allora il dolore di essere consumati nella vecchia forma dell’Io arriva a prendere un buon sapore perchè ci sentiamo portare nella Luce, nella Verità che ci libera da ogni separazione.
Grazie cara Daria e arrivederci a Trevi, Giuliana
Sono d’ accordo con le tue conclusioni, cara Daria, quando scrivi che “sia già un primo passo rasserenante scoprire che una piccola possibilità di ribellione e di distruzione delle gabbie per giungere alla pace ci sia”.
E’ un lavoro quotidiano di destrutturazione per guadagnare terreno giorno dopo giorno, centimetro dopo centimetro, in vista della salvezza…un po’ come nel discorso finale di Al Pacino nel film “Ogni maledetta domenica” quando incita la sua squadra a uscire dall’ ‘inferno’ in cui si trova per aprirsi la strada verso la luce “…possiamo scalare le pareti dell’ inferno un centimetro alla volta…la vita/vera/ è un gioco di centimetri…i centimetri che ci servono sono dappertutto, sono intorno a noi…sappiamo che quando andremo a sommare tutti quei centimetri, il totale allora farà la differenza fra la vittoria e la sconfitta, la differenza fra vivere e morire…è colui il quale è disposto a morire che guadagnerà un centimetro…e io so che se potrò avere un’ esistenza appagante sarà perché sono ancora disposto a battermi e a morire per quel centimetro!!!
Un lavoro che in realtà è un far emergere, un far nascere e aiutare a nascere (come ci ricorda magnificamente Hetty Hillesum) oltre quel “dolore incarnato che riempie le ossa”.
Grazie Daria,
ciao, mcarla