Nel 2020 in Australia, a Melbourne, la famosa azienda statunitense Apple aprirà un concept store nella piazza principale della città, Federation Square. Melbourne è considerata oggi, secondo la classifica stilata dall’Economist, la città più vivibile al mondo.
La notizia dell’apertura dello store di un’azienda privata proprio nel luogo pubblico per eccellenza, ha suscitato polemiche in Australia ma anche in area anglosassone. Di fronte a questo evento può essere utile tornare a chiedersi: quale funzione ha la piazza all’interno della città? E che relazione esiste tra la città e il modello di umanità che proprio in quei luoghi vorrebbe realizzarsi?
Noi riteniamo infatti che esista un rapporto tra l’anima e la città, la dimensione interiore e quella esteriore. La condizione della città, e del suo fulcro, rivela indizi decisivi sulla definizione di umanità oggi dominante.
Senza avere la pretesa di ripercorrere le numerose tipologie di piazze che contraddistinguono i centri urbani di tutto il mondo, si può dire che, dall’agorà greca alla piazza italiana del Rinascimento, essa costituisca il centro vitale della città.
L’agorà greca era il luogo di incontro dell’assemblea cittadina e dei commerci che avvenivano nel mercato. Nell’Antica Roma il forum è circondato da edifici pubblici e templi. Nel Medioevo alle attività commerciali e alle sedi dell’autorità civile si affianca la Chiesa con un sagrato. Nel Rinascimento resta essenziale dare visibilità agli edifici pubblici, assumono inoltre un’evidenza spaziale i concetti di armonia, simmetria e razionalità.
Quindi la piazza si propone, dalla sua nascita, di trasmettere i valori pubblici della città: politici, sociali, religiosi, artistici, simbolici. E la città riflette, a sua volta, la condizione umana, il modo con cui concepiamo il nostro stare al mondo.
Dopo queste premesse, caliamoci ora nello stato d’animo che avvertiamo passeggiando per il “centro” di una città moderna. Possiamo notare innanzitutto che il centro in realtà è andato perduto. Il nostro movimento non confluisce certamente in un unico punto, che costituirebbe magari il centro di un cerchio perfetto, razionalmente delimitato da una cinta muraria di protezione contro la dimensione irrazionale e selvaggia, come la città medievale; piuttosto, siamo coinvolti in una dispersione caotica, affluiamo forzatamente in masse urbane che transitano spesso senza meta, o comunque passivamente. Inoltre, come ci segnalano drammaticamente i recenti episodi di terrorismo, ma anche le storie di crimine e di investigazione degli ultimi due secoli, è venuta meno la fiducia nella funzione protettiva della città, ormai pervasa e talvolta insanguinata dal torbido che emerge al di sotto di una facciata non più rassicurante.
Anche fermandoci al solo aspetto degli spazi urbani quindi, questo ci può comunicare, almeno in parte, l’idea di mondo della nostra civiltà. Una visione molto differente, ad esempio, da quella dell’uomo rinascimentale, che concepiva sé stesso come creato a immagine e somiglianza di un Creatore, principio centrale del Cosmo e in grado di garantire un ordine alla realtà, anche attraverso la razionalità umana. Passeggiando per Firenze, specie in alcune piazze, si può percepire ancora quel senso di armonia e di rappresentazione ordinata del mondo, e di apertura fiduciosa verso l’esterno.
Oggi invece la città sembra comunicarci ben altro. Probabilmente questo: perduto ogni legame con un Principio, vaghiamo senza meta e senza scopo in un universo insensato e disordinato. Non è forse questa la concezione cosmologica post-moderna? E non è una sensazione di spaesamento che, come nelle figure scolpite verso la fine degli anni ’40 dallo svizzero Alberto Giacometti, ci attanaglia se passeggiamo per una città moderna, se ci concediamo di ascoltarci davvero?
Torniamo ora a Melbourne, la “città più vivibile al mondo”. Il centro della città, come quello di molte altre metropoli, invita alla dispersione, a un’agitazione perpetua e irrisolta. Lo stesso disorientamento che l’io post-moderno avverte in relazione a un cosmo non più geocentrico e dunque antropocentrico. Quindi si pone una questione: è possibile colmare questa angoscia? In fin dei conti, nonostante l’assenza di un centro, di una visione sensata dell’esistenza, sentiamo comunque di dover agire nel mondo. Come riempiamo quindi il vuoto, dovendo comunque affaccendarci?
Ecco la funzione “salvifica” dell’Apple store, assunto qui come simbolo del consumismo imperante. La natura umana, per sua natura socievole, non può fare a meno di percepirsi in relazione. Non abbiamo però alcun Cielo verso cui rivolgerci, come l’uomo medievale, né abbiamo la convinzione di essere al centro della Creazione, come l’uomo rinascimentale. Così, come preannunciava Nietzsche, all’ultimo uomo non resta che rivolgersi ad altri idoli, e colmare il trono lasciato vacante erigendo nuovi templi, adorando nuovi idoli.
Ecco che a Melbourne proprio un edificio dall’aspetto di un tempio orientale, l’Apple concept store, permetterà di colmare il vuoto, la mancanza di direzione, di senso, che come individui avvertiamo a vari livelli in questa epoca storica. Alienati da un principio creativo che, non essendo più in Cielo, non sappiamo dove sia, veniamo indotti a rinunciare alla ricerca di un senso, di un centro vitale autentico, e siamo persuasi ad alleviare lo smarrimento riducendoci a consumatori, fruitori passivi di beni superflui. Se il Cielo è ormai vuoto, allora abbiamo bisogno di moltiplicare sulla Terra gli oggetti di consumo, in un horror vacui ormai dilagante a livello sociale.
Giunti a questo punto, viene da chiedersi se esista una speranza, una via d’uscita. Il processo di alienazione è davvero arrivato ora al suo trionfo estremo, e avrebbe quindi ragione uno degli architetti di Federation Square a Melbourne a sostenere che, ormai, solo una commercial activation può dare vita alla piazza, e quindi ai centri, alle città, all’esistenza umana?
Oppure esistono in noi altre dimensioni vitali, essenziali, che si ribellano a questa prospettiva, che rischiano certo di soffocare ma che sono anche pronte, forse come mai prima d’ora, a ribellarsi, ad insorgere all’alienazione estrema?
Infatti vediamo ovunque che il malessere, individuale e sociale, cresce. In una qualunque città moderna, e magari soprattutto in quelle decantate come i luoghi migliori in cui realizzarsi, milioni di persone soffrono per l’ansia, lo stress, la depressione, l’insonnia, l’inquinamento, la solitudine, il rumore. Non sono forse questi i sintomi di una trascuratezza ormai endemica dei bisogni e dei desideri di realizzazione che ci caratterizzano come esseri umani?
Siamo giunti alle soglie di un’alternativa radicale, che ci induce a ripensare la nostra essenza, la nostra esistenza sul pianeta Terra, e quindi anche gli spazi in cui vivere.
È tempo quindi di tornare ad avvertire la nostra natura più autentica. Chi siamo? Qual è lo scopo della nostra vita, e come possiamo realizzarci nel mondo, oggi? Il campo è aperto a soluzioni imprevedibili, inedite. Nessuna nostalgia per epoche in cui l’identità, umana e delle città, era solo apparentemente solida, ordinata, razionale, luminosa, spirituale, come hanno dimostrato i secoli successivi, oppure di comunità che necessitavano di una chiusura totale e di nemici esterni per sussistere. E, tuttavia, nemmeno un’adesione passiva a un modello di città, di umanità, di mondo, sempre più disgregata, polverizzata in atomi impazziti costretti a vagare in un caos insensato, freneticamente, come trottole impazzite.
Oggi, come mai prima d’ora, è necessario tornare a rivolgerci domande semplici ma essenziali: che cosa desidero? Cosa mi rende davvero felice? Proviamo a sondare realmente il nostro stato interiore: come mi sento se la mia vita sociale è ridotta a relazioni in cui vengo ricevuto solo come potenziale consumatore? In fondo, non desideriamo forse essere accolti come esseri umani, e approfondire l’unità, la conoscenza reciproca e la condivisione di una vita intensa e gioiosa? Non vorremmo assecondare e sviluppare le nostre qualità relazionali e creative, e sfuggire all’appiattimento su logiche di produzione e consumo?
Solo un’umanità rinnovata, quindi, che sappia tornare innanzitutto in sé la propria natura, il proprio centro vitale, potrà trovare la spinta creativa di ripensare radicalmente la propria vita, e con essa la forma delle città, attorno a un nuovo centro, o molti altri, in cui favorire le dimensioni dell’ascolto e dell’incontro fecondo e creativo.
La sfida, oggi come nelle epoche passate, si gioca al livello del pensiero, di visione del mondo e della nostra umanità.
Penso che l’approccio ideologico e astratto al concetto di apertura, condivisione, esperienza di fraternità, vicinanza reciproca, abbia portato al caos che vediamo nelle nostre città.
Un’esperienza solo concettuale di ciò che l’uomo è, porta l’uomo stesso a frammentarsi, frantumarsi nella sua interiorità. Come in un processo inverso a quello dei fiumi, che prendono vigore dagli affluenti, l’uomo di oggi si divide in mille rivoli che si perdono, ed evaporano nella calura dei suoi deserti interiori, senza dissetare nessuno.
Bisogna creare dei bacini (come “darsi pace”) in grado di raccogliere l’uomo di oggi, come un catino che aspetta pazientemente di essere riempito dallo stillare di gocce di umanità, che rischiano di evaporare non appena escono dagli occhi.
Una fontana in ogni piazza delle città del mondo… senz’acqua, che ricordi a noi uomini che i nostri occhi sono aridi e che attendono di piangere.
Come un corpo celeste si incendia nell’atmosfera,
così l’ego si può dissolvere,
liquefare
nel passaggio attraverso gli strati di paure che ci abitano.
per arrivare oltre
finalmente liquefatto
e libera l’anima può cantare.
Questa è la città dell’uomo che immagino,
il percorso cittadino che vorrei fare.
Stefano
Sì, in effetti, l’odierno sociale vive in modo fugace, decentrato, centrifugo…. proprio perché al centro non è posto l’Elemento centrante essenziale: Essere.
Concordo pienamente con te, caro Filippo, sul “tornare a rivolgerci domande semplici ma essenziali”… c’è troppa dispersione, troppa confusione, troppa frammentazione dentro e fuori di noi!
E molto bella, Stefano, l’ immagine dell’ uomo di oggi che “come un catino aspetta pazientemente di essere riempito dallo stillare di gocce di umanità”…gocce preziose , aggiungo io, che hanno inevitabilmente bisogno di un Centro Unificatore per non essere disperse, un Centro che deve coincidere con la realtà più profonda del nostro essere.
Raggiungerlo non è facile, però ci conforta la speranza (confidando anche negli strumenti che il percorso DP ci offre) che una volta arrivati potremo comprendere in pieno- perché ne avremo fatta esperienza- le parole di un mistico francese (padre Gratry, La connaissance de l’ Ame) in cui mi sono imbattuta in questi giorni mentre rileggevo alcuni scritti di Assagioli:
“Io sentivo come una forma interiore…piena di forza, di bellezza e di gioia…una forma di luce e di fuoco che sosteneva TUTTO IL MIO ESSERE; forma stabile sempre la stessa, spesso ritrovata nella mia vita, dimenticata negli intervalli, e sempre riconosciuta con trasporto e con l’ esclamazione: ‘Ecco il mio vero essere!”
Un augurio a tutti noi, ciao, mcarla
@Stefano e Giovanni: concordo con voi, anche io ho l’impressione di un girare senza meta, quando in fondo tutti noi cerchiamo luoghi di autentica accoglienza. Non ci resta che crearli, in queste città che sempre più hanno bisogno di luoghi di ristoro per l’anima!
@Maria Carla: grazie per le tue parole e la citazione… La speranza è proprio questa, quella “forma di luce e di fuoco” preme per espandersi e scioglie le tensioni, lo stress, le emozioni congelate che ci vorrebbero incatenare. Noi possiamo favorire questo processo, imparando a lasciar andare e a fidarci della Vita che ci guida.
Un saluto!
Filippo