È cronaca quotidiana: furto con scasso in un appartamento, scippo all’uscita dell’ufficio postale, ammanchi di merce dagli scaffali dei supermercati. Sembra che siamo piuttosto inclini ad appropriarci di ciò che non ci appartiene, almeno nelle culture in cui la proprietà privata è ben definita.
Ognuno di noi, in modo più o meno diretto, ha avuto a che fare con la sparizione di denaro o di oggetti di qualche valore e non è il caso di andare alla rapina in banca o alla sottrazione di preziosi in un museo. Ricordo ancora il senso di delusione, impotenza e rabbia di alcune mie compagne di scuole alle superiori quando, arrivati all’intervallo, non trovavano lo snack che avevano messo in cartella. Sapevamo che era opera di una nostra compagna, peraltro di famiglia benestante, che i genitori tenevano a stecchetto per evitare si comprasse le sigarette. Lei però a metà mattinata aveva fame e così, senza denaro nel portafoglio, andava a caccia di panini – a me andava bene perché il mio spuntino solitamente era una mela, forse non così attraente come le merendine.
Insomma, siamo molto legati ai nostri beni, a ciò che sentiamo come nostro e abbiamo recepito la sottrazione indebita nel codice penale sotto forma di reato.
Mi viene da chiedermi però se la Nuova Umanità possa accontentarsi di rimanere attaccata all’oggettistica.
Forse ci sono altri furti cui solitamente non pensiamo, più sottili e subdoli, cui non si attribuisce significato perché non si attribuisce valore a ciò che verrebbe rubato.
Siamo tutti alla disperata ricerca di tempo, “non ho tempo” è un leitmotiv ormai quasi noioso tanto è sfruttato. Eppure se arrivo in ritardo ad un appuntamento rubo del tempo all’altra persona. Se non peso le mie parole, non le dico con parsimonia, costringo l’altro in un ascolto vano, rubandogli un tempo che potrebbe impiegare più proficuamente.
Gli schiamazzi notturni mi rubano il sonno, cioè energia vitale. I piano bar, con musica ad alto volume che si diffonde nelle vibrazioni dei bassi, invadono l’intimità delle case come uno scassinatore dal tocco leggero, che non lascia tracce nei serramenti, eppure fa piazza pulita di possibilità di riposo e di quiete.
Chiunque non faccia il lavoro per cui è pagato sottrae, ai destinatari del servizio di cui è tramite, opportunità di istruzione, di cura…
Allora io che mi indigno di fronte ai racconti di furti, io che protesto davanti ai diritti violati, io che recito il decalogo e alla voce “non rubare” mi assolvo a pieni voti, quanto ho rubato? Sono sicura di poter scagliare la prima pietra?
Un Uomo ci ha già inchiodati 2000 anni fa: “Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.” (Mt 5,20).
Omicidio, adulterio, giuramenti, giustizia e amore li ha passati al setaccio, non vale usare la grana grossa, se vuoi essere uomo davvero metti una rete finissima, vaglia ogni sfumatura, smaschera ogni nascondimento che sa di scusa, non ci sono attenuanti. L’umano lo trovi dopo aver guardato sotto ogni pietra, dietro ad ogni piega, purificato da ogni ambiguità. Si punta in alto: la perfezione del Padre (Mt 5,48) – il piccolo cabotaggio non porta lontano. Ma siamo di stoffa fragile, di dura cervice, abbiamo bisogno di ricominciare ogni volta da capo e lo possiamo fare perché non abbiamo meno di un Dio, granitico senza esitazioni, dalla nostra parte, fino alla fine.
Ciao Iside,
ebbene, io che sono sicuro, ma supersicuro, “sicuro al limone” diceva un vecchio film parafrasando antiche pubblicità, di non poter scagliare la prima pietra (ma nemmeno la seconda o la terza, e probabilmente nemmeno l’ultima), insomma sarei lì con le mani inerti (e meno male). Di fatto, le frasi in cui Gesù invita alla “perfezione”, se lette con la mentalità egoica, possono portare alla (mia) disperazione. Io non mi assolvo quasi mai, e lo so che è un mio problema…
Allora? Forse, sempre recependo il tuo interessante invito, posso lavorare su questo, e capire dove mi sono incocciato.
Mi aiuta, come spesso fa, Don Giussani: “La santità non è quindi raggiungimento di una perfezione, ma coscienza vissuta di questa impossibilità di perfezione.” Così intesa, mi piace, mi appartiene. E’ mia.
http://www.bergamopost.it/pensare-positivo/cosa-vuol-dire-davvero-santi-cosi-lo-spiego-don-giussani/
Allora posso riprendere a respirare.
Perché qui mi ritrovo, in questa impossibilità, mi ritrovo appieno.
E capisco che lo scandalo del male altrui, è lo scandalo del mio male, che non voglio accettare.
Quello a cui ti opponi persiste, avverte saggiamente Jung.
Siamo di dura cervice, come dici tu.
La cosa bella, rivoluzionaria davvero, secondo me, è che siamo amati proprio così.
Questo non lo “accetto” normalmente, ma quando lo accetto, scende la bella pace.
Marco Guzzi diceva proprio ieri, in una riunione, “non è questione d’esser buoni, qui nessuno è buono”.
Liberante, e solo così possiamo ricominciare da capo, sempre.
Un abbraccio!
In questi giorni sto rileggendo alcuni scritti di Dietrich Bonhoeffer e la tua riflessione mi fa sostare sulla lettera in cui il pastore evangelico, trasferitosi in America, si chiede come potrebbe impiegare utilmente le ore che ha in Germania. A distanza di pochi giorni, in un’altra lettera scrive “La decisione è presa: ho rifiutato”, decide di tornare in Germania poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale.
La sua capacità di concentrarsi su qualunque soggetto, l’avversione per i luoghi comuni e la ferma adesione alla realtà, a tutto ciò che è umano, non lo fanno sentire derubato del tempo ma lo sollecitano a interrogarsi su come impiegare nel modo migliore il tempo che ha.
Più che di tempo io mi sento derubata di pensiero, un furto che ritengo ancor più dannoso per l’essere umano. Diciamo di non avere tempo perché non riusciamo più a rallentare, a fermarci, a concentrarci e ad entrare in dimensioni più profonde di noi stessi in cui possiamo percepire l’istante, l’adesso, la nostra natura spirituale. E’ lì che possiamo tirare un respiro di sollievo e cominciare ad apprezzare il tempo che abbiamo. Lo sperimentiamo nel nostro laboratorio attraverso le pratiche che intensifichiamo nel corso degli anni perché sentiamo di ritornare nel Pensiero, nell’Inizio dove abbiamo la possibilità di ricominciare.
L’Uomo inchiodato in croce 2000 anni fa ha innescato nella storia un dinamismo inarrestabile e il lavoro spirituale mi rende più consapevole di questo e mi sollecita ad utilizzare il tempo che ho per reimparare a studiare, per meditare e pregare, per espandere la mia vita gustando il dono di ogni istante. Vorrei arrivare alla fine di questo passaggio terreno con una fede tanto solida da dire “E’ la fine, per me l’inizio della vita”
Così rispose Bonhoeffer a chi gli diceva addio. Era consapevole del cammino pasquale a cui l’aveva condotto la grazia a caro prezzo offerta ad ogni discepolo di Cristo.
Grazie Iside e un forte abbraccio, Giuliana
Mi veniva da riflettere come nella meditazione cerchiamo la sottigliezza dell’abbandono. Non è un veloce abbandono in massa, ma un graduale rilascio muscolare fibra per fibra, un non attaccamento al singolo preciso pensiero. Allo stesso modo, mi pare, si tratta di affinare i sensi per andare sempre più nelle sfumature dei significati del nostro agire, scoprendone i tranelli e le opportunità.
iside