Pubblichiamo una lettura della poesia “Origine” di Alfonso Gatto, dal blog del gruppo Poetico Insurrezionale www.humuspoetico.it
Felicità che è differita ansietà soltanto. Azzurra felicità, d’insubordinazione stupenda, che balza via dal piacere, polverizza il presente e tutte le sue istanze. (René Char, Fogli d’Ipnos)
Quando l’amore è inesorabile, ovvero, quando l’amore non si lascia vincere da tutte le parole che come preghiere recitiamo mentalmente senza tregua?
Basta uno sforzo davvero minimo di sincerità e se possibile ancor più piccolo di attenzione per ammettere, per accorgersi che siamo continuamente impegnati nella recitazione silenziosa e ossessiva di parole cattive, di rosari involontari, non voluti, il più delle volte spietati.
Dalla nostra mente sembra fiorire continuamente una bestemmia contro la vita in pienezza. Chi non conosce il veleno che non fa godere di una conversazione, di una presenza, di un piatto di lenticchie, di una birra in compagnia? In questo testo involontario, cioè in questo tessuto di parole che commentano la nostra vita, non attecchisce alcun amore, se non per fortuita e rara grazia.
Avete mai visto il sottobosco rigoglioso di una pineta? Certo che no, perché non esiste. Gli aghi di pino formano una trama intricata di aculei che impedisce alla maggior parte delle piante di attecchire in un terreno quasi impenetrabile e reso acido.
Così è spesso la nostra mente: una trama, un testo impenetrabile, senza punteggiatura a dare aria a pensieri più verdi, reso acido da sentenze cui diamo il nostro assenso senza la minima resistenza. Come può fiorire l’amore in questo campo inesorabilmente sterile? A nulla servono le preghiere storte dell’infanzia, che presto abbandoniamo come apriti-sesamo difettosi, inutili. Quale parola può renderci sovrani di un terreno fertile, immune dalle maledizioni che ci fanno spettatori di un pensiero impostore, che nessuno di noi ha scelto?
Cosa sarà poi questo amore? Mai parola è stata ed è più abusata. Pur non sapendo cosa sia realmente, per carità, non rassegniamoci alla solita solfa delle radio, del cinema e dell’industria letteraria. Lo sappiamo, lo abbiamo imparato a nostre spese che non ci basta. La verità, vi prego, sull’amore (Auden): mai titolo più adatto è stato trovato per descrivere l’uomo.
In che modo una poesia può aiutarci a trovare un bandolo da seguire? Credo, in ottima compagnia, che alcuni poeti abbiano scavato un po’ più a fondo, spesso loro malgrado, al di sotto della coltre spinosa della questione. Cosa ci salva? Dove attecchisce un amore che sia davvero inesorabile, questa volta nel senso comune: cioè irresistibile, inevitabile?
Proviamo ad ascoltare le parole di Alfonso Gatto leggendo Origine, poesia tratta dalla raccolta Isola, del 1932 (successivamente espunta):
Origine
Oscuro istinto, armonia
Di risalire in stupore.
Sommessa di favole inerti
La casa pallida:
ai vetri turchini
in volto
accado al mio sogno.
Nella calma eternità
Vivere m’è fantasia,
inesorabile amore.
L’antica memoria continua
A perdere morte.
La prima parola e l’ultima, quelle che incorniciano il componimento, lo inaugurano e lo sugellano, oscuro e morte, sembrerebbero darci un lugubre presagio. A ben guardare, a ben leggere, credo invece che forniscano un icastico ritratto della condizione umana, sospesa tra due oscurità, ma aperta – a partire da suo interno – a una prospettiva più chiara, più luminosa, di risalita.
Il poeta definisce il moto vitale, il moto di risalita, con termini che pertengono all’inesplicabile: istinto, armonia. Non una formula quindi, non una definizione o un calcolo esatto ma una spinta sotterranea, interna, relegata nell’ombra. È un oscuro istinto, un istinto intimissimo quello che dà il la – è il caso di dirlo – all’armonia della risalita che ha come effetto altrettanto incalcolato lo stupore.
In questo territorio interno, dove si genera quella che Weil definirebbe forse grazia, il poeta ci descrive un incontro straniante e assieme di riconoscimento:
Sommessa di favole inerti
La casa pallida:
ai vetri turchini
in volto
accado al mio sogno.
Il paesaggio è sospeso, non rassicurante, quello di una casa pallida, definita come sommessa: ancora un riferimento al campo del suono quindi, che a sua volta non può non richiamare nella mente di chi legge – per associazione anche sonora – l’aggettivo sommersa. Favole, come storie fantastiche solo accennate, incompiute, sussurrate, la caratterizzano. Sembra una situazione bloccata, ma oltre il secondo verso della seconda strofa avviene, ai vetri turchini della casa, il riconoscimento del poeta, che accade al suo stesso sogno. In questa zona interna, dove le favole sono bloccate e inerti, dense come una cappa di nebbia a circondare la casa pallida, il poeta si incontra, accade a se stesso, riconosce il suo volto, forse proprio nelle finestre della casa (un azzardo en passant: sembrano proprio i vetri della pallida donna turchina che salverà il Pinocchio suicida impiccato che doveva concludere bruscamente il romanzo).
L’ultima strofa risolve la poesia, proprio dopo l’incontro inaspettato:
Nella calma eternità
Vivere m’è fantasia,
inesorabile amore.
L’antica memoria continua
A perdere morte.
Il riconoscimento di un volto familiare eppure straniante apre una prospettiva positiva, ed è qui, in questa apertura improvvisa di calma, di calma eternità, che sboccia l’amore inesorabile. È in questo luogo e in questo tempo interni che le favole da inerti si animano e sbocciano, tanto che il vivere, in questo nuovo stato ritrovato, diventa esso stesso fantasia. Ed è un tempo fuori dal tempo: Ecco l’epoca in cui il poeta sente in se stesso levarsi questa forza meridiana d’ascesa (René Char, Fogli d’Ipnos).
La conclusione sorprende eppure è coerente: il riconoscimento da parte del poeta del suo volto interno che accade e schiude vita, fantasia e inesorabile amore è una forma di memoria, di antica memoria. È un “ricordo” quasi campaniano, un ritorno a una forma di se stessi inedita e antica assieme, l’unica viva, al di là di ogni possibile accezione di morte, perché immersa in una calma eternità trans-temporale, e il titolo del componimento, Origine, sembra confermarcelo. Questa memoria ritrovata erode la morte, come per un processo interno di distillazione la lascia andare via, la annienta goccia per goccia (L’antica memoria continua / A perdere morte). Sembrano versi perfettamente consonanti con le parole di Char, che descrive questa esperienza come la porta di tutte le allegrie, e l’esperienza poetica come quella che ruberà davvero la morte, vocabolo che punteggia la storia dell’uomo, vocabolo che il poeta francese sprona a contraddire.
Sembra che quella di Gatto sia una poesia davvero iniziatica, ovvero una poesia che riporta e rivive un’esperienza di morte e rinascita in una forma diversa da quella dell’ego. Non sembra di azzardare in questa ipotesi, le immagini sembrano confermare le fasi di un processo che le mistiche hanno sperimentato e le teologie descritto. La poesia può quindi essere altro, oltre-letteratura, e il poeta può non essere soltanto un letterato, un descrittore del verosimile, un fantasticatore, un masticatore di tristezze, un decoratore delle “verità” dei filosofi.
Cosa può essere il poeta? Può forse essere anche profeta, può cioè parlare per conto di voci altre, realizzando – è il caso di dirlo – inesorabilmente bellezza, anche letteraria. Quanto più scende a fondo tanto più la voce che restituirà sarà vicina al centro, all’accadimento nascente che produce la risalita.
L’amore che ci descrive Gatto non ha niente a che vedere con pappette melense da soap opera: è qualcosa di misterioso e forte, di travolgente, di inquietante, di vivo, di altro.
Di niente di meno abbiamo bisogno oggi che di un’esperienza reale e trasformante di un’inesorabilità creativa, di un’insubordinazione armoniosa, di un campo da sottrarre alla morte che il mondo ci rinfaccia e i media corteggiano come avvoltoi.
A volte, quando la chiacchiera mentale si placa, o quando riusciamo a placarla, davvero il desiderio grande e bello di accadere a noi stessi si avvera, non solo nel sogno.
Grazie, caro Giuseppe!
Questa si che è la ‘critica letteraria’ di cui c’è bisogno: un’introduzione all’uso iniziatico di testi poetici, parole rivelate al poeta stesso, oltre la sua, sempre povera e incompleta, immaginazione.
Parole che possano risvegliare in chi ascolta vera-mente il desiderio infinito che abita il proprio cuore.
Un saluto e continua a nutrirci!
Paola
Caro Giuseppe, non ti conosco, ma ti avverto giovane, pieno di energia e profondo.
I versi poetici che hai qui riportato e commentato arano la nostra anima, la sconvolgono, tirano fuori semi rimasti sepolti, la preparano ad accoglierne altri e a farli fruttificare. Stamane sono contenta per averti letto: talvolta non basta il discorso prosaico: ci vuole quello poetico. Anche per comprendere che l’amore di Dio è implacabile, come troppo non sono i poveri amori che spesso cerchiamo e… ci fermiamo lì.
Mariapia
Grazie davvero, Giuseppe, per la profondità della tua lettura poetica “iniziatica”!
Non conoscevo i versi : Origine di A.Gatto.
Il tuo accostamento coi versi di R.Char li illumina facendoci gustare la forza creatrice misteriosa, profetica, terapeutica e contagiosa della Parola che spinge dall’interno e ci consegna un Amore inesorabile, una Gioia originale che ci salva dalla paura della morte e del morire. Grazie per la tua profonda lettura poetica che sa mettersi in ascolto e si fa Ponte risonante di esperienze di infinito e trasformante desiderio di Vita che, gratuita e inesorabile, continua ad accadere.
Un caldo saluto a te e al gruppo Poetico insurrezionale!
Giuseppina
Mi piace quel “desiderio grande e bello di accadere a noi stessi” ( quando la chiacchera mentale si placa)…è l’aprirsi di una possibilità che ordinariamente non consideriamo nemmeno più, intossicati e anestetizzati come siamo dai veleni di quella
chiacchiera!
Grazie Giuseppe, ci hai rinnovato il desiderio di respirare aria più pulita…mcarla
Molto belli il commento e la poesia.
Io fra l’altro vivo a Salerno e sono buon amico della nipote di Alfonso Gatto, un poeta a mio avviso fra i più sottovalutati. Non compare, se non di striscio, nelle antologie; e gli vengono preferiti, a livello scolastico ma anche, mi pare, universitario, poeti a mio avviso di ben minore caratura, che non posseggono quest’ampiezza e profondità, questo respiro spirituale, metafisico e al tempo stesso ben incarnato nel quotidiano.
Grazie per la stimolante proposta.
Enrico
“L’Azzurra felicità” di René Char si sposa con i “vetri turchini” di Gatto. Sembrano momenti di improvvisa consapevolezza, descritti con due sfumature di blu che è poi il colore della verità e della pace. Mentre nel primo la felicità irrompe prepotente, nel secondo “l’inesorabile amore” nasce da una “calma eternità”. Due modi di vivere un’emozione rigenerante.
(Azzeccatissimo il riferimento alla donna turchina di Pinocchio).
Bellissima poesia della quale è stata fatta una pregnante lettura. Complimenti, continuate così, questa è vera insurrezione.
Una lettura veramente nutriente. Bellissima la poesia di Gatto, e molto vivido e pregnante il commento di Giuseppe.
Confesso che, dal punto di vista di chi prova a fare versi, scrivere una poesia che fosse bella anche la metà di questa, sarebbe un sogno celeste! Ma non è triste, è invece bello, molto bello, avere maestri da cui imparare, da seguire. Sapere che c’è molto di più, ancora molto di più, c’è una strada bella aperta da percorrere.
La bellezza della poesia veramente riverbera un’armonia profonda di tutte le cose, che sopravvive perfino alla “recitazione silenziosa e ossessiva di parole cattive, di rosari involontari” (che bella questa critica letteraria che non dimentica, finalmente, la condizione umana, non dimentica la “carne” dolente, ma anzi – come in ogni seduta di meditazione – parte espressamente da lì: altrimenti, penso, sarebbe un’ulteriore menzogna).
Non voglio aggiungere altre parole, sono già bellissime quelle della poesia e del commento.
Grazie.
Grazie a tutti per i commenti, più la leggo, questa poesia, più mi risulta sfuggente, viva, indecifrabile nel fondo. Bello che dopo un’analisi (ecco un po’ di virgolette: “”””””) certa poesia si richiuda in se stessa, nella sua unità sintetica, come se si avvolgesse in un grande mantello – il suo senso, la sua bellezza -, con grazia e riserbo. Quanto dolore da sommersi, quando non c’è risalita, stupore. E’ triste non riuscire ad accadere a se stessi, a non raccogliere il bandolo della memoria più antica. Dell’amore cosa rimane? Qual è il contrario dell’inesorabilità? Il fatto di essere opzionale, non necessariamente conseguente? Ci rifletto ancora: “inesorabile” (attributo dell’amore di cui scrive Gatto) è forse l’attributo di qualcosa che non cede, non consegue a preghiere-richieste (in – ex- orabilem), ma è invece inevitabile, gratuito, slegato da una richiesta? Ce ne basterebbe poi una goccia, di morte, in meno. Forse la pratica meditativa e il lavoro contribuiscono a bucare il fondo delle nostre anime calafatate, ad aprire una falla. E la pesantezza, si sa, cola verso il basso. Chissà.