Siamo noi la locanda in cui vogliamo essere accolti (Rūmī)
Gialāl ad-Dīn Rūmī è stato un poeta di origine persiana vissuto nel XIII secolo, fondatore della confraternita sufi dei dervisci rotanti, monaci islamici che adottano un rituale di danza come via per raggiungere l’estasi mistica. In questo articolo, dopo l’introduzione, verrà presentata una sua famosa poesia intitolata “La locanda”. Molte delle “Poesie mistiche” di Rūmī nascono da una profonda conoscenza dell’animo umano, e per questo sono ancora attuali, possono vibrare e risuonare anche nel lettore contemporaneo. Come se i secoli che ci separano dalla loro stesura non abbiano avuto modo di scalfire la verità di quei versi. Tempo e spazio sono concetti concreti, ma anche relativi quando in gioco è l’essenza umana, così radicata nella storia, incarnata, ma mai riducibile a qualcosa di meramente materiale, misurabile nel qui ed ora della sua rappresentazione. Heidegger scriveva che l’Essere (Sein) è in realtà sempre un esser-ci (Dasein): noi non siamo solo degli enti, degli oggetti con una collocazione nel mondo, con un certo peso, altezza, ma siamo abitati anche da una dimensione che ci trascende e che non cessa di parlarci.
Partiamo da un dato: certamente la voce che ci giunge, in modo spesso inaspettato e involontario, non è sempre e subito piacevole. Come Cremete, il protagonista della commedia di Terenzio intitolata Heautontimorumenos, anche noi vorremmo dire: homo sum, humani nihil a me alienum puto. Siamo uomini, nulla di ciò che riguarda l’umano ci è estraneo.
E cosa ci comunica, di cosa ci parla questa voce che ci trascende – nel senso che travalica i limiti fissati dal nostro controllo razionale – e che spesso ci disturba? Sì, spesso è proprio quella brutta sensazione che ci coglie la mattina, appena svegli, e che scacciamo subito perché il mondo ci chiede di essere efficienti e scattanti. Spesso finiamo per assecondare uno di quei diktat che la nostra società (una società fintamente tollerante, ma al contrario radicalmente violenta nei confronti dell’umano, come sosteneva Pasolini) ci impone: dobbiamo funzionare, non esistere. In questo modo la nostra giornata, però, è come se partisse da un qualcosa di inautentico, condizionando tutti i momenti e gli incontri successivi. In totale opposizione al mainstream, noi scegliamo qui, ora, di tornare alla nostra esistenza. Questo è sempre un grande atto di ribellione, di sana indisciplina, e non dovremmo mai dimenticarlo, anche quando ci dicono che in realtà la trasgressione consisterebbe nel comprarsi un paio di jeans strappati o una maglietta di marca con sopra scritto break the rules. La vera libertà, la vera trasgressione, quella che ci conduce oltre una legge oppressiva ma per liberarci davvero, in fondo nasce dal nostro essere onesti con noi stessi, mettendo al centro della nostra vita poche e semplici domande: come stiamo ora? E: cosa ci fa davvero essere felici?
Ora passiamo ai versi di Rūmī della poesia intitolata “La locanda”, e cerchiamo di gustare le parole senza finzioni e nemmeno proiettandole all’esterno, ma assimilandole dentro di noi, in ciò che accade nella nostra esperienza quotidiana. Qui infatti si parla proprio della persona umana, di noi:
L’essere umano è una locanda,
ogni mattina arriva qualcuno di nuovo.
Una gioia, una depressione, una meschinità,
qualche momento di consapevolezza arriva di tanto in tanto,
come un visitatore inatteso.
Dai il benvenuto a tutti, intrattienili tutti!
Anche se è una folla di dispiaceri
che devasta violenta la casa
spogliandola di tutto il mobilio,
lo stesso, tratta ogni ospite con onore:
potrebbe darsi che ti stia liberando
in vista di nuovi piaceri.
Ai pensieri tetri, alla vergogna, alla malizia,
vai incontro sulla porta ridendo,
e invitali a entrare.
Sii grato per tutto quel che arriva,
perché ogni cosa è stata mandata
come guida dell’aldilà.
Rūmī inizia con il paragonare, attraverso una similitudine, l’essere umano ad una locanda che ogni mattina accoglie qualche nuovo avventore. Immaginiamo un luogo di passaggio, magari anche periferico, chissà, in una via buia e isolata, dove il locandiere non possa mai sapere chi stia per entrare. Nella locanda, chiunque arrivi viene effettivamente fatto entrare, perché è nella sua funzione e natura quella di accogliere i forestieri, i viandanti, anche se il locandiere non li conosce, e potrebbe in effetti lasciare entrare anche un ladro, senza nemmeno sospettarlo. Anche noi, se ci guardiamo onestamente, siamo costretti ad ammettere che la vita ci spinge sempre, e continuamente, ad aprirci, ad aprire le nostre porte. Siamo animali sociali, come scriveva Aristotele, e lo siamo che lo vogliamo o meno. Anche chi scelga di isolarsi dal mondo, non necessariamente in un eremo in montagna, ma magari in una delle tante “celle” che ormai costituiscono il tessuto sociale urbano, in qualche modo non è mai padrone in casa propria, deve fare i conti (e spesso in maniera anche più radicale!) con fantasmi, voci sconosciute che lo appellano, come da tempo ha rivelato la psicoanalisi. “Il nome dell’uomo è legione”, scriveva il mistico armeno Gurdjieff. Siamo sempre in dialogo con una dimensione altra, che sfugge al nostro dominio.
Se è vero quindi che anche noi, come scrive Rūmī, in fondo siamo una locanda, e cioè siamo continua-mente aperti al nuovo, a ciò che sopraggiunge, senza volerlo, che sia una sensazione piacevole o spiacevole, oppure un incontro inaspettato, e anche vero che la nostra reazione immediata è spesso quella di chiudere le finestre e le porte, possibilmente a doppia mandata, proprio per evitare questa possibilità! Il visitatore inatteso può essere “una gioia”, ma anche “una depressione” o “una meschinità”! Perché dovremmo accoglierlo? Siamo forse masochisti? Non è meglio chiuderci dentro, sigillare il nostro Io, tenere gli altri a distanza, scansare le sensazioni negative e preservarci dal rischio di qualcosa che minacci la nostra pretesa di controllo?
Come un riflesso ancestrale, o come la storia iscritta nelle nostre cellule da traumi e ferite dell’infanzia, replichiamo spesso un atteggiamento di totale chiusura nei confronti di quella “folla di dispiaceri” che talvolta compare, si affaccia alla nostra veglia diurna, e sembra metterci in pericolo. Qui è il caso di notare come nella stessa etimologia latina di esperienza (da ex–perior) risieda la nozione di “pericolo”. L’esperienza, qualsiasi esperienza umana, è cioè sempre una prova attraverso cui passare, sia che ci appaia nei termini di qualcosa di negativo o di positivo. Molto probabilmente, fin da piccoli noi tutti siamo stati educati al rifiuto di ciò che ci turba: l’espressione della nostra rabbia o della nostra paura forse non erano consentite negli ambienti in cui siamo cresciuti. O, anche, ci arrivava il messaggio che per essere accettati dovevamo mostrarci insensibili a ciò che ci faceva sentire vulnerabili, forzando così in modo prematuro il nostro sviluppo emotivo, fingendo un controllo delle emozioni che in realtà le inibiva, le comprimeva in tensioni mentali e muscolari.
Rūmī, con i suoi versi, ci vuole suggerire che ora possiamo decidere di comportarci diversamente, ora siamo pronti a farlo. Ora possiamo scegliere di mollare la presa, lasciando andare questa pretesa di controllo, sotto la quale covano in realtà emozioni caotiche a cui nemmeno sappiamo più dare un nome, ma che rispuntano fuori quando l’ego abbassa la guardia (come la mattina appena svegli), aspettando di trovare la porta aperta. E cosa portano con sé queste emozioni, all’apparenza destabilizzanti e distruttive? Non lo sappiamo, non lo possiamo prevedere né calcolare, ma forse, per dare un senso al dolore e al malessere che talvolta proviamo, potremmo iniziare a credere che quel “qualcuno di nuovo” che arriva, non giunga per caso, che sia invece un ospite da accogliere con grazia, “con onore”, perché “potrebbe darsi che ti stia liberando in vista di nuovi piaceri”.
Possiamo provare a vivere così? Cosa abbiamo da perdere? Possiamo provare a “dire di sì” al viaggiatore che arriva, possiamo scegliere ora di fare la festa a quel viandante abbattuto, arrabbiato, disperato, sconfortato, che bussa alla nostra porta e forse non conosciamo ma che forse siamo un po’ anche noi, e che solo nel nostro abbraccio può finalmente sciogliere le proprie paure e iniziare a ridere di gioia con noi?
Grazie Filippo. Lo vedo anche io che quel viaggiatore sconfortato, abbattuto ,o solo un po’ depresso, che arriva all’improvviso, senza un perchè apparente, è una parte di me che di primo acchito proprio non mi piace, la voglio respingere, non la guardo nemmeno. Come? Magari con delle distrazioni, me ne vengono offerte in quantità…….poi sto meglio ma…. il viandante è sempre la, da solo, nessuno lo ha ascoltato, e nemmeno ha cercato di comprenderlo. Chi, se non io per primo, lo dovrebbe accogliere? Un abbraccio. Giampaolo.
Certo, siamo una legione, come diceva G, riprendendo l’episodio dell’indemoniato narrato nei Vangeli, ma io noto lo stesso viandante tornare e tornare … più lo allontano e più mi possiede … più cerco distrazioni e più penetra nella mia carne, d’istinto provo repulsione per lui e non riesco a volergli bene … per cui grazie per averci ricordato questo fatale errore!
Caro Francesco,
intanto i complimenti per questo bellissimo post.
Tante cose mi si muovono dentro, tanti sono i temi che tu affronti, con sopraffina grazia direi. Ne afferro solo uno, per non sbordare, non farlo troppo, almeno. “Dire di sì”, accogliere in prima istanza quello che ci arriva, sembra cosa molto saggia. Purtroppo non ci siamo molto abituati, proprio come impostazione culturale, e purtroppo direi religiosa, siamo abituati a giudicare e soprattutto giudicarci, e innanzitutto a condannarci, in una rincorsa verso l’ideale – irraggiungibile con le nostre forze – spesso spinti da tanta predicazione spicciola, che non va al cuore dell’uomo ma usa dell’uomo (deliberatamente o no) per colpevolizzarlo.
Condannandoci, peraltro, non superiamo i nostri difetti ma li fossilizziamo, come dicono tanti, da Marco Guzzi a Raffaele Morelli. E come hanno detto molti santi.
Chiunque si imbatte in cristiani che dicono “Sì Dio mi vuol bene, ma io dovrei, io non sono capace, io…” e quel che colpisce è la lacerazione continua, quel rumore di fondo costante che recita quella “male-dizione” che suona come un “tu non vai bene”, “tu non sei OK”. Li troviamo intorno a noi, e dentro di noi. Credo che il difetto di tanti cristiani sia l’accoglienza… di sé stessi.
Già Jung avvertiva, lucidamente “Ma se io dovessi scoprire che il più piccolo di tutti, il più povero di tutti i mendicanti, il più sfacciato degli offensori, il nemico stesso è in me; che sono io stesso ad aver bisogno dell’elemosina della mia bontà, che io stesso sono il nemico d’amare, allora che cosa accadrebbe? Di solito assistiamo in questo caso al rovesciamento della verità cristiana. Allora scompaiono amore e pazienza, allora insultiamo il fratello che è in noi, allora ci condanniamo e ci adiriamo contro noi stessi, ci nascondiamo agli occhi del mondo e neghiamo di aver mai conosciuto quel miserabile che è in noi. E se fosse stato Dio stesso a presentarsi a noi sotto quella forma spregevole lo avremmo rinnegato mille volte prima del canto del gallo.”
Questo, direi, nonostante la vera religiosità sia innanzitutto nel “non giudizio”. Dice infatti Giussani, che <>
Dunque il primo “migrante” da accogliere è già in noi, è già nel nostro perimetro corporeo e chiede ospitalità. In questo periodo di muri, di esclusioni e decreti sicurezza, apriamo invece un decreto di familiarità, proviamo ad abbracciarlo, questo migrante. Per me è proprio difficile, difficilissimo: mi dicessero, abbraccia la parte che più ti ripugna di te stesso, onorala. Veramente un compito dell’altro mondo. Imparare ad amare, appunto. Così bello il compito, che anche fallire è già molto.
Recita infatti una bellissima poesia di Davide Rondoni,
Voler bene a uno, a mille, a tutti
è come tenere la mappa nel vento.
Non ci si riesce ma il cuore
me l’hanno messo al centro del petto
per questo alto, meraviglioso fallimento.
Rumi ci insegna, come impariamo nei corsi, che possiamo innanzitutto imparare a “mollare la presa”, lasciando così ad un Altro Potere di operare, finalmente. E’ un lavoro lungo e difficile, ma rende lieti, leggeri.
Grazie per questo post che ci insegna che c’è qualcosa più profondo che il nostro stesso giudizio, e che siamo tutti migranti in attesa di accoglienza. E’ un tema bello da riprendere, e riprendere ancora. Un tema con straordinaria attualità, sia sociale che esistenziale.
Un abbraccio.
Scusate, mi accorgo rileggendo il mio commento, che per qualche motivo è saltata la citazione di don Giussani!
Eccola,
“Nel Regno di Dio non c’è nessuna misura, nessun metro. “Nessuno giudichi, perchè Dio solo giudica”. San Paolo dice anche: “Io non giudico nessuno, neanche me stesso”. Solo Dio misura tutti i fattori dell’uomo che agisce e la sua misura è oltre ogni misura: si chiama misericordia, qualcosa per noi di ultimamente incomprensibile.”
Da “Generare tracce nella storia del mondo” (Rizzoli)
Grazie infinite,Filippo,per questo meraviglioso post,l’ho letto e gustato per ben due volte.Adesso prendo una tisana e vado a dormire nella mia locanda portando con me le parole di questa poesia. Preferisco alimentare la mia anima leggendo queste toccanti parole invece di subire la superficialita’ di molti programmi televisivi. Buona notte. Elisabetta.
Scusate, vorrei lasciare anch’io qualcosa che scrissi qualche giorno fa, ed inerente a questo bellissimo “Pensiero” che Filippo ci ha donato … è un post di riflessione che ho condiviso con amici, dove ho “attinto” molto da un mio Maestro e frate -Monaco OSM Giovanni Vannucci, riporto alcune cose:
… La gratitudine è quel potere che conduce l’uomo ad una “Connessione più profonda” con la “Vera” natura delle cose.
Provare gratitudine per le piccole cose e per quelle grandi.
Ci capita spesso di comprendere la reale importanza di una cosa quando la perdiamo; ma non altrettanto spesso di essere grati perché quella cosa l’abbiamo.
<>
Quando per esempio entriamo PREGANDO nella GRATUTUDINE e LODIAMO il nostro Dio:
il nostro “INTIMO”, lo strato più profondo SPIRITUALE (lo dice San Paolo) si “TRASFORMA” “Ri-trovando la parte più Vera dell’Uomo” e ci fa esclamare:
<> … <> Lettera ai Galati capitolo 4 versetto 6.
Perché la gratitudine genera Fede … la Fede genera aspettativa e l’aspettativa, forma di DESIDERIO positivo, vi fa pensare a eventi e situazioni che si SPERANO ACCADANO. (anche della Speranza abbiamo parlato).
La gratitudine-preghiera è anche un meccanismo di “purificazione interna” che ci consente di fare “pulizia” di tutta la NEGATIVITA’ che abbiamo dentro:
pensieri, comportamenti, immagini mentali, etc.
In definitiva la gratitudine-preghiera è un potente catalizzatore di BEN-ESSERE integrale della PERSONA.
“PREGHIERA di GRATUTDINE” chiamo ciò che alcuni Maestri mi hanno INSEGNATO.
Quella PREGHIERA che fa della <> e <> le VIE di accesso REGALI alla PERCEZIONE del MISTERO che VIVE e si ESPANDE in tutte le cose.
Quella che ti avvicina alla SACRALITA’ della Vita con “l’occhio” affinato e il “cuore” in COMUNIONE …
per individuare sotto il VELO delle APPARENZE il SENSO della REALTA’ effettiva delle cose e varcare la soglia della SUPERFICIALITA’.
I Maestri la chiamano:
<>.
“Visione” dell’UNITOTALITA’ che solo la mente CONTEMPLANTIVA operante per ASCOLTO e PARTECIPAZIONE può offrire e NON la RAGIONE CALCOLATRICE:
<>.
Così diceva il monaco-frate Giovanni Vannucci mio Maestro.
Preghiera frutto di una FEDE che non è intesa come sentimentalismo, ma come CONSAPEVOLEZZA:
<>.
Rendere attento il nostro “orecchio” in “ATTESA ACCOGLIENTE FATTIVA” che lo “Sposo” arrivi; Ri-torni escatologicamente parlando.
(Escatologia=Dottrina proposta in ambito religioso o filosofico riguardo ai destini ultimi dell’uomo e dell’universo.)
Inoltre, Padre Vannucci ci dice nelle sue meditazioni:
<>.
Un unico ANELITO: <>.
Essa AVVIENE:
-e questa è per me la sua EREDITA’ più importante che mi ha (a noi) lasciato-
“NELLA BELLEZZA DEL VOLTO DI CRISTO”.
La cui CONTEMPLAZIONE è capace di TRASFORMARE l’uomo nella sua realtà di Carne e Spirito; RISVEGLIANDOLO alla realtà di essere creato a IMMAGINE e SOMIGLIANZA.
<>.
Così esulta questo monaco indomito.
Il Lavoro Umano dovrebbe diventare un <>; un riconciliare in noi “terra e cielo” TRANSUSTANZIAZIANDO la carne nello Spirito, fondendo gli elementi che ci compongono nella fiamma dell’Unità.
Lavoro di ASCESA e PERFEZIONAMENTO -Dono di Lui Gesù- che porta la CONDIVISIONE AGAPICA (vedere Atti degli apostoli).
Grazie alla COMUNIONE con CRISTO e al RAPPORTO che l‘uomo istaura con Lui, si avverte una profonda ARMONIA con il creato e diventa possibile la DILATAZIONE sconfinata della COSCIENZA.
La REALTA’ di Cristo AGISCE nell’intimo umano come un Fuoco purificatore che distrugge ogni nostra resistenza e barriera.
Ci Spoglia dai RIVESTIMENTI dei molti <> con i quali di solito gli uomini CONFONDONO la loro <> che in se stessa è INCOMPLETA.
Padre Giovanni coglie nel mistero della vita qualcosa che si trasforma continuamente:
<>
In uno dei suoi scritti più caratteristici egli sostiene esserci nella creazione due fondamentali leggi:
quella della «stabilità fissa», che produce i generi e le specie viventi, quella dell’«eccezione», che pone il germe di nuove fioriture.
La prima è la tendenza profonda a rendere permanente la novità raggiunta nelle forme precedenti.
La seconda è il movimento vitale originale e inarrestabile.
Il contrasto tra le due leggi genera l’ascesa a spirale di tutto il creato.
FONDAMENTALE, per me, anche la coscienza umana risponde a questo dinamismo intrinseco, ma essa ha in più la forza della CONSAPEVOLEZZA, che può favorire e orientare il processo a seconda della maggiore o minore partecipazione alla legge divina.
Il processo di ascensione è sostenuto da «testimone fedele» dell’intimo umano, che permane in ogni nostro cambiamento.
È così che:
<>
Una cosa che e dove, personalmente ho faticato tantissimo a compiere, e riconosco che sicuramente ne avrò in futuro, di resistenze enormi:
Occorre discendere nei propri PERSONALI INFERI dove la coscienza, una volta sperimentata la luce della purificazione e nutrita del Pane celeste (Eucarestia), può affrontare l’INCONTRO con la sua OMBRA e con quella del mondo.
La scoperta dell’ombra è SCONVOLGENTE, ma non ci si deve scoraggiare.
Per Dio, infatti, anche le TENEBRE sono CHIARE come il GIORNO.
Nella “vita spirituale” ogni ASCESA porta in sé una DISCESA; perché ciò che non è assunto non è REDENTO (come dicono i Padri della Chiesa).
<>
Vi lascio con i libri da cui ho tratto molte di queste riflessioni fondamentali per il PERCORSO che ho intrapreso e che con voi condivido.
Il quadro dipinto da mia moglie è il mio preferito, esso è LUOGO e Fonte di molte mie meditazioni e preghiere che mi aiutano; si intitola :
“Ecce Homo”.
Diviene richiamo a ciò che oggi abbiamo scritto con fatica;
ma anche estrema GIOIA e GRATITUDINE.
Ezio
Agli amministratori … Scusate ma ho visto che non prende e pubblica gli scritti messi fra <> … in questo modo essi vengono sfalzati e non si capiscono le cose più importanti … grazie
Ezio
Per chi è paziente ecco qua le scritte mancanti all’interno delle <> su il pensiero di Giovanni Vannucci.
Ezio
-Noi siamo esseri pensanti che prendono la “forma” di ciò che si pensa.
-E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre
-QUALITA’ – PROFONDITA’
– TRASFIGURAZIONE dell’UOMO
– Per avanzare nella comprensione del creato non è la testa che dobbiamo usare, ma il “cuore” onde divenire sensibili al Mistero di ogni creatura
– Ossia come Forza e Penetrazione nell’ANIMA; essa è la via della cosciente meditazione sui contenuti della propria “esperienza religiosa”(da fare tutti, cherici, consacrati e laici), è il cammino che conduce dalla “lettera” allo “Spirito”, dall’organizzazione esteriore alla sua interiorizzazione, dai dati della “lettera” all’Epifania dello Spirito
– Ossia come Forza e Penetrazione nell’ANIMA; essa è la via della cosciente meditazione sui contenuti della propria “esperienza religiosa”(da fare tutti, cherici, consacrati e laici), è il cammino che conduce dalla “lettera” allo “Spirito”, dall’organizzazione esteriore alla sua interiorizzazione, dai dati della “lettera” all’Epifania dello Spirito
– L’unificazione Interiore
-E’ il “Fuoco centrale” la cui esperienza è riportata nella “FILOCALIA” (vedere post del 25 settembre 2018 sulla semplicità), è la ricerca del “Centro Vivente” del cuore che, unificando ed esaltando tutte le energie dell’uomo, lo pone al di fuori del disordine e dello smarrimento il quale viene sperimentato nella nostra realtà personale e in quella cosmica. E’ la PAROLA ETERNA discesa nella carne e porta un NOME, superiore ad ogni altro nome (Atti): GESU’ il SIGNORE
– SACRUM FACERE (rendere Scaro)
– io
– Coscienza essenziale
-vita è la risultante di vigorose forze in espansione e di altrettante energie di resistenza e di opposizione, essa è presente nelle une e nelle altre … Senza questo conflitto la vita non sarebbe che una pietrificazione, una sclerosi universale
– stabilità fissa
– eccezione
– testimone fedele
Grazie a tutti voi per i vostri commenti! In fondo anche le vostre parole di ringraziamento mi aiutano ad accogliermi un po’ di più… Che libertà dà il potersi spogliare di tutte le maschere e sentirci accolti per ciò che siamo. Filippo