A forza di sentirci dire che il corpo e l’anima sono separati, alla fine ci abbiamo creduto davvero: il corpo, esito di cadute nel mondo materiale; l’anima, espressione della sostanza divina. Un equilibrismo tra disprezzo ed apprezzamento, bastone e carota.
Nei secoli, abbiamo messo sempre meglio a punto il valore della persona nella forma con cui ci si mostra. La scienza moderna ci ha insegnato a distanziare lo sguardo, ad osservare l’oggetto senza troppi coinvolgimenti. Così la persona si è fatta individuo/oggetto, pezzo di carne da mettere sotto il microscopio, mentre da secoli ci si divertiva a sbudellare cadaveri per vedere che cosa ci fosse dentro.
La lontananza però ha raggiunto ora un livello non più sostenibile. Ma ci manca il linguaggio, la parola che ci riporti a misura di uomo.
Io sono il mio corpo, il mio corpo definisce la mia identità, ma non riuscendo a vedere oltre la barriera della pelle, ci affanniamo smaniosi per tenere in perfetta forma il suo aspetto visibile ad occhio nudo. Ginnastica a tutte le età, sport estremi che facciano apparire la nostra prestanza. Ogni sbavatura dal modello, spacciato come originario, viene biasimato con sdegno che si fa foraggio per l’industria della chirurgia estetica. Pare che per aumentare l’autostima ci si debba raddrizzare il naso, riempire i glutei o ridurre la pancetta, poi le rughe, per carità!, subito botulino pronto intervento…
Dopo tanto sforzo è davvero un peccato morire e mollare tutto questo, perciò meglio farsi ibernare in attesa che qualcuno ci resusciti avendo scoperto nuove cause di vita. La resurrezione, come desiderio, ci abita prepotentemente, segno di impulso incrollabile che la vita abbia una potenza propellente oltre l’orizzonte terrestre. Rivisitata in versione ridotta fa urlare allo scandalo del materialismo gli spiritualisti. In effetti, però, se si sta su queste altitudini, è volare piuttosto basso.
Allora sterziamo sull’altro versante, recuperiamo l’anima ma la facciamo sgusciare fuori dal corpo. Si sente spesso riferirsi al rapporto tra corpo e cervello come se il cervello non fosse una parte del corpo. Il sistema nervoso è così particolare che la tentazione è quella di offrirgli uno statuto speciale, potrà mica mescolarsi con i polmoni! Poi proviamo a spiegarci il suo funzionamento e ben presto entra in scena la mente: non potendole assegnare un luogo preciso nel cervello, iniziamo il processo di distacco. Arrivati alla coscienza, o meglio, nell’uomo all’autocoscienza, siamo davvero spiazzati e allora preferiamo giocarci la carta del soprannaturale. L’uscita è completata e la scorporazione compiuta: la coscienza verrebbe da altrove, costretta suo malgrado a stare in un corpo ristretto.
Si fa più che mai urgente, allora, la riappropriazione del corpo ad un nuovo livello, la discesa nelle sue profondità, la valorizzazione delle intime connessioni tra le sue parti per farne un’unità davvero compatta.
E proprio quella scienza che ci ha oggettivati in un corpo morto potrebbe ora aiutarci a trovare nuove letture.
Neuroscienziati come Antonio Damasio mostrano bene come le separazioni siano fittizie e le distinzioni solo superficiali. La vita ha una forza interna, l’omeostasi*, che la proietta in avanti, nel futuro, propiziandone l’affermazione. La fitta incessante comunicazione tra le cellule costruisce i piani della vita, ne organizza le gerarchie dove nulla di prezioso va perduto. Le conquiste antiche di 4 miliardi di anni, da quando la vita comparve per la prima volta sul nostro pianeta, non vanno sprecate, si fa tesoro di tutto e si aggiungono nuove acquisizioni e nuove funzioni che cercano spazio e trovano riconoscimento tra ciò che già esiste, per continuare a mostrare l’inedito ad ogni passaggio.
Il modello biopsicosociale dell’attività della mente e della rappresentazione del corpo ridà dignità a percezioni ed emozioni grazie alle quali possiamo costruire uno schema corporeo e poi l’identità personale integrata.
La medicina che si lasciasse interpellare da una prospettiva del genere avrebbe molto da dire su un nuovo modo di prendersi cura di un nuovo uomo che esiste soltanto se in relazione.
Dalla chimica intracellulare, alle vie di coordinazione del sistema nervoso, dalle relazioni con gli oggetti esterni alle relazioni con le persone affettivamente vicine, alle relazioni tra società e culture diverse, fino alla relazione ultima che le raccoglie tutte e che le rende possibili, quella con la Trascendenza: la relazionalità è la nostra essenza. Il corpo umano è il luogo dell’incontro.
* “L’omeostasi è l’insieme fondamentale di operazioni al cuore della vita, dall’istante primordiale e svanito da tempo, della sua origine nella biochimica primitiva al presente. L’omeostasi è il potente imperativo, inconsapevole e inespresso, il cui assolvimento implica per ogni organismo, piccolo o grande che sia, il semplice perdurare e prevalere. La parte dell’imperativo dell’omeostasi riguardante il “perdurare” è chiara: genera sopravvivenza e viene data per scontata senza alcun riferimento o riverenza ogni qualvolta si considera l’evoluzione di qualsiasi organismo o specie. La parte di omeostasi riguardante “il prevalere” è più sottile, e raramente viene riconosciuta. Garantisce che la vita sia regolata entro un intervallo che, oltre a essere compatibile con la sopravvivenza, favorisca la prosperità e renda possibile una proiezione della vita nel futuro di un organismo o di una specie.”
(Antonio R. Damasio, Lo strano ordine delle cose, Adelphi, 2018, pag 37)
Grazie carissima Iside,
è sempre più urgente questa rivalutazione del corpo, e dell’unità profondissima dell’uomo, oltre le separazioni artificiose e irresistibilmente attratte verso una certa “eresia” vorrei dire (perché l’Incarnazione ci parla profondamente del valore del corpo – proprio come ho imparato in Darsi Pace – e della sua unità con ogni aspetto della persona umana).
Svalutare il corpo, come certa malintesa spiritualità ci ha purtroppo suggerito, o “deificarlo” con i trattamenti di bellezza e “anti-age” ad oltranza, fino a consumarsi in una negazione accanita del fattore tempo – come avviene purtroppo in diversi casi – alla fine è segno, opposto in direzione ma uguale nella sostanza, di un rapporto problematico con la materialità, con la carnalità. “Il Verbo si è fatto carne” (Gv 1,14) spesso ci mette in crisi, se solo verifichiamo quanto ci crediamo veramente, non solo che sia avvenuto, ma che possa avvenire. E’ la rivoluzione copernicana perpetua di ogni nostro schema di pensiero, a rifletterci.
La cura è una cura anche da tante tossine che il mondo laico e non ci ha inoculato, a volte con buone intenzioni, ma sempre con effetto negativo. La cura è paziente, imparare a guarire anche qui, richiede costanza, riflessione, adesione ad un lavoro cordiale.
Legherei questo tuo post, idealmente, con le tematiche che ospitammo su AltraScienza, al post quasi omonimo, http://www.altrascienza.it/2016/10/corpo/
Ricordo sempre un testo di conversazioni di Don Giussani, che si chiama significativamente “Vivendo nella carne”. In certi casi già i titoli dei libri sono materia di riflessione, sono nutrimento per il pensiero, così spesso distratto.
Grazie!
“…la relazionalita’ è la nostra essenza. Il corpo umano è il luogo dell’ incontro”!
Carissima Iside, concordo pienamente su quanto hai scritto prima delle conclusioni a cui sei giunta (e che ho riportato), me le tengo bene in mente e, come un mantra, me ne serviro’ ogniqualvolta mi renderò conto di stare per cadere nella trappola della “scorporazione” … (fosse facile ?)
Hai scritto bene, occorre riappropriarsi del corpo ad un nuovo livello, discendere più in profondità per cogliere le intime connessioni che uniscono le sue parti…hai prefigurato un atteggiamento nuovo in un uomo nuovo ( e un’ altra novita’ sarebbe quella che ognuno di noi coltivasse questo nuovo atteggiamento non delegandolo solo agli ‘specialisti’…).
Un caro saluto,
mcarla
Corpo, anima, persona, individuo, carne da osservare al microscopio: non ne possiamo più di questa disintegrazione dell’essere umano, di questa lontananza da noi stessi che ci disumanizza e ci fa soffrire.
Siamo parcellizzati, manipolati, denudati e disillusi, siamo stanchi di chiacchiere, abbiamo bisogno di parole che tornino a farci vibrare, a riunificarci, parole poetiche che abbiano la forza di metterci in movimento.
Bisogna tornare a pensare e a parlare da un ascolto interiore, scavato nelle fibre più povere della nostra umanità che si lascia invadere dalla potenza dello Spirito, bisogna rinunciare a parlare in proprio perché attraverso le nostre povere parole transiti la Parola che si incarna, capace di compiere sintesi ed integrazioni inaudite.
Questo è ciò che sto imparando in Darsi pace e credo sia la strada da percorrere per rianimare la nostra vita, le nostre relazioni, per tornare a sentire e riscoprire la bellezza e la forza del Corpo che vive e continua a pulsare nei nostri corpi sempre più sofferenti.
Grazie Iside, davvero interessante il libro di Damasio.
Ti abbraccio.
L’educazione “cristiana” che ho ricevuto mi ha inculcato una modalità di vivere improntata ad una spiritualità disincarnata. Solo in Darsi pace ho scoperto, attraverso l’esperienza dell’integrazione fra i tre livelli culturale, psicologico e spirituale, che lo spirito si esprime esclusivamente nel corpo, il “corpo umano come luogo dell’incontro” con l’altro da me. E in questo senso sto riscoprendo il mistero del Verbo incarnato, mistero non più rappresentato come credenza ma realizzato davvero nell’esperienza di ogni giorno. Grazie, Iside, per avere proposto e affrontato in maniera così esauriente questo tema importantissimo per la nostra vita. Un abbraccio
Maria Letizia
Iside cara, grazie ancora una volta per la tua chiarezza nell’ argomentare e per la preziosa citazione.
Pensarmi come un essere in relazione con l’ambiente che è insieme naturale, sociale e storico mi suscita entusiasmo: nulla va perduto nel perdurare della creazione, anche di quella umana!
Quando, in alcuni momenti speciali della meditazione, avverto la mia relazionalità cosmica e “ Con le morte stagioni” e con le persone del presente che mi hanno e che continuano a educarmi, mi sento trasfigurata, preziosa agli occhi di Dio e del prossimo. E’ un’esperienza che la scienza deve accettare e prendere in considerazione. Anche la medicina! Che spero si evolva verso un rispetto sempre maggiore della autocoscienza delle persona concreta, di cui si prende cura. forse i medici dovrebbero praticare di più la meditazione! Mariapia
A me pare che finché si intenda la evoluzione esclusivamente in termini di conservazione della specie (come in questo caso, ossia nel caso di Damasio, con l’accuratissima omeostasi come veicolo regolatore e creativo per la sopravvivenza) si può ricercare l’unita e la relazionalità quanto si vuole, pero sempre si finirà con imbattersi con il famoso gene egoista di Dawkins, e quindi con una insanabile separazione tra gli esseri.
L’ istinto di conservazione senza dubbio caratterizza un lungo tratto e una buona parte dell’evoluzione delle speci, pero l’umano, in quanto essere mentale altamente sviluppato, a me pare che non trovi più in ciò una integrale soddisfazione. La significazione della propria esistenza che l’uomo ricerca, in nessun modo può essere liberatrice fintantoché la sua ricerca sia viziata da un qualche interesse egoistico. Una tale ricerca non può essere liberatrice da ciò che Freud chiamò “l’angoscia primaria”, l’angoscia di non sentire e non capire cosa ci facciamo in questo universo: una finalità egoistica non può più certo liberare l’uomo dal vuoto immenso di una esistenza la cui essenza é fatta solo di un “prevalere”.
Le scienze dunque, a mio modestissimo avviso, dato che sono un signor nessuno a rispetto, dovrebbe ricercare le vie non solo di una evoluzione ascendente, che va dalla materia alla mente e alla auto-coscienza, ma anche di una evoluzione discendente, dove dalle sommità della coscienza vengono plasmate la vita e la materia. Mi pare che solo esplorando anche questa via si potrà incontrare quell’unità e quella relazionalità che tanto si anela.
Ascoltare il corpo è una delle pratiche che ho maggiormente realizzato negli ultimi anni. Nel mio corpo si esprime tutto il mio essere persona, quindi anche ciò che avrei voluto non esistesse in me, ed è proprio in questo ascolto che ho trovato tante risposte, ma anche molta serenità e pace. Ho scoperto che esiste uno stato in cui sono me stesso e allo stesso tempo ho perso me stesso… ed è in quel modo che sento fluire la vita senza ostacoli, che si parli di vita interiore o di vita biologica, ma lo stento proprio nel mio corpo, ed è in quel modo che posso aprirmi veramente ad una relazione col divino, se ci metto un pizzico di fede.
Questo è davvero rivoluzionario, riportato nella relazione col prossimo e quindi nella cura, può cambiare anche la medicina. La rivoluzione deve però coinvolgere tutti, non solo i medici e il personale sanitario. Imparare ad affrontare le sfide della vita, quindi anche la malattia e l’invecchiamento, con accettazione, speranza e responsabilità, fa parte del percorso di ognuno. Ci si rivolge spesso, invece, alla medicina con la pretesa di essere guariti, tappandosi il naso e sperando che qualcun altro ci tolga di mezzo quel fastidioso impiccio. A quel punto non restano che pillole e bisturi.
Come spesso si dice in Darsi Pace, abbiamo una sfida di linguaggio da assumere.
Mi chiedo spesso se quando dico “il mio corpo”, per quanto mi sforzi di intenderlo in senso inclusivo, l’espressione non abbia già in sé un vizio di forma. A me suona già come se indicassi un pezzo di me a discapito dell’interezza. Dire “il mio corpo” con la stessa struttura linguistica con cui dico “la mia casa” o “il mio amico” mette una distanza di alterità che a me fa problema. A dire il vero neanche “sono il mio corpo” mi soddisfa, perché anche qui sento una distanza: sento ancora un “io” che solo dopo assume il corpo, invece di essere un “io” che si riconosce corpo fin dal principio.
Dire “io” forse sarebbe sufficiente e provare a partire da lì per indagare che cosa sono, chi sono, pezzo unico, non riducibile in parti.
La mia identità è terra di confine, di permeabilità, di scambi, in tutte le direzioni, dalla fibra muscolare al neurone implicato nel costruire la mia memoria, dalla coscienza alla rotula, dalla rabbia che mi scuote al batterio che abita il mio intestino e parla con il mio sistema immunitario. Il travaso sorpassa i confini di pelle, dalla mia mano a quella dell’amico che me la stringe, il flusso continua nell’organizzazione sociale. Un ininterrotto aggiustamento di adattamenti, di scoperte, di graduali passaggi e di bruschi salti: questo profondo intreccio mi pare il grande lavoro omeostatico che crea senza interruzione, scovando incessantemente il nuovo per un inedito sempre sorprendente e mai anticipabile.
iside
Questo interessante commento di Iside mi muove dei pensieri.
Se non ho capito male, un certo pensiero di stampo orientale considera la percezione di un corpo separato dal resto, come una mera illusione. E per scivolare nella nostra tradizione spirituale, ci è stato detto “Non c’è Giudeo né Greco, né schiavo né libero né maschio né femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù.” (Galati 3,28)
Ora questa cosa potrebbe francamente lasciare perplessi. Sì che ci sono, maschio e femmina, schiavi e liberi! Verrebbe da dire. Se non che quando uno parte per “correggere” Gesù di solito potrebbe essere appena un indizio che è a sbagliare. Dobbiamo allora capire meglio. Perché tante volte purtroppo lo prendiamo, anche il Vangelo, come un “modo di dire”. Non che ne abbiamo chiaramente l’intenzione, per carità: diciamo che ci accade. O almeno, mi accade.
Io penso sempre che Gesù non si divertiva a parlare “tanto per”, o per passare il tempo o perché aveva paura di restare in silenzio, magari rischiando una brutta figura. Non credo. Allora che c’è sotto?
Ora, sentiere che tutti siamo “uno” – concetto splendidamente controintuitivo – infatti non fa saltare più nessuno dal suo panchetto della chiesa (non mi pare). Ma dice una cosa maiuscola, anzi MAIUSCOLA. Più elevo la mia frequenza, accogliendo le frequenze divine, più la distinzione tra i corpi in qualche modo (e sottolineo questo “in qualche modo”) diminuisce.
Vorrei essere molto empirico, a rischio di sembrare eccentrico. Dico di me. Io quando sono infelice, quando sono triste, mi sento come se il mio corpo fosse terribilmente “conchiuso” e terribilmente separato dagli altri corpi. Invece, quando sono felice, leggero, mi sembra davvero che ci sia come una unità, che io sia io, sì, insomma, ma un po’ anche l’altra persona. Non c’è più quella terribile distanza da riempire, non c’è più. Vibriamo già su una stessa frequenza, in un certo senso. Anche la smania di possesso si quieta, abbastanza: in realtà non devo “catturare” l’altro, non ho più questo problema, perché ci sono già impastato, con l’altro (uno più bravo di me potrebbe scriverci una teoria della nuova sessualità, suppongo, che in nuce è già contenuta nella frase di Gesù). La differenza tra le persone mi sembra si addolcisca, si attenui, si stemperi in qualcosa di più esteso e sereno.
Prendete queste appena per quel che sono, suggestioni. Ma il commento di Iside sulla percezione de “il mio corpo” mi ha riportato a queste sensazioni. La mia identità è terra di confine, è spazio aperto se lo voglio tenere aperto, può accogliere “migranti esistenziali” in tragitto nei mari dell’esistenza, se non chiudo i porti, se non mi rinchiudo in un mio personale e mortifero sovranismo (“l’angosciosa illusione dell’autonomia” di cui parla Giussani).
Non è a belle parole e sorrisi che lascio aperto, il mio porto. E’ riconnettendomi alla frequenza celeste, che è lì sempre per me, sempre e comunque. Sappiamo già da tempo dalla scienza più rigorosa, che salendo in frequenza, in energia (è lo stesso), le forze fisiche che sembrano così diverse si uniscono, diventano la stessa cosa. C’è qualcosa di analogo per i nostri corpi, e la distanza tra di essi: la distanza, la profondità di distanza, di distacco, non è invariante, ma funzione inversa di questa frequenza.
La mia unica salvezza, il mio vero “decreto sicurezza”, è lasciare i miei confini aperti: insicuri alla Grazia.
A me continua a costare l’intendere l’omeostasi come principio creativo dell’esistenza… Se si ammette uno spazio e un tempo infiniti, mi pare sia illogico concepire una evoluzione senza una involuzione. Ciò comporta che ciò che emerge in un processo evolutivo non é l’effetto di uno stato evolutivo anteriore, sino la realizzazione di ciò che in esso era involuto. La mente non é l’effetto della materia viva, l’albero che si sviluppa a partire da un seme non può trovare la sua causa d’esistenza nel seme..
Chissà sia una questione da tenere in conto alla ora di individuare il principio creativo di ciò che esiste e ciò che siamo
Un piccolo appunto..
Tornando all’esempio anteriore si è detto che l’albero che si sviluppa a partire da un seme non può trovare la sua causa d’esistenza nel seme, però neanche la troverà, a mio avviso, nei processi omeostatici adattativi che gli hanno permesso di divenire ciò che è, per quanto l’analisi di questi processi gli daranno molte informazioni utili delle sue condizioni di esistenza.
Principio creativo e condizioni di esistenza…
Personalmente, non credo che l’omeostasi sia un principio, ma solo ciò che ci si mostra come effetto. Non credo neanche, ovviamente, che la vita si riduca all’omeostasi. Tuttavia, mi pare che, soprattutto in certi ambiti di riflessione dove la metafisica l’ha fatta da padrona per secoli, abbiamo bisogno di riappropriarci di un’identità più terrestre. La capacità autorganizzativa che la creazione mostra, a mio avviso, avrebbe bisogno di essere pensata più profondamente, come punto di partenza. Da qui la valorizzazione della nostra terrestrità, della nostra corporeità come unico modo che ci è dato di stare al mondo. È solo qui che, per chi abbia deciso di credere in questo senso, può accadere l’incontro con una Trascendenza che ci dà da vivere, in eterno.
Altra grande sfida: essere / diventare “uno”. Un teologo delle mie parti sintetizzava la relazione del Padre con il Figlio in: massima comunione nella massima differenza.
Mi sa che siamo chiamati a trovare una sintonia che faccia vibrare tutte le cellule all’unisono senza mai perdere l’originalità che ciascuno di noi è. Non so cosa possa significare, ma sono francamente curiosa di scoprire dove mi possa portare questo viaggio…
iside
Concordo… É certo bene che quando uno sente, in sé o nel proprio intorno, un disequilibrio verso un esclusivo monismo spirituale, si tenda a una riappropriazione della corporeità e della terra; per contro se si sente un disequilibrio verso un esclusivo monismo materiale, si tenderà allora ad aprire le porte alle possibilità di una Trascendenza. La mia obiezione era riferita soprattutto a un libro di A. Damasio che lessi un paio di anni fa, “Y el cerebro creó al hombre” (in Spagnolo), dove mi sembrò che l’impostazione generale del libro concedeva appunto un eccesso di qualità creative alla materia. Personalmente lavoro il corpo (con lo Yoga) quotidianamente da anni e, come tu dici, concordo con che é sempre e solo attraverso il corpo che ci é dato di contattare con la Trascendenza, e che é nel corpo che la Trascendenza va fatta scendere.
Ciò che dici sul far vibrare le cellule mi fa pensare a La Madre (Mirra Alfassa), la compagna spirituale di Sri Aurobindo, che arrivò a definire il suo Yoga come il Yoga delle cellule…