Mai come in questo momento si è sentita la necessità di un ripensamento del pensiero. Mai come oggi forse si è percepito che le nostre stesse modalità di conoscenza così sofisticate sono inadeguate e insufficienti. L’uomo di oggi si trova in una condizione paradossale: da un lato infatti può dire di avere una conoscenza che rispetto ai secoli passati è infinitamente più ampia e dettagliata (e infinitamente più accessibile), ma dall’altra sembra che questa conoscenza a volte non accresca la nostra umanità e non sia in grado di risolvere i problemi fondamentali dell’attualità. È un punto paradossale della storia, e i punti paradossali sono solitamente punti di svolta, in cui all’uomo è richiesto un salto di coscienza.
Questo passaggio evolutivo si sta già realizzando in certi filoni del sapere, ma dovrà prima o poi condurre ad una riforma delle stesse modalità della conoscenza, e quindi anche dell’insegnamento e dell’apprendimento a livello scolastico e universitario.
In cosa consiste questa inadeguatezza, questa cecità del pensiero?
Ci sono due ordini di problemi, il primo è di tipo globale, e si può spiegare con questa citazione di Edgar Morin:
«C’è un’inadeguatezza sempre più ampia, profonda e grave tra i nostri saperi disgiunti, frazionati, suddivisi in discipline da una parte e realtà o problemi sempre più poli-disciplinari, trasversali, multi-dimensionali, trans-nazionali, globali, planetari»
Nello stato attuale in cui ci troviamo infatti, dovremmo elaborare soluzioni a problemi complessi come la sfida ecologica, la crisi economica e quella della democrazia, dovremmo sanare la frattura esistente fra cultura umanistica e scientifica, cultura moderna e tradizione, tentare di rispondere in maniera inedita alle domande fondamentali che caratterizzano l’essere umano, che si trova invece sempre più smarrito nel vuoto di contenuti della cultura dominante. Tutte queste sfide avrebbero bisogno di una visione più ampia e profonda delle cose, che però è ostacolata da una modalità di pensiero che tende a frammentare:
«Di fatto l’iper-specializzazione impedisce di vedere il globale (che frammenta in particelle) così come l’essenziale (che dissolve).»
Da un certo punto di vista, questo tipo di pensiero è cieco, in quanto non riesce a vedere il globale e l’essenziale. Ma la cecità può anche essere percepita ad un livello molto più diretto, personale, interiore. C’è una certa modalità della conoscenza (e quindi anche di insegnare e di trasmettere i saperi) che sembra completamente scollegata dalla mia esistenza. Scriveva Ludwig Wittgenstein nel 1921: «Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora nemmeno toccati.» (Tractatus logico-philosophicus, aforisma 6.52)
Quanto è attuale questa considerazione! Quante volte ci sarà capitato di pensare qualcosa di simile, di percepire che una certa modalità di conoscenza (che qui Wittgenstein definisce come scientifica, in senso lato) può passarci sopra senza cambiare nulla, perché i nostri problemi vitali e le nostre domande fondamentali non sono ancora nemmeno toccate, non sono ancora nemmeno viste da quella modalità del pensiero!
Ecco che cos’è la cecità, che nella scuola può essere percepita con un senso di rabbia, delusione, solitudine. L’esperienza che ho fatto io della scuola mi ha mostrato che sicuramente c’è del buono (tantissimo) e non tutto è da buttare, ma assai spesso ciò che trionfa è l’omologazione, la spersonalizzazione, il giudizio, la classificazione che trasforma la persona in numero. Troppo spesso la creatività si atrofizza, la curiosità appassisce, la vitalità viene anestetizzata. Non possiamo nasconderci questi problemi, insieme ai danni immensi che producono a livello umano: quante persone saranno per sempre vaccinate alla bellezza della vera conoscenza dopo aver assimilato, per anni, che l’importante è “sapere le cose” acquisire nozioni e saperle ripetere? Quante persone saranno per sempre vaccinate alla bellezza della poesia dopo aver imparato che ciò che conta è saper fare una buona parafrasi dei versi di Manzoni o di Dante?
Per affrontare la questione però non ci si può limitare a critiche tanto esteriori quanto scontate, né pensare a soluzioni semplicistiche. Bisogna andare a fondo.
Qual è il fondo di questo problema?
Credo che se ascoltiamo bene questa situazione appare evidente che c’è una certa modalità del conoscere che appare oggi insufficiente. Questa modalità è una mentalità, è una cultura che fa parte di noi fin nel profondo, anche se non ce ne accorgiamo. È il nostro stesso punto di vista.
È la conoscenza “oggettiva”, la conoscenza di un Io che proietta fuori di sé le cose (gli oggetti, le situazioni, i concetti) per conoscerle. Per questo Io la conoscenza è “ap-prendere”, cioè afferrare qualcosa, farlo proprio come un oggetto. Ma l’Io non è coinvolto con la sua esistenza, le sue emozioni, il suo vissuto, e non muta nell’atto stesso della conoscenza, ma rimane identico a sé stesso, e conosce tanto meglio quanto più riesce a rimanere lucido, obbiettivo, non condizionato dalla sua soggettività.
Un’altra modalità di questa conoscenza è la separazione, non solo nel senso della separazione soggetto-oggetto, ma della separazione delle parti. È una conoscenza analitica, che riduce il tutto alla somma delle parti, che scompone gli elementi e li isola, un po’ come un microscopio, che è capace di vedere le cellule ma non l’essere umano nella sua interezza. Per questo si può dire che è una conoscenza riduttiva o riduzionistica, in quanto riduce i problemi semplificandoli, certo, ma impedendo anche di vedere gli insiemi complessi.
Una terza caratteristica è la separazione nelle discipline, cioè in settori della conoscenza che si sviluppano in maniera autonoma. È ciò che avviene ad esempio nelle Università, che dovrebbero essere il luogo dell’universalità dei saperi, cioè della loro unità, e invece sono il luogo della loro massima separazione specialistica: non solo infatti le varia facoltà sono divise e non comunicano fra loro, ma sono frazionate al loro interno al punto tale che un professore non sa di cosa si occupa quello nella porta accanto. Io ho fatto fatica a trovare un professore con il quale fare una tesi su Ungaretti perché un professore che si occupa di letteratura dell’Ottocento non sa nulla del Novecento (esagerando un po’ ma neanche troppo, ve lo assicuro).
Tutte e tre queste caratteristiche (l’oggettività, la riduzione, e lo specialismo) hanno certamente aiutato l’umanità a fare degli immensi passi in avanti, e sono delle conquiste del pensiero che non vanno assolutamente buttate a mare, ma oggi sono talmente assolutizzate che hanno frazionato il sapere e la conoscenza in una miriade di informazioni e linguaggi che sembrano non avere più alcun legame con l’essere umano, impedendo così di pensare le questioni fondamentali e di elaborare un pensiero per affrontare le sfide trans-disciplinari e planetaria che il secolo XXI ci pone davanti.
E questa modalità del pensiero, questa cecità, non mortifica solamente gli studenti che lo devono apprendere ma tutto il mondo della cultura e soprattutto gli insegnanti e i professori, il cui ruolo è ormai ridotto a quello del semplice “esperto” di un settore disciplinare. L’insegnamento invece deve tornare ad essere una missione! L’insegnante deve essere un missionario, cioè un uomo che è coinvolto in ciò che fa come se si giocasse il destino della propria vita ogni giorno! Come diceva Platone, l’insegnamento nasce dall’eros, cioè dall’amore per la conoscenza e per l’uomo nelle sue infinite potenzialità. Insegnare significa avere fede nell’uomo, avere una missione, e quindi essere anche dei rivoluzionari, perché la cultura, quando è tale, mira sempre ad uno stato di cose futuro.
Bisogna elaborare un pensiero che integri le varie discipline tornando a porsi questioni fondamentali: Chi è l’uomo? Che cos’è la vita? La storia ha un senso? Come salvare la Terra? Come costruire una società più giusta?
Le più grandi opere del XX secolo hanno già elaborato una visione che valica i confini dei propri ambiti di partenza (la filosofia di Heidegger, la psicologia di Jung, la poesia iniziatica da Rimbaud in poi, la ricerca scientifica dopo la svolta relativistico-quantistica…) solo che queste visioni ancora non si sono incarnate, ancora non sono state assimilate dalla nostra cultura, perché ciò che annunciano è un rivolgimento che ancora forse non riusciamo a vivere.
Per rivoluzionare la cultura infatti è necessaria una rivoluzione su più livelli.
Una rivoluzione interiore che dissolva la mentalità egoica di un Io separato, come un atomo, realizzando una nuova forma dell’Io che è relazione e che conosce trasformandosi radicalmente, coinvolgendosi nella conoscenza.
Una rivoluzione culturale che faccia rinascere nuove visioni in tutti campi del sapere, ormai atrofizzati nell’iper-specialismo. Questa rivoluzione dovrà dunque riorganizzare anche le forme della conoscenza e riformulare l’insegnamento.
Una rivoluzione politica: come dice ancora Morin «la riforma del pensiero è una necessità democratica chiave: formare cittadini capaci di affrontare i problemi del loro tempo; frenare il deperimento democratico, che è suscitato in tutti i campi della politica dall’espansione dell’autorità degli esperti, degli specialisti di tutti i tipi, che limita progressivamente la competenza dei cittadini. Questi sono condannati all’accettazione ignorante delle decisioni di coloro che si ritiene che sappiano, ma la cui intelligenza è miope, perché parcellizzata e astratta.»
Insomma, il compito culturale dei prossimi tempi sarà quello di riformulare la modalità stesse della conoscenza, per restituire alla cultura una visione allegra, dinamica, aperta, appassionata e più umana.
Caro Andrea,
mi piace molto questo tuo post, mi piace molto e ci trovo motivi di deciso interesse anche per AltraScienza (l’ho appena “twittato”, https://twitter.com/laltrascienza/status/1098578166216568832). In questa riflessione a tutto campo infatti non poteva non entrare anche la scienza – e la bellissima frase di Wittgenstein, è un grande omaggio alla scienza stessa e non una negazione, come si potrebbe superficialmente pensare (ed infatti tu la interpreti nel modo che anche secondo me è il più corretto). Perché liberare la scienza dalle false pretese è farle un grande favore, renderla leggera e semplice, fruibile con libertà e gioia: sgonfiata dalla presunzione di doversi articolare in ambito messianico (no, la salvezza dell’uomo non viene dalla scienza), ritorna agile e snella. Si ibrida con tutto perché è differente da tutto. Ritorna a giocare.
L’iper-specializzazione è quello che rende estraneo il tesoro del sapere all’uomo “comune”, ma in realtà, come ben dici, è un furto che raggiunge e coinvolge tutti, anche gli stessi specialisti, che si trovano circondati dall’ignoranza di tutte le discipline che non sono il proprio campo di indagine. E’ infatti una modalità percettiva diversa che dobbiamo ricercare, una modalità inclusiva e una semplicità di “secondo livello” che ci renda familiari con tutto, per cui, di nuovo, niente ci sia veramente estraneo.
E’ vero, le direzioni sono state profeticamente individuate già nel novecento (Jung è una citazione d’obbligo, in questo caso), ma siamo indietro rispetto alle stesse nostre scoperte: restando in campo scientifico, abbiamo delineato un quadro concettuale impressionante e davvero dirompente come la meccanica quantistica, ma nel pensiero siamo quasi totalmente meccanicistici, al nucleo, quando siamo “nudi” delle nostre pretese, siamo “uomini dell’ottocento”, ancora – come ci ricorda Gaber nella bellissima canzone “Un’idea”
Ma questa rivoluzione urge, e nuovi panorami si aprono sul nostro cammino. La cultura “allegra, dinamica, appassionata e umana” è più che mai necessaria. Ma è qui, è qui, in ogni respiro nuovo, già fiorisce.
Già nasce, ora ed ancora.
Ciò che mi sembra particolarmente grave è l’ effetto antropo- centri-fugo della frammentazione della conoscenza, cioè, trovo che il vero problema sia che la conoscenza, così come la intendiamo, porti l’uomo sempre più lontano dal suo centro.