La giornata internazionale della lingua madre è una celebrazione indetta dall’ Unesco che dal 2000 si celebra il 21 febbraio per promuovere la madrelingua, la diversità linguistica e culturale e il multilinguismo e per ricordare che il 21 febbraio 1952, diversi studenti bengalesi dell’ Università di Dacca furono uccisi dalle forze di polizia mentre protestavano per il riconoscimento del Bengalese come lingua ufficiale.
Quali lingue si parlano oggi in ITALIA ? Quali sono i repertori linguistici dei cittadini italiani e stranieri? Accanto alle varietà dialettali – in certi contesti ancora molto diffuse e praticate – ci sono le dodici lingue delle minoranze (lo sloveno, il croato, il friulano, il ladino, l’occitano, il franco-provenzale, il sardo, il catalano, l’albanese, il germanico, il greco …) e poi ci sono le lingue “immigrate” che sono parte strutturale del paesaggio linguistico, visivo e sonoro delle nostre città. Le lingue più parlate fra gli stranieri residenti, che compongono il neo-plurilinguismo, sono nell’ordine: il romeno, l’arabo, l’albanese, il cinese, lo spagnolo.
Il poeta Premio Nobel messicano Octavio Paz una volta disse che “per ogni lingua che si estingue scompare una immagine dell’uomo” e Nelson Mandela scrive:” “Parlare a qualcuno in una lingua che comprende consente di raggiungere il suo cervello. Parlargli nella sua lingua madre significa raggiungere il suo cuore”.
La “lingua madre” rappresenta innegabilmente, dal punto di vista culturale, il legame primigenio con le radici e con l’ identità culturale. Salvaguadarla insieme alle diversità linguistiche, del nostro mondo profondamente globalizzato, credo sia piu’ che necessario. Occorre diventare “contadini” della Lingua perchè la Parola non veste i pensieri, ma li genera e li nutre, produce trasformazioni e cambia la realtà, perciò necessita di cura e manutenzione con la consapevolezza che le parole servono a comunicare e raccontare storie. A secondo dell’uso possono diventare baci o proiettili e sono sempre a rischio di logoramento e di perdita di senso.
La lingua madre è la lingua del cuore, delle emozioni e degli affetti. “Per un bambino, è la lingua delle coccole, dei giochi, delle ninne nanne, della complicità e dei primi racconti. Contiene parole che sussurrano, consolano, guariscono, sgridano, rassicurano, insegnano. Il codice materno permea profondamente la nostra storia e l’immagine del mondo, ed innerva la nostra vita psicologica. Grazie ad essa ci costruiamo i nostri ricordi, le associazioni e gli schemi mentali”, così scrive Tullio De Mauro.
La mia lingua Madre è il sardo. Il Sardo-nuorese logudorese è la LINGUA (LIMBA)che ha donato il primo saluto “Benebennìa” (Benvenuta) al mio primo vagito.
Posso dire che la Lingua Italiana che ho imparato a scuola è la mia prima lingua adottiva che si intreccia con il sardo come un filo rosso, come un innesto nella mia storia: una lingua fa eco all’altra in una risonanza che a volte mi fa star male e indignare e a volte cantare riscoprendo la bellezza e lo spessore delle mie radici e della forza creatrice della Parola.
Ho settantadue anni, da tempo vivo a Pisa dove mi sono laureata in Lingue e letterature Straniere e dove, dopo otto traslochi, sono tornata a vivere in “residenza nomade”. Anche in questa situazione la voce intima della lingua madre suona quasi senza sosta, come un canto di balena nell’oceano sconfinato, per comunicare, come scrive Bruno Tognolini (Mamma Lingua) tre sole sconfinate informazioni: io sono qui; tu sei qui; il mondo è qui.
Il sardo è rimasto la lingua mia più intima, mi permette di esprimere in versi e di canticchiare a cappella (non ho alcuna formazione musicale) tutte le emozioni più profonde e di raccontarle anche col corpo, come è successo durante la stesura e pubblicazione della mia ultima raccolta di versi “FIZA DE PASTORE” edizione Papiros, Nuoro 2017.
La raccolta poetica comprende più di 60 poesie nella mia lingua madre tradotte anche in italiano (una ventina sono canticchiate da sola o in coppia con mio marito toscano, che per amore canta in sardo. Entrambi non sappiamo leggere gli spartiti del resto ignorati da tutti … gli aborigini che hanno sempre cantato.)
Questi versi e melodie, come “Figlia di pastore” mi hanno fatto scoprire da dentro la gioia del canto semplice e vibrante delle balene, delle ninne nanne scritte per mia mamma, mio babbo e per tutti i bambini del mondo e continuano a farmi percorrere i sentieri della transumanza, lanciando invisibili ponti tra l’isola e “il continente”.
ll libro infatti mi ha portato recentemente a Serdiana (Ca), a Nuoro, a Pisa, a Roma, a Frascati, a Quartu Sant’Elena (Ca ), luoghi in cui ho abitato e/o insegnato. Questo mi ha permesso di incontrare vecchi e nuovi amici con i quali in un clima di amicizia, convivialità e solidarietà ho condiviso il viaggio della Memoria-Ammen-Tu che mi fa sentire amata e perdonata, in dialogo con i vivi, con i morti, con il Creato. Donandomi stupore e gratitudine per l’incredibile sacralità della Vita e del Cosmo.
Nella lingua nativa la parola è legata alla cosa, al sentimento, all’affetto, alla fiducia in te stesso e in chi ti ha messo al mondo e ti accompagna, ti da l’imprinting, come matrice che rimane sempre a disposizione e che possiamo recuperare da dentro per vivere rinascendo e continuare a nascere piu’ umanamente. E’ matrice che permette di rigenerare l’esperienza anche quando la nascita è stata particolarmente traumatica, come so che è stata anche la mia.
Come è stato per Maria di Nazaret , la Lingua Madre ci aiuta a meditare serbare nel cuore quanto ci turba o non capiamo e ci consente di scegliere di dire il nostro Si alla Vita, di sposare la Vita.
Si, la LINGUA MADRE è la casa che portiamo dentro, parlante da dentro e che portiamo nel mondo. Ci offre una stanza rifugio-riparo anche nella tempesta, innerva i nostri ricordi e passando attaverso la porta del silenzio profondo e della meditazione, ci permette di ascoltare il Mistero che abita all’interno di noi stessi e di raggiungere il cuore.
In effetti parlare a qualcuno nella sua lingua madre, significa ricevere un biglietto di andata e ritorno di un Viaggio che diventa autoconoscenza ed esperienza personale storica e di trasformazione interiore che grazie alla meditazione e alla preghiera quotidiana, fondamentale all’interno del percorso iniziatico di Darsi Pace, ci libera dalle parole male-dette, dette male e apre alla Benedizione, a dire Bene, ad accogliere in semplicità la complessità, la ricchezza della diversità e la bellezza del mondo e del cosmo.
“In principio era il Verbo e il Verbo si fece carne” dando vita alla cultura e alle radici che affondano fin dalla preistoria dentro tutte le arti: musica poesia danza pittura rupestre, scultura che svelano i valori che tengono viva una Comunità aperta, solidale e ospitale.
Veramente un popolo è destinato a morire se viene tagliata la sua Lingua.
Come mio padre pastore che, a 17 anni, fu costretto ad andare in trincea sul fronte della prima guerra mondiale, conservando fino alla morte la Fede nel Dio della Vita, desidero fortemente affidarmi totalmente al Dio della Vita per rispondere alla mia unica vocazione: darmi Pace e dare Pace, seguendo Gesù come modello unico di figlio del Padre e fratello.
Con sofferenza sento il forte vento di guerra, di tempesta e di protesta anche pericolosa che continua a soffiare a livello mondiale ed europeo e che non risparmia la mia Sardegna.
Mi mette davanti al grido dei più poveri, a volte in guerra fra loro e alla sfida di una rifondazione radicale e delicatissima dell’intero assetto politico europeo e mondiale.
So che “ha da passà a nottata” e continuo ad ascoltare e a scrivere parole che mi ri-cordano, mi consolano, mi invitano e mi orientano ad andare oltre, ben oltre le spine del nostro cuore e dei fili spinati per non perdere mai la Speranza, e scegliere di agire per l’Unità.
Prego e spero che così sia in Sardegna come a Paris, come scrivo nei miei recenti versi intitolati Fortza Paris (in lingua sarda significa Forza Insieme. Nella prima guerra mondiale, i giovanissimi soldati sardi, della Brigata Sassari, fra i quali mio padre, nei momenti terribili dell’assalto all’avversario, spesso superiore per numero e mezzi, al grido di Fortza Paris si stringevano uniti per garantirsi protezione e fronteggiare insieme il pericolo da superare.)
FORTZA PARIS FORZA INSIEME. Soffia forte vento di protesta / in Sardegna / soffia forte vento di tempesta./ È richiesta di Vita / degna.// Rovesciano il latte i pastori / per rovesciare padroni e baroni / quelli di dentro e quelli di fuori / quelli di oggi e quelli di ieri. // Scorre latte come sporche lenzuola / fiume di lacrime che non consola / cascata di rabbia si manifesta / alle menzogne taglia la testa. // Dalla notte dei tempi si alza il pastore / conta e scandisce le ore / ben conosce il gusto del latte / e del pane sotto le stelle sorelle.// Va ad adorare rapito e stupito / il divino Bambino di latte nutrito. / Ascoltano i servi alle Nozze di Cana: “Fate quello che vi dirà “ dice Maria. // L’acqua in vino il Padrone trasformerà/ i superbi dai troni rovescerà. / Rovescia il tavolo Cristo nel Tempio / con il debole inizia a gridare / più non sopporta e sferza l’uomo empio / che fa del Mercato il suo altare. / ORA per sempre e per tutti così sia / per festa di amicizia e fraternità. // Sfilano cortei di studenti e dottori / ieri e oggi figli di Pastori. / Groppo in gola si scioglie in pianto / chiedono Lavoro Giustizia Dignità// dentro nuova trincea si leva un canto / per onorare fatica e onesta’ / di antichi patriarchi eredità.// Dentro nudi sentieri di aridità / intravedo tratturi di transumanza / libero Sogno di Santa Alleanza // tra Uomo terra e cielo è canto / eterno per l’ Umanità. // FORTZA PARIS.
Siamo chiamati ad essere Poeti Insurrezionali come Gesù, a stare con Lui e, come piccolo gregge, a stare insieme per sostenerci, per accogliere i nostri limiti, per masticare e trasformare in azioni-solidali la sua PAROLA, la sola capace di custodire, dare senso e giusta direzione al nostro errare: Fare Pace e “amorizzare” il mondo.
Il “Cantu pro sa Balena” è cantata da Giuseppina insieme a suo marito Fabrizio. Buon ascolto!
Questo canto in lingua madre sarda è una eco secolare evocativa della storia di un popolo, nel cuore del Mediterraneo, che anche nelle difficoltà della vita è sempre stato pieno di forza e di dignità.
La parola semplice e pulita, cantata a cappella, è espressione di una identità che i sardi amano e che li accompagna sempre anche sul continente e nei continenti dove sono emigrati.
Io ho sangue friulano nelle vene, e il Friùli è terra la cui parlata è anch’essa riconosciuta come lingua, ed è fiorita in un’infinità di poesie e di canti, canti “dongje il fogolar”: vicino al focolare.
In molte regioni italiane si parlano lingue che sono amate con affetto e nostalgia, e sono un po’ come il cibo affettivo dell’infanzia, sono nutrimenti materiali e spirituali incancellabili.
Queste lingue sono il primo antidoto contro una globalizzazione che appiattisce ed omologa.
Sono l’humus in cui spuntano le identità che sono amate e sono amanti delle altre identità.
Ad esempio dagli USA all’Australia sono vivaci i gruppi di siciliani e abruzzesi, di veneti e marchigiani o lucani che non si odiano affatto e che vivono come identità aperte alle altre identità.
Esse sono poi il motore di quella solidarietà che ha permesso a decine di milioni di italiani nel mondo di sopravvivere ed affermarsi in mezzo a enormi sacrifici non esenti da fallimenti.
Vorrei fare altre riflessioni costruttive, ma concludo accennando a “fortza paris”.
Nella ex italiana valle del mio amato Friùli, la valle dell’Isonzo, ragazzi come tuo padre, cara Giuseppina, hanno scritto una pagina di dignità ed eroismo insuperabili.
Si tratta di gesta militari, ma io ne posso parlare perchè la mia legge contro le mine antiuomo testimonia che non parlo da militarista ma parlodi dignità.
La Brigata Sassari ha avuto l’incarico sacrificale di proteggere l’esercito italiano nella disfatta di Caporetto, che oggi si chiama Kobarid.
Quei ragazzi sardi avevano il compito di far saltare i ponti e permettere a tanti ragazzi di salvarsi. Quando hanno finito le munizioni, invece di scappare strisciando come topi, hanno messo le armi a bilanciere e si ritiravano in piedi, con passo di marcia a “fortza paris”, falcidiati dalle mitragliatrici.
Quelle gesta hanno fatto il giro di tutte le cancellerie europee e hanno ridato dignità all’Italia intera.
Ti ringrazio, Giuseppina, e mando un caro saluto alla varietà di tutte le lingue del mondo.
GianCarlo
Molto bello questo tuo testo, grazie, cara Giuseppina! Marco
Un saluto dal Friuli con “une cjantade par furlan: Sisilute: Je tornade primevere” (una cantata in friulano sul ritorno della primavera),
di seguito il link: https://youtu.be/yir1T1B3Rsk
Je tornade primevere
cui soi mìl e mìl odôrs
dut il mont a mute siere
duc’ a tornin i colôrs
Ancje tu, tu sês tornade
sisilute ti vuei ben
vorês dati une bussade
e tignìti sul gno sen
Dula vastu sisilute?
No sta lâ luntan luntan
Fas culì la tô cjasute
di stecùz e di pantàn
Reste pûr, reste pojade
sisilute, su chel len
vorês dati une bussade
e tigniti sul gno sen
Traduzione
È tornata la primavera
con i suoi mille e mille odori
tutto il mondo muta colorito
ritornano tutti i colori
Anche tu sei tornata
rondinella, ti voglio bene
vorrei darti un bacio
e tenerti sul mio seno
Dove vai rondinella?
Non andare lontano lontano
fai qua la tua casetta
di fango e di fuscelli
Resta pure, resta appollaiata
rondinella, su quel legno
vorrei darti un bacio
e tenerti sul mio seno
Un saluto e un abbraccio di buona primavera a tutti
Grazie, Giuseppina, per questa tua esperienza di ” bilinguismo ” ! A me è mancata! Sono genovese, ma in casa mia si è sempre parlato in italiano, solo una mia nonna mi insegnava parole ed espressioni dialettali, che ancora ricordo e rievoco con tenerezza e nostalgia! Come ricco ed espressivo anche il canto!
Vorrei unirmi con piacere , al fascino del dialetto che questo Post di Giuseppina ha risvegliato in me, per il ricordo delle mie origini spirituali più terrene che rivivono in me nel linguaggio della mia infanzia e giovinezza: un misto di milanese doc, ancora parlato in Canton Ticino, di bergamasco cadenzato veneto , e di valtellinese imprintato della cultura austriaca e dei Grigioni Svizzeri. Insomma un bel caso creativo, che spiegherebbe le mie incertezze personali nel definire la mia personalità.
Qui vorrei partecipare a quello che mi piacerebbe fosse un nuovo Festival dei dialetti, a quanto mi è piaciuto ascoltare, per via sonora, del sardo di Giuseppina , del Friulano di Fabio e nelle riflessioni di Giancarlo. Dirò di un proverbio che fin da bambino sentivo ripetere dai nonni, quando raccontavano dell’avventura di un pastore che volle recarsi al mercato di Gravedona, per vendere al mercato il suo becco ( ol Beck ) , un bel caprone, grande e grosso, con tutti gli attributi con i quali i preti e la Chiesa avevano sempre descritto il diavolo per spaventare la gente , credendo di farla avveduta delle sue lusinghe e malizie.
Il proverbio che risuona ancora in me dalla mia infanzia consiste nella morale che si apprende, dall’ avventura di quel pastore e del suo becco che qui sintetizzo: il pastore in questione, giunto al mercato di Gravedona, dopo un lungo viaggio per discendere la Valvarrone dal paesello di Pagnona, decide di farsi una bevuta prima di passare dal mercato e per questo lega , malamente, il suo caprone ad una staccionata sotto il sole cocente. Il caprone riesce a slegarsi e se ne va in giro per il paese , finendo dentro il fresco della chiesa di Gravedona, dove trovò comodo sdraiarsi sull’altare, tra l’orrore dei fedeli presenti in quell’ora . Arrivò il parroco e altri preti che, riconoscendo in quel caprone le fattezze del diavolo, si attivarono con esorcismi, implorazioni e fumigazioni di incenso che riempirono tutta la chiesa , ma il caprone che continuava a ruminare imperterrito, non scendeva dall’altare , come alle capre piace sostare in postazioni alte. Fu solo quando il pastore, alla ricerca della sua capra, lanciò il solito fischio del capraio, che il caprone saltò giù dall’altare recandosi da lui per ricevere in cambio qualche granello di sale, come d’uso che , il diavolo fu sconfitto!
Da qui il proverbio : “ Al val pisèe el ziful del cabrèe de Pagnone che tu:cc i scongiurament del prét de Grauedeone ! “ – ovvero , “ vale di più il fischio del capraio di Pagnona, di tutti gli scongiuri del prete di Gravedona “ .
Un proverbio che ricordo, veniva poi usato fino a tempo addietro, per canzonare tutti coloro che per risolvere un qualsiasi problema pratico o mentale, lo rendevano sempre più complesso, mentre la soluzione era la più semplice, bastando saperla riconoscere , o lasciando agire chi del mestiere !
Grazie Giuseppina.
Ivano
Grazie di cuore per le vostre riflessioni e risonanze che rinforzano la consapevolezza della forza radicale e indelebile della Lingua Madre.
Grazie particolarmente a Giancarlo e a Fabio, due friulani DOC che ho avuto modo di conoscere e apprezzare in diverse iniziative di D.P. Entrambi i vostri interventi, per motivi diversi, mi hanno commosso fino alle lacrime ricordandomi che mio padre che a 17 anni parlava a malapena l’italiano,diceva che, fra i diversi commilitoni, i sardi si intendevano particolarmente con i Friulani e con i Toscani. Leggendo quanto scrivete ho risentito presente in voi la grande forza di un altro Friulano ( Padre Davide Maria Turoldo) da sempre uno dei miei Poeti del cuore.
Che bello sapere che la legge delle mine antiuomo è stata proposta da Giancarlo … ricorderò gioiosamente anche la cara SISILUTE dei versi di Fabio e il sapiente ironico proverbio sul caprone ( ol BECK ) di Ivano.
Un caro saluto di Buona primavera anche a Mariapia e BUONA PASQUA a tutti gli amici di D.P. e…alle varietà linguistiche del mondo intero.
Giuseppina