La fine di questo primo biennio di approfondimento mi è parsa il punto culminante di un crescendo. Avendo io partecipato fisicamente solo al secondo dei due anni di Per-donarsi, ho avvertito un incremento di luce, di rivelazione reale e trasformativa soprattutto nell’arco degli ultimi tre intensivi. Con tutti i limiti della mia fase di vita attuale, capisco mese dopo mese che in questo processo iniziatico c’è realmente qualcosa di sempre nuovo e stupefacente che mi viene incontro: è come il senso di un passare, di un movimento gentile che accade per scioglimento di tanti ghiacci spigolosi, radicati sin nelle profondità dell’anima. A volte è inevitabile che le nostre lame interiori ci feriscano, ma lungo questo cammino ho potuto constatare quanto queste ferite possano essere davvero alleviate, contenute e quindi gradualmente risanate.
Pochi giorni fa, all’ultimo incontro, Marco ci diceva che probabilmente questi 20 anni di Darsi Pace hanno tolto dal mondo qualche tonnellata di male, e questo a un livello misterioso che noi non possiamo nemmeno immaginare.
La sua osservazione mi ha colpito molto, soprattutto perché oggi sento fisicamente la portata di tanto peso inutile, di tantissimo pietrame dolorante rimosso dalla mia vita solo grazie a Darsi Pace.
Sin da quando ho iniziato a frequentare i gruppi, nel 2015, ho vissuto questo percorso come una gloriosa discensione da un cielo potentissimo, pieno però di fulmini e lampi ostili, verso una terra lentamente ritrovata, progressivamente meno temuta ed estranea. Darsi Pace è stato quindi da sempre per me un tragitto di stabilizzazione, una pista favorevole e feconda per l’atterraggio, un punto di ristoro, che non a caso si è dimostrato subito un incredibile laboratorio di nuove relazioni.
Questa dis-tensione graduale delle polarità interiori ed esteriori, questo transito del potere celeste nel grembo terrestre, è molto ben condensato in quel verso di Marco che citavamo anche sabato scorso all’intensivo: «Io sono il luogo. Vieni».
Il giorno successivo, all’incontro della domenica mattina, sono rimasto felicemente colpito nel ritrovare un mio verso, scritto circa un anno fa, che dice proprio: «Dio è qui dove io sono».
Ma come si realizza questa verità nell’ambito dei difficili tempi che corrono (in tutti i sensi)?
Il tempo storico in cui abitiamo è come un corpo vivente: è il corpo stesso della coscienza, ormai planetaria, sempre più vasta e ramificata. Lo si può ascoltare a fondo con la stessa umiltà con cui nella pratica meditativa impariamo a osservare i movimenti della nostra anima.
Ad un attento ascolto di questo corpo collettivo, che in realtà si dà nel nostro stesso corpo individuale, emerge chiaramente una sofferenza, una misteriosa fatica che non trova fondamento in alcunché di visibile. Il corpo dell’umanità storica è oggi affaticato.
Obiettivo fondamentale del biennio Per-donarsi è imparare a riconoscere, in questa tremenda fatica epocale (sperimentata da ognuno di noi nel quotidiano), l’av-verarsi e l’in-verarsi nel nostro stesso corpo dei tempi messianici. Ho quindi tentato di comprendere meglio cosa significasse per me questo grande mistero attraverso due indicazioni poeticamente ricevute, che forse possono aiutarci in generale a chiarirne ancor meglio il senso.
Il tempo messianico è per un verso un tempo che cade, e per un altro un tempo che preme.
Il cadere e il premere sono solo apparentemente diversi tra loro, giacché proprio nella temporalità messianica possono essere esperiti insieme, sostanzialmente inseparabili. Ma andiamo con ordine.
Il tempo cade nella misura in cui percepiamo che nella nostra vita, così come in quella del pianeta, c’è continuamente qualcosa che cede, cioè qualcosa che non ce la fa più a reggersi in piedi, che si assopisce, si accascia e minaccia di morire. Ad uno sguardo più approfondito, il tempo che cade è letteralmente un tempo che muore, cioè che affonda come il Titanic: un tempo in cui tutto ciò che ha senso sembra essere un’illusione. In altre parole, quello che è stato chiamato il tramonto dell’Occidente è in realtà un’esperienza reale dell’anima, radicata a livelli talmente profondi da riguardare la stessa condizione umana sulla terra. Lo scorso novembre mi è infatti capitato di scrivere alcuni versi, poi intitolati proprio Il tempo che cade, nei quali questo cadere inesorabile viene ricompreso a partire dall’origine stessa della vita umana, ossia dall’evento (apparentemente in-fondato e traumatico) della nascita. La sensazione è appunto quella che il corpo della storia abbia raggiunto un termine: un grande gioco (e giogo) del tempo, durato fino ad oggi, è finito. Tutto si raccoglie perciò nella domanda ultima che sbuca dall’ultimatum di questo inarrestabile viaggio discensionale:
Stracciato e
malmenato
l’uomo
appena nato,
caduto
dall’alto,
non vedo dove,
ma vivo
per miracolo
oscuro,
senza scopo,
accecato,
ha sete d’occhio,
quasi assatanato, –
ma vivo
a parlare
di umili sentieri.
Si sdoppia:
donna, uomo.
Perché?
Il corpo parla
senza scampo.
Saluta, grida
a tempo pieno,
giro-vagando
ignaro
del buco
di fuga
che scava
nel fondo
dell’anima.
Saturo è il pane,
crepato d’arsura,
ansimante.
Calura d’attesa;
il tempo è finito.
Dove finirlo?
Per prima cosa vediamo come in queste parole la domanda ultima scaturisca proprio dall’esperienza portata fino in fondo della corporeità, cioè della condizione originariamente finita e mortale dell’essere umano. Queste parole dicono inoltre che l’uomo nasce accecato, perché non conosce lo scopo né il senso del suo essere nato. Ma proprio in forza di questa cecità l’uomo «ha sete d’occhio», ossia vuole vedere, vuole trovare un senso a tutti i costi, vuole combattere fino all’ultimo per scovare la verità nascosta della propria esistenza.
Poco più avanti si parla di una fuga, di un incessante lavorio di scavo che l’uomo mette in atto, spesso senza accorgersi, con il solo obiettivo primordiale di evadere radicalmente dalla propria condizione. Prendere coscienza di questo scavo, osservare in noi stessi l’anima che anela alla liberazione da questo stato mortale verso una dimensione sconosciuta, che tuttavia sentiamo appartenerci sin nel profondo, è un passo fondamentale per arrivare poi a porre – di fronte alla realtà del tempo finito – la domanda ultima: dove finirlo?
Questa domanda già ha oltrepassato la fine, perché in qualche modo ha già sperimentato anticipatamente la fine come la possibilità di un luogo dove la fine ci manda a finire. Questo luogo non è ancora svelato. È una terra nascosta, inesplorata, che proprio per questo chiede però di essere scoperta. Ecco che l’esperienza della fine corrisponde non solo allo s-finimento, ma anche ad una «calura d’attesa». In un’altra mia poesia sta scritto: «Nessuna catastrofe / ci meraviglia più: / segno che l’attesa / del Miracolo è alle stelle».
Il tempo che cade si scopre così, in-fine e final-mente, come il tempo dell’attesa. Nell’attesa c’è qualcosa, che non sappiamo cosa sia, che incombe. L’attesa non è un aspettare passivo, ma un ascolto radicale di ciò che chiama e impelle. L’attesa è l’esperienza del tempo che preme. Ma cos’è che preme in questa attesa? Il Luogo stesso in cui la fine finisce.
Come umanità noi ci troviamo precisamente su questa soglia epocale. Per raggiungere il Luogo segreto, che preme in noi per nascere, c’è soltanto una via: dobbiamo interrogare il mistero della morte lasciandoci noi stessi morire, facendo esperienza di un Inizio che sorge a partire dall’abisso. Una volta Heidegger ha scritto: «Che cos’è la morte? Il congedante fondamento abissale per l’inizio» (L’Evento, pag. 197).
Intorno a questo mistero ruota in definitiva tutto il lavoro iniziatico di Darsi Pace. A questo livello mi sto rendendo conto, anno dopo anno, che l’esperienza dell’Inizio è reale. Anche quando tutto sembra consumarsi nel vuoto, quando il male sembra accrescersi col passare del tempo, con l’affidamento alla possibilità di questo Inizio abissale, mi accorgo che nulla è più come prima, che il finire stesso di tante cose si trasforma piano piano in un passare oltre.
C’è una gentilezza, una delicatezza, un che di più vivibile e più praticabile in questo passare oltre, se paragonato alle violente e distruttive esperienze di rottura che abbiamo vissuto nel XX secolo. Il passare oltre è il modo in cui il mistero della morte risuonerà alle orecchie dell’umanità del terzo millennio. L’uomo del futuro muore passando oltre, tra-passando nello scioglimento dei rovi più antichi, in direzione di un orizzonte sempre rinnovato di nascita.
Tutto questo sta già avvenendo nel profondo del cuore cosmico dell’umanità odierna. Si tratta solo di imparare a credere che sia vero. Si tratta di iniziare a fidarsi. Sulle ceneri del mondo del vecchio Io, votato fin da subito al tramonto, sgorga qualcosa di simile a un Regno della Grazia.
La Grazia accade quando nella vita sentiamo che la nostra anima viene rin-graziata, cioè rinutrita e rimpinguata di benessere. Detto in una formula, la Grazia è la libertà della pienezza d’essere.
Quando penso al rin-graziamento mi viene sempre in mente un vaso che torna ogni volta a riempirsi dell’acqua di un pozzo senza fondo. Il ringraziamento è un continuo rin-francarci l’anima presso la sorgente inesauribile della Luce. La Grazia è la vita che vive nascendo.
Tutto questo è ciò che il cammino di Darsi Pace mi sta insegnando a vedere. Ecco perché quello che sta accadendo ormai da quasi un ventennio in questo nostro movimento, non può non aver già lasciato un’impronta irreversibile nella coscienza delle persone: anche di tutti coloro che godranno dei frutti di questa piantagione tra decenni o secoli. Nella realtà di Darsi Pace, una Parola nuova ha già fatto breccia nel corpo della storia. Non dobbiamo fare altro che proseguire l’opera con pazienza e sapienza, incrementando di Luce il mondo e nutrendoci noi stessi, giorno per giorno, dello stesso e sempre straordinario miracolo rigenerativo di cui siamo annunciatori.
In conclusione, vorrei riportare il finale di un’altra poesia, dal titolo In fronte l’alba, che forse può illuminare bene la bellezza e l’imponenza di questo grandissimo passaggio dell’umanità nel Regno della Grazia, ancora tutto da scoprire:
Felice e totale è
l’Autunno di fuoco.
Sorge morendo
il prossimo Sole.
Lasciarmi a dono
impetuoso di Mistero
è somma gratificazione.
Speranza di miliardi
di cuori è
il vivente momento. –
Veramente grande questa immagine dello sciogliere il mistero della morte in un passare oltre, che risuonerà alle orecchie dell’umanità del terzo millennio .
Sono talmente ricolma di tutte le immagini e le parole poetiche e profetiche di questo post, da non essere in grado di dire all’autore altro che Grazie, di cuore!
Francesca
Caro Luca, grazie a nome di tutta la terra!
Ho riletto più volte questi pensieri.
Non posso che lodare il Signore della vita che parla in te.
“Io sono il luogo”.
Dio è qui dove io sono”.
Parli di spazio vivo e di tempo vivo, facendoli passare da categorie del pensiero a vita vissuta.
Intrecci lo spazio e il tempo.
Tempo che cade, tempo di attesa, che preme in un luogo: che è quello dove la fine finisce.
Mi turba un ragazzo come te, che vuole interrogare il mistero della morte con Heidegger:”Inizio che sorge a partire dall’abisso”.
Luca, ti ringrazio e ti abbraccio, GianCarlo
Cari amici, grazie a tutti voi, e non a nome mio, ma della Grazia stessa che mi ha concesso di scrivere e soprattutto esperire in prima persona queste parole. –
Un caro saluto, Luca.
Grazie Luca
Luca caro, se l’intero ventennale percorso di Darsi Pace non fosse servito solo che a creare il grembo fecondo della tua rigenerazione nello Spirito, non sarebbe stato vano.
Ma grazie anche a te, che ti sei abbandonato (e ancora continui a farlo) al Turbine dello Spirito facendoti trasportare dove Esso di volta in volta ti ha condotto e ti conduce, attraverso abissi di Tenebre e di Luce, ugualmente fecondi di Vita eterna.
Grazie per il tuo coraggio di STARE, lasciandoti plasmare sempre e comunque, ora sferzato dal vento, ora carezzato dalla brezza, ora bruciato dall’arsura ora scaldato dal sole, nei flutti della tempesta come nel refrigerio della pioggia feconda di primavera.
Grazie, Luca, per la tua testimonianza, che, mentre consola, incoraggia a fare altrettanto, osando l’avventura.
Un abbraccio grande, e grato
angela
Grazie percla testimonianza che mi infonde coraggio e speranza