Fino a quando nell’anima mia addenserò pensieri,
tristezza nel mio cuore tutto il giorno?
Fino a quando su di me prevarrà il mio nemico?
Guarda, rispondimi, Signore, mio Dio,
conserva la luce ai miei occhi,
perché non mi sorprenda il sonno della morte.
(..)Ma io nella tua fedeltà ho confidato;
esulterà il mio cuore nella tua salvezza,
canterò al Signore, che mi ha beneficato.
(Salmo 12)
La solitudine ci risucchia, è come un vortice che attira a sé e fa paura. Il mondo è più vasto di quanto possa immaginare e la vita scorre febbrile e non possiamo trattenere un solo istante. Fa paura questo mutamento incessante che è l’eternità in atto, perché sappiamo che non tornerà più, al contrario di quanto pensava Nietzsche, ed è questa la bellezza: l’eternità muore e rinasce costantemente in forme nuove. Lamentarsi, compiangersi non serve assolutamente a nulla. Solo l’adesso è prezioso. L’adesso non è l’appiattimento disperato sull’appiglio dell’attimo, non è un cavillo della mente. È la presenza reale del mistero nella carne, del divino nella insostituibilità di questa sfera in cui dimoriamo.
Siamo noi stessi solo quando siamo nella verità, e la verità è unicità, è restare nella profondità limpida dell’inquietudine che dà gioia. Essere nella verità è difficile perché nella relazione tendiamo verso forme in-autentiche di noi stessi per essere accettati e rientrare in una conformità generale. La verità infatti smuove l’esistente, l’assetto ordinato del visibile, rimettendo tutto in discussione. Gli uomini non amano la luce della verità.
«E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio»(Giovanni 3,19-21)
Colui/lei che si risveglia, che va verso la luce, incontra tutte le resistenze delle tenebre, sia esteriori che interiori, non è ben visto. Rompe delle catene, delle abitudini consolidate, entro le quali si formano le varie modalità dell’essere assieme. Infatti l’essere umano che si asperge, che si monda del mondo, da tutte quelle costruzioni/costrizioni che gli sono state imposte dalla società e dalla tradizione, necessariamente attraversa un periodo di isolamento e di separazione, tipico di tutti i riti iniziatici della terra. Ha bisogno di vedere il suo vero volto, non ciò che crede di essere, o che gli hanno imposto di essere. La solitudine può essere perciò intesa come un ritorno alla propria verità essenziale. Non è una fuga dal mondo, non è un rifuggire la realtà, ma una preparazione per una nuova nascita grazie alla quale ri-plasmare tutte le relazioni. Il mondo costituito non va abbattuto, ma trasformato.
«L’uomo è, in una parola, τό δεινότατου: ciò che vi è di più inquietante. Un modo siffatto di parlare dell’uomo lo coglie nei suoi estremi limiti e nelle scoscese profondità del suo essere. (..)Noi concepiamo l’in-quietante(das Un-heimliche) come quello che estromette dalla “tranquillità”, ovverosia dal nostro elemento, dall’abituale, dal familiare, dalla sicurezza inconcussa. Ciò che è insolito, non familiare, non ci permette di rimanere nel nostro elemento. Ma l’uomo è quanto vi è di più inquietante non soltanto perché svolge la sua essenza in mezzo all’in-quietante così inteso, ma lo è perché fuoriesce, sfugge da quei limiti che gli sono anzitutto e per lo più familiari».
Nella tradizione zen questo stato viene descritto come sentire dentro di sé una sfera incandescente di ferro rovente che non possiamo né deglutire né sputare: che fare? Forse non possiamo fare nulla. Non possiamo evitare la nostra abissale problematicità, ma solo viverla pienamente, cavalcarla, come un’onda che, se presa bene, può condurci a riva:
«Compito autentico è quello che noi non sappiamo e che, nella misura in cui lo sappiamo autenticamente, cioè come compito, sappiamo sempre e solo in guisa interrogativa. Saper interrogare significa saper attendere, anche tutta una vita. Un’epoca tuttavia per la quale non è reale se non ciò che va in fretta e si lascia concretamente afferrare considera l’interrogare “estraneo alla realtà”, qualcosa per cui “non torna conto”. Ma non è il conto l’essenziale, l’essenziale è il tempo opportuno, ossia il momento giusto e la debita perseveranza».
Forse, nella dimensione rovesciata dell’ascolto, lì dove le cose iniziano a vacillare e a prendere vita, dobbiamo diventare noi stessi quella sfera incandescente: per non esserne inceneriti dobbiamo ardere. Perché il nostro Dio è un fuoco divorante(Eb12,29).
*Le citazioni senza nota sono di M.Heidegger, tratte da “Introduzione alla metafisica”.
Il cammino verso la libertà è lastricato di solitudine (almeno all’inizio)!!!
Grazie
Caro Francesco mi insegni che anche i momenti di solitudine possono essere trasformati e valorizzati. Mi è venuta in mente una frase di una grande mistica: “solo il presente conta, l’Eternita’ è fatta di oggi, Dio è colui che è” . Marco Guzzi a settembre 2012 aveva anche presentato un seminario intitolato: “Adesso è un nome di Dio”. Credo che accettare la prova e accettare il presente momento per momento sia l’unica via proponibile per mirare a quello orizzonte più alto e divino al quale infondo aspiriamo e sentiamo nel profondo. Ciao un abbraccio da Fabio.
Grazie Fabio,
un abbraccio
Francesco
Ciao Francesco.
Hai ragione, grazie per questo insegnamento: per non essere inceneriti bisogna ardere.
Pensavo che forse l’ amore è quella tendenza ad essere uniti, che per sentirla necessita la coscienza, che per crescere deve separarsi con sofferenza, per poi riunirsi e goderne.
Buon lavoro.
Andrea
Grazie Francesco!
Solo attraverso la solitudine possiamo avvicinarci all’essenza. Questo è il vero desiderio di ogni essere umano.
Il richiamo al silenzio e alla solitudine è la vera vocazione che permette l’intimità con Dio. Questo è quanto ognuno più desidera, ma pochi se ne rendono conto oppure non accettano questo andare all’essenziale.
Antonio