Nel precedente post dal titolo “L’abisso della malattia” ho provato a descrivere la forza con cui un evento legato alla nostra salute può irrompere nella nostra vita, sradicando certezze e facendoci cadere facilmente in una profonda crisi caratterizzata da domande esistenziali e ricerca di aiuto.
A questo punto possiamo addentrarci in una interpretazione più oggettiva di ciò che chiamiamo malattia.
Secondo una possibile definizione biomedica si tratta di un’alterazione della funzione o dell’integrità strutturale di un organismo vivente in senso dannoso [i]. Gli inglesi, che hanno più termini a disposizione di noi per definire la malattia, chiamano questa dimensione “disease”. Fermandosi a questo modello interpretativo, tipico di una visione biomedica che si basa su principi di causa-effetto, consegue che la cura non può essere altro che la risoluzione di quel danno o di quella alterazione. Se hai la gastrite c’è troppo acido, prendi l’antiacido. Se hai la tendinite c’è troppa infiammazione, prendi l’antinfiammatorio. Se hai gli attacchi di panico c’è troppa ansia, prendi l’ansiolitico. E così via. Ad una alterazione biologica consegue un atto terapeutico in direzione opposta (semplificando, ovviamente). Una sorta di tentativo di distruggere il male con le sue stesse armi.
Allargandosi ad una visione psicosomatica ci accorgiamo facilmente che non esiste alterazione corporea o mentale senza che l’una e l’altra siano contemporaneamente implicate [ii] . Quando siamo ammalati nel corpo la sofferenza ha una forte componente psichica ed emozionale, così come un malessere psicologico si esprime in modo eclatante con sintomi somatici, ad esempio tensione muscolare, bruciore di stomaco, e così via. Gli inglesi utilizzano in questo caso il termine “illness” per esprimere la soggettività del vissuto di malattia, che è sempre peculiare di ognuno, perché sono “proprio io” che soffro, e non qualcosa di separato da me. Allora è importante, per curarmi, prendere in considerazione anche lo stress a cui sono quotidianamente sottoposto, la mia rabbia repressa e i timori correlati ai sintomi.
La malattia ha sempre una dimensione culturale e sociale che definisce l’interpretazione che viene attribuita a diagnosi, sintomi e segni clinici (non solo in senso strettamente medico), il riconoscimento sociale del malato e il modo di curare proposto in quel contesto. Questa dimensione comprende anche relazioni, responsabilità e ruoli sociali che possono mutare in modo temporaneo o definitivo in corso di malattia. Gli inglesi in riferimento a tutto questo utilizzano il termine “sickness”.
A questo punto la definizione di malattia diventa ben più complessa, come complessa è la persona nella visione del “modello biopsicosociale” pensato nel 1977 da George L. Engel, un medico internista e psichiatra americano [iii]. Engel propose un rinnovamento profondo della medicina e della psichiatria, invitando a indirizzarsi verso un approccio integrato e globale alla persona, e quindi a tutte le sue componenti di vita, secondo un metodo sistemico. Purtroppo, per quanto si tratti di un modello largamente accettato in linea teorica, siamo ancora lontani da una sua applicazione sufficiente nella maggior parte dei contesti di cura.
Potremmo quindi considerare la rete di relazioni dell’individuo e il supporto sociale di cui può godere, il rapporto di lavoro, la sua stabilità economica, e così via. Le soluzioni sarebbero di ordine relazionale, politico e sociale, al fine di favorire la risoluzione dei conflitti familiari, facilitare una condizione lavorativa migliore, assicurargli i servizi di cui ha bisogno. Secondo il modello biopsicosociale non è l’individuo, ma piuttosto la famiglia o la rete delle relazioni significative l’unità su cui focalizzare l’attenzione e la cura [iv].
Manca ancora un ultimo fondamentale passaggio, spesso dimenticato: la dimensione spirituale. Questa richiama al senso ultimo delle cose, e quindi anche della malattia. Il significato, o meglio il senso, che diamo a ciò che ci accade dipende largamente da ciò in cui crediamo, dalla fede che viviamo [v]. La malattia è un terreno molto fertile per queste domande, ma altrettanto scosceso e accidentato. Spesso sono proprio i momenti più difficili quelli più propizi per trovare nuovi slanci creativi, per conoscere qualcosa di inaspettato che ci riguarda. Il senso della malattia, come quello della vita o dell’esistenza del tutto, è come un fiore che nasce nel deserto: solo attraversando quest’ultimo, con fatica, dolore e speranza, si può trovare e raccogliere ciò che di più bello vi era nascosto.
Una caratteristica specificamente umana è proprio la ricerca di senso anche nelle condizioni più disperate [vi] e anche l’abisso della malattia può avere nel suo profondo una luce. La persona abituata a questo lavoro può trovarsi preparata e agevolata nel momento del dolore, ma il deserto, si sa, cambia continuamente forma sotto l’impulso dei venti e comunque si deve sempre ricominciare la ricerca. Chi, invece, non lo ha mai fatto può trovarsi smarrito e perdersi in questa aridità confrontandosi con la abissale profondità delle domande ultime: la malattia ci sbatte in faccia la nostra precarietà, il grido di dolore sembra perdersi nel nulla. Viene a mancare così la funzione di un importante farmaco: la speranza [vii]. In questo senso la ricerca interiore, lo studio, l’autoconoscimento, il silenzio e la preghiera diventano dei veri e propri mezzi di prevenzione e cura. Se perdiamo il senso siamo morti, se lo troviamo siamo salvi.
A questo punto la cura si amplia a qualsiasi ambito e a qualsiasi momento della vita, e non tanto ai momenti successivi alla diagnosi.
Di seguito un grafico che ho realizzato (traendo spunto anche da altri simili) alcuni anni fa, che tenta di sintetizzare le varie componenti della persona e della sua salute, con al centro il risultato del loro “perfetto” equilibrio: un benessere generale (qui denominato “globale”), o se volete la perfetta salute (argomenti approfonditi nei precedenti articoli di DarsiSalute). Ovviamente non voglio certo far passare il messaggio che sia necessaria una condizione di perfezione, ma sottolineo solo la correlazione tra i vari aspetti della vita e la complessità che ne deriva.
La corporeità è quindi intrinsecamente abbracciata a tutte le altre dimensioni della vita umana. Allora è chiaro che la malattia, anche quando ha un’espressione principalmente organica, non è solo un’alterazione dei tessuti e degli organi coinvolti. Questa complessità può impaurire, soprattutto chi è abituato a considerare singoli aspetti specialistici, ma si può provare a partire dal quadro generale, per poi spostarsi sul particolare (e non viceversa) considerando prima la persona, poi la sua malattia, i suoi esami e le sue terapie.Il filosofo Hans-Georg Gadamer riporta in un suo saggio un famoso brano del Fedro di Platone che osserva: “come famosi medici greci avevano già affermato, la guarigione del malato mediante l’intervento medico risulta impossibile senza la cura dell’anima, e che, anzi, forse questo non basta neppure, in quanto è necessario un sapere che comprenda la totalità dell’essere”. Curiosamente fa notare che “totalità dell’essere” in greco (hóle ousía) può significare anche “l’essere sano”, concludendo che “le condizioni generali dell’universo e la salute appaiono strettamente connessi. In effetti quando ci si ammala si dice che mancano le forze” [viii].
Dalla persona nella sua interezza, col proprio vissuto, le implicazioni sociali e relazionali e la sua profondità spirituale, deriverà il suo modo peculiare di guarire o, per lo meno, di lasciarsi curare.
In conclusione non credo di aver risposto alla domanda “cos’è la malattia?”, ma spero almeno di aver dato un piccolo contributo per descriverla meglio. Restano ancora tante domande aperte: la malattia è un mistero, grande come la nostra stessa esistenza.
[i] Dizionario della Salute – Corriere della Sera, voce “Malattia”
[ii] Baldoni F. (2010). La prospettiva psicosomatica. Bologna, Il Mulino. Pag. 18.
[iii] Engel G. L. (1977). The Need for a New Medical Model: A Challenge for Biomedicine. Science, 196(4286), 129–136.
[iv] Baldoni F. (2010). Pag. 268.
[v] Questi aspetti vengono approfonditi in tutta la bibliografia di Darsi Pace e nelle conferenze di Marco Guzzi dal titolo “Dare un senso al dolore” e “Il senso della vita – Marco Guzzi interviene su malattia e medicina” disponibili sul canale YouTube di Darsi Pace.
[vi] L’esperienza dello psichiatra e filosofo austriaco Viktor Frankl nei campi di concentramento è paradigmatica in questo senso.
[vii] Benedetti F. (2018). La speranza è un farmaco. Come le parole possono vincere la malattia. Mondadori.
[viii] Gadamer H. (1994). Dove si nasconde la salute? Ed. It. Milano, Raffaello Cortina Editore. Pag. 82.
Caro Luigi il tuo post mi tocca profondamente nella carne e nello spirito. È scritto bene e chiarifica molte cose. Convivo con una grave malattia cronica da molti molti anni che mi ha fatto cercare e sperimentare molte cose. Ma tra tutte le risposte che ancora oggi riesco a darmi devo dire che la tua conclusione resta ancora quella che sento più giusta e più valida: la vita e la malattia sono veramente un grande mistero. Insieme impariamo a navigare e ad attraversarlo. Grazie Un abbraccio e un caro saluto da Fabio.
Bella riflessione PIER Luigi, che reso in parole e condividendolo puo essere piu che utile per una considerazione umana prima di giudicare un mal-essere o malatia vero e proprio di tanti. Dunque non solo di chi vive la malatia ma anche di chi puo imparare ad avere una visione amorevole e comprensivo verso chi vive la malatia, piuttosto che farne un motivo di chiacchere in compania escludendo l’affetto.. cosa che sinceramente accade spesso in soceta e non siamo in grado di vedere una possibilità di interagire con questo disagio. Qui si apre un mondo di motivazioni possibbili, ma mi fermo così. Grazie per le tue parole e e la ricerca che condividi.
Sono venuta a contatto con la malattia degli altri – nonno, zii, mamma – fin da piccola, ne ero spaventata. Da giovane si sono aggiunte quelle di papà e di mio fratello e ho cominciato a intuire che la malattia segnalasse anche un disagio più profondo.
Due anni fa un tumore al seno è arrivato a me come un fulmine a ciel sereno mettendomi a contatto con la mia malattia.
Grazie al lavoro di questi anni in Darsi pace sono riuscita ad attraversarla come opportunità di conoscenza di me stessa cercando di comprendere cosa veniva a dire di me e a me.
Ho visto scatenarsi le mie modalità difensive che ho cercato di guardare con occhi benevoli per mantenermi in relazione con familiari, amici, medici curanti sia durante l’attesa della diagnosi che durante il ricovero ospedaliero per l’intervento chirurgico.
Ma la chemioterapia, prosecuzione della cura definita preventiva, mi ha fatto ripiombare nell’abisso spaventoso in cui cercavo appigli sicuri che non trovavo, mi sentivo fatta a pezzi e con tanta fatica lottavo per tenermi insieme, il mio tentativo di esprimere ai medici questo stato d’animo mi tornava come una grande frustrazione.
Guardare la mia malattia con la consapevolezza di oggi ha significato e significa per me accogliere la mia precarietà, ascoltare il dolore profondo che viene a galla, lo stesso dolore del passato dal quale fuggivo pensando che fosse solo mio, imparare a gridarlo, a chiedere aiuto e a condividerlo.
Siamo tutti malati, il nostro cuore è diviso, e riconoscerlo ci aiuta a cercare la cura, a navigare insieme verso la vera guarigione nel mistero che ognuno di noi è.
Grazie Pier Luigi a te e al gruppo Darsi Salute per il lavoro che state realizzando.
Un abbraccio, Giuliana
Pier Luigi Masini, thank you for this post. Its very inspiring.
Grazie Pier un bellissimo articolo.
La metafora del deserto fa capire quanto in profondità sia andata la tua anima quando hai deciso di fare il medico.
Un grande abbraccio
Grazie Pier Luigi, per il tuo articolo nel quale percepisco il tentativo di essere e non di fare il medico, di stare concentrato sulla persona e non solo sul sintomo o solo sulla malattia.
Perché se ho ben capito, sintomo o malattia, sono espressioni ancora misteriose ed abissali di parti di noi ancora infondo sconosciute.
La mia personale esperienza di malattia è molto legata alla dimensione psichica, quasi 25 anni fa (il 19 giugno 1994), ancora ragazzo appuntavo su una specie di diario, questo pensiero:
Sono malato
malato di questo tempo
che forse non è il mio,
c’è l’ho addosso
non me lo posso togliere (impazzirei)
ormai è la mia vita.
Giorno dopo giorno
mi danno un vestito
che non mi posso levare.
Da allora,
da quando ho percepito nella più totale solitudine (e presunzione di farcela da solo), in un profondo stato di dolore, che “questo mondo” non ci appartiene, che cioè ha il suo padrone (la scissione, la nostra separazione), ma non appartiene allo spirito creatore, da quando cioè ho dovuto abbandonare per paura di impazzire il contatto di parti di me molto profonde, la mia carne ha cominciato a manifestare una serie di sintomi e disturbi fastidiosi, a volte dolorosi, nel corpo (infiammazioni e contratture di ogni tipo) e nella psiche (paure, chiusure e fughe centrifughe da me).
Riuscire a dare senso, è stato l’inizio della cura, ora dopo tre anni di cammino in Darsi Pace in compagnia di “me stesso”, questi stati dolorosi, li chiamo energie “fuochi, fiamme, in-fiamma-azioni” bloccate, e così alcuni disturbi cominciano ad allentare la loro morsa, perché sono leggermente più libere di fluire, più ascoltate, più contattate, perciò quello che scrivi nella seconda parte del tuo articolo per me è concretissimo.
In questo momento è di vitale importanza, dare senso a tutto ciò che vivo, lavoro faticosissimo (perché richiede una morte continua) e divertente allo stesso tempo, perché libera spazio nell’anima, ed in Darsi Pace sto per fortuna lentamente imparando che questo groviglio pesante ed intricato di pensieri ed emozioni, non sono io, quando me ne ricordo è un vero sollievo.
Chi sono ancora non lo so, ma sapere che io non sono tutto questo, è per me davvero liberante.
A questo mi sta portando la pratica e quell’osservazione di me più complessa (non complicata), che sintetizzi bene nel tuo grafico… a capire cioè che io sono un luogo di eventi, e che io posso decidere a quali aventi partecipare, a quali eventi dare spazio, che quel ragazzo di 19 anni sentiva giusto, ma non conosceva (ed ancora dimentica) la possibilità
e la libertà della scelta, soffriva (e soffre) perché si identificava (ed identifica) con questo mondo, non con il Sé che lo genera, se mi svuoto da ciò che credo di sapere di me, milligrammi (forse meno) di tensioni si allentano, e per il corpo e per l’anima se pur ancora contratti, è un gran sollievo.
Grazie Giuliana per la tua condivisione, mi da sempre piacere nello spirito e nel corpo sentire racconti di vita, che mi fanno percepire come lo Spirito effettivamente si incarni, anzi direi che per me la carne (quella vera, quella che ancora non siamo) è Spirito.
Mi pare che nei racconti di vita, di sofferenza personale (fisica o psichica) quando sono luoghi attraversati, lo spirito si racconti, si celi ed anche si sveli.
Un grazie ed un caro saluto
Stefano
Grazie davvero per questi commenti così ricchi di vita vissuta e carichi di ricerca e sofferenza! La vostra risposta mi dice che non sono solo pensieri, teorie, o idee, ma una rappresentazione, seppur limitata, della realtà. Questo è molto importante, perché siamo alla ricerca della Verità, non intendendo una dimostrazione dei fatti, ma nel senso che vogliamo dirigerci ogni momento verso ciò che è più vero, che rispecchia meglio chi siamo e perché siamo qui. E lo facciamo con le parole, nelle relazioni, quindi da esseri pensanti abbiamo bisogno di pensieri, teorie e idee che ci dicano che siamo sulla strada giusta.
La malattia cronica, come nel caso di Fabio, ci mette di fronte a limiti che gli altri non hanno, che di solito aumentano il loro peso col tempo che passa. Serve davvero tanta fiducia/fede per poter accettare, momento per momento, che non si è più quello di prima, per non lasciarsi andare ad un senso di scivolamento verso il baratro.
Come suggerisce Giuliana, la malattia può svelare qualcosa di noi, perché ci mette alla prova e lo fa senza chiedere permesso. La ricerca interiore ci porta a confrontarci con le più dolorose ferite, attuali e del passato, e talvolta sono proprio le malattie a rappresentarle o a riaprirle. Se nel caso di Fabio si tratta di un lento sgretolamento, per Giuliana può trattarsi di una valanga improvvisa. In questo percorso, citando Giuliana, ci accorgiamo che “Siamo tutti malati, il nostro cuore è diviso, e riconoscerlo ci aiuta a cercare la cura, a navigare insieme verso la vera guarigione nel mistero che ognuno di noi è”. Quindi non c’è più medico né malato, possiamo venirci tutti incontro, comprenderci, sostenerci, e camminare a fianco gli uni degli altri.
Stefano ha vissuto molto consapevolmente un momento di scissione: di fronte all’inaffrontabile abbiamo bisogno di scollegare la parte più dolente per sopravvivere. Ma questo non è indifferente, e non è nemmeno una soluzione definitiva: il corpo (ma anche la mente!) ce lo ricorderanno sinché non riusciremo a ricontattare quelle ferite per curarle, riportando gradualmente maggior unità al nostro essere, riportando la Vita dove era venuta meno.