Quello che segue è la riduzione di un intervento tenuto dal sottoscritto presso la sede di Frascati Poesia, che prende le mosse dall’introduzione di Marco Guzzi al mio volume di poesia “Imparare a guarire” (Di Felice Edizioni, 2018). L’intervento integrale contiene anche alcune poesie del libro, ed è consultabile presso il mio blog personale.
Perché connettere poesia a guarigione? E soprattutto, abbiamo davvero bisogno di guarire? Scrive Guzzi nelle sue righe di introduzione al volume, che “lo stato di malattia, e di malessere universale, sembra aver raggiunto un livello terminale, una soglia di insostenibilità, che mette a repentaglio la stessa sopravvivenza della specie umana sul pianeta terra.”
Riconoscere di essere accomunati da un disagio così forte, segno di questo passaggio di epoca che molti filosofi rintracciano come cifra significativa nel decodificare le complessità e contraddittorietà del tempo attuale, è il primo passo necessario. Ci motiva con decisione a ricercare, finalmente, non più strategie spicciole di sopravvivenza, ma a puntare su un sogno più grande. E verificare se la poesia ci può essere compagna, in questo cammino. Se il poeta può aiutarci, e dunque accompagnarci in questo cammino.
Rubo le parole al poeta Franco Arminio, per avvertire che c’è un problema quando si hanno rapporti con i poeti. Il problema deriva dal fatto che il poeta è una creatura patologicamente bisognosa di amore. Una creatura in subbuglio con cui non si può mantenere un’amicizia generica e blanda. Col poeta non ci possono essere pratiche attendistiche e interlocutorie, bisogna gettargli in faccia il nostro amore o il nostro odio, bisogna tenerlo ben vivo nella nostra mente, bisogna pensarlo, parlargli delle sue parole, raccontargli le sue storie.
Il poeta dunque si presenta sul palcoscenico del mondo, interseca le nostre vite indaffarate, con una ricettività particolare, con una irriducibilità alle convenzioni della vita sociale. Ci scrolla dai nostri facili equilibri, dalle nostre connivenze con ciò che non è autentico, e ci richiama prepotentemente – e spesso in modo scomodo – al suo ed al nostro cuore. Questo richiamo può mettere in crisi i diecimila equilibri che, per quanto precari, per quanto inevitabilmente a scadenza, avevamo così prudentemente ed accortamente messo in opera, testato e collaudato. Guarire implica la fatica di iniziare a pensare in maniera diversa, a vedere in maniera diversa. Insomma, un tempo avremmo detto, a convertirsi. La poesia è nostra alleata, in quanto non sopporta strutture di pensiero asfittiche, malate: ci spinge irresistibilmente ad evolverci.
Per iniziare a convincersi, basti pensare alla sostanziale alterità della poesia (e del poeta) verso gli aspetti più massificanti e commerciali del mondo contemporaneo. Il poeta proprio non ha patria nel mondo dell’economia intesa come “misura di tutte le cose”, nell’universo che fa della borsa e degli andamenti dei mercati una moderna divinità, ovvero ciò che realmente “esiste” e sarebbe eresia soltanto porre in discussione. Bene, il poeta è radicalmente altro rispetto a questo, ma la sua alterità è sempre un pungolo al nostro modo di vita distratto e a volte perfino collaborazionista con questo sistema, ed insieme una possibile via di recupero, di guarigione e di riscatto.
Di fronte ad un mondo morente in tante sue manifestazioni, la poesia testimonia (a volte in modo santamente scomposto, allegramente slabbrato) una irriducibile polarizzazione verso la nascita, la rinascita. La poesia traffica sempre con le cose che nascono: sono quelle che davvero la attirano. Volgersi verso l’aurora è una possibile opzione, sempre. Bisogna infatti decidere di guarire, ha detto sempre Guzzi. Accogliere questa ipotesi, è sempre una nostra libera decisione.
Come mettersi all’opera? Come avviare assai praticamente la nostra personalissima e agognata guarigione? Ci interessa in effetti una traiettoria pratica, percorribile, sperimentabile con i sensi, rupestre e sedimentaria, nel senso di una concretezza rocciosa e solida. Fuori di ogni discorso fatto appena di vibrazioni d’aria, che rapidamente si ricompongono. Del resto, la poesia è per gente concreta, che vuole vivere, davvero. In un mondo pieno di parole inutili (e dunque dannose), di sfiancanti ed inutili concettualizzazioni, lei appare come una faccenda felicemente, totalmente antiretorica. Impudica, vibrante e carnale.
Seguo ancora quello che scrive Guzzi nell’introduzione al mio volume, là dove avverte che l’opera della nostra guarigione è un’opera paziente, richiede un lavorio costante sulle fibre dolenti della nostra anima ferita. Siamo chiamati sempre di nuovo ad ammorbidire la sostanza contratta e impaurita del nostro cuore, siamo chiamati a riconoscere tutti i nostri moti interiori, a non negare o rimuovere nulla, neppure gli aspetti più oscuri e penosi. Siamo chiamati a comprendere cosa significhi non giudicare, e non giudicare prima di tutto noi stessi, per lasciarci invece benedire, curare, e appunto così guarire nelle più aspre e sanguinanti profondità.
Così che la guarigione – essa stessa assaporabile come un supremo atto poetico – deve abbracciare la pazienza, deve sposare, amare tutta la particolarità di un percorso, che arriva fino alla temeraria richiesta di riconciliazione con la nostra debolezza, con il luogo stesso della nostra ferita, insomma con il suo sanguinare, finalmente guardato, accolto. Il poeta – uomo o donna che sia – è chiamato ad accogliere la sua recuperata docilità, la sua intima femminilità – espressa con potente valenza simbolica – proprio attraverso questo ostinato sgorgare, questo mestruo non gestibile, non controllabile, del suo stesso sangue. Amare la propria ferita sanguinante, infatti, è l’atto più spaventoso, quasi scabroso, ed è l’atto più risanante, rivoluzionario, follemente creativo, ultimamente gioioso, di quanto si possa pensare. E avviare un’opera così – così importante e così coinvolgente – non può che avvenire attraverso la pazienza, esercitata, richiesta, desiderata. Implorata.
Risanare il mondo, abbandonare ogni iperattivismo e ogni perfezionismo per lasciare operare, è un’opera che non si tenta mai in solitaria, ma si affronta in cordata: è cosa che richiede l’alleanza, la rinnovata alleanza tra donna e uomo, tra nero e bianco, tra credenti in diverse fedi. Anche la poesia è sempre inclusiva, mai escludente. Si impara a fiorire imparando a spostare, faticosamente, le pietre tombali della nostra incapacità a relazionarci, delle nostre umanissime esitazioni a metterci a nudo. Si impara a fiorire, sbilanciandoci nella parte di noi che abbraccia. Che recita versi. Che cerca la nuda bellezza. Che la bacia.
Ecco, il mondo ricomincia a fiorire nelle mani della donna, dell’uomo, che lo accolgono, l’universo si acquieta e si raggomitola nella gratitudine di un moto di assenso, di diversione dall’usato sentire, di un intima propensione a dire sì, stavolta sì, nell’aprirsi alla speranza fiduciosa e rivoluzionaria che c’è molto più di quanto i nostri occhi riescono a vedere, che la realtà delle cose si presta, si piega quasi, alla fuga verso qualcosa di maestoso, di grande, che innerva questo cosmo di speranza buona, fragrante come la pizza appena sfornata del forno in fondo alla strada. Sì, quello con la bella luce gialla dell’insegna che si spande nel blu denso e pastoso del giorno ormai al tramonto.
Contemplando questa speranza, sperandola e contemplandola, ci viene naturale il silenzio, ci viene spontaneo il radunarci in quieta celebrazione di questo silenzio, di questa perpetua speranza di novità nella nostra vita. Di questa alba che, come pensavamo da bambini (quando ancora eravamo saggi), seguirà ad ogni nostro tramonto, sempre.
La poesia è dunque convocata come ospite d’onore, a questo enorme lavoro di rigenerazione e fioritura dell’umano, di riconciliazione del corpo con il cosmo, di redenzione di ogni più piccola fibra d’esistenza. Poesia come balsamo e guida, nella indiscutibile fatica di questo strano ed ancora misterioso travaglio verso un nuovo mondo.
Solo il praticarla, la poesia, potrà persuasivamente sgombrare ogni sospetto: solo la pratica costante ci potrà convincere del fatto che non si tratti di inutili astrazioni, ma dell’incontro amoroso con la carne palpitante, del mondo.
Il volume “Imparare a guarire” (Di Felice Edizioni, Euro 12) è reperibile sul sito ibs.it oppure direttamente scrivendo all’editrice, all’indirizzo di posta elettronica info@edizionidifelice.it.
Grazie Marco per questa lucida riflessione.
Pùngola
Ostinatamente
E
Tace
Alacremente.
Auguriamoci davvero che emergano tanti p(r)o(f)eti!
Uno sguardo limpido sincero e onesto a contatto con il reale che però riesce a risanarlo e a guarirlo e a donare vita fresca e nuova. Leggerò con grande piacere il tuo libro. Che ho già iniziato ad assaporare. Ti ringrazio di cuore
Cari Salvatore, Federica, grazie per aver accolto la proposta di lettura ed aver lasciato il vostro commento!
Cari Fabio, grazie per quello che mi scrivi. E’ stato un dono per me avere l’occasione di nuovo di parlarti a Trevi, e poterti consegnare il mio libro di poesie. Sai che spero di ascoltarne qualcuna da te, se lo vorrai, se le sentirai “tue”, o appena quelle che sentirai tue. Hai indubbiamente un dono nel restituire i versi più “veri” di quanto posso leggerli io stesso… Ti abbraccio!
Orazio, parlando della poesia, cantava:”Ho innalzato un monumento più perenne del bronzo”.
E in realtà, le più grandi civiltà, cosa ci hanno lasciato di imperituro?
Della civiltà egizia restano le piramidi, gli obelischi, i dipinti, i gioielli.
Della civiltà cretese vediamo ancora meravigliose tracce di bellezza.
Dalla tradizione giudaica ci arriva il Cohelet che annuncia il Cantico dei Cantici.
Dalla Grecia abbiamo avuto l’Iliade e l’Odissea, la lirica, il teatro della tragedia e della commedia.
Dal latino l’Eneide e tanto altro, e da Dante Alighieri la Divina commedia.
Sono scie luminose che dopo millenni solcano ancora i nostri cieli, i nostri cuori e le nostre anime.
E’ chiaro che l’eredità delle grandi civiltà è la poesia e non certo le teorie economiche o le politiche o le sociologie degli Egizi, dei Greci e dei Latini.
Nelle menti di troppi uomini pur di buona volontà persiste il dubbio che alla fin fine a decidere le sorti dell’uomo siano economia e politica, mentre poesia e filosofia e spiritualità e fede siano ambiti secondari, se non “sovrastrutturali”.
Ma se “lo stato di malessere universale sembra aver raggiunto un livello terminale”, la soluzione non sta nell’economia o nella politica che, pur necessarie, oggi sono parte del problema.
Allora posso provare a guardare il poeta che “ci richiama al suo ed al nostro cuore”.
E convengo con te, caro Castellani, che possiamo “Imparare a guarire” e vedere “Nella mia storia Dio”.
Accenni al cuore e aggiungi che la poesia ” é impudica, vibrante, carnale” e porta “all’incontro amoroso con la carne palpitante, del mondo”. Cioè dell’umanità e delle relazioni umane.
Allora penso al cuore, ai suoi de-sideri, e alle relazioni amorose: per attingere i più alti livelli, eros può partire dalla donna angelicata per poi incarnarsi e fiorire in libertà e creatività.
A noi basta tener presente quanto ci viene autorevolmente insegnato sui desideri, cioè di fare attenzione, perchè potrebbero avverarsi: essere sè stessi è giusto e bello, anche se tutti sperimentiamo le rose e le spine, e le lasciamo essere. O no?
Ciao, GianCarlo
Molto bello questo scritto sulla dolce potenza della poesia. Il poeta è innanzitutto una persona in ascolto del suo profondo sentire, riuscendo a tradurlo in parola, la quale a sua volta germoglia nell’animo di chi l’ascolta. Sono molto d’accordo con quanto scrive Franco Arminio sul “problematico” rapporto con i poeti. Il poeta infatti, al pari di chi si mette veramente in gioco, non può tollerare ipocrisie o sterili convenzioni. Donde il manierismo poetico, come tutti i manierismi artistici, rappresenta secondo me un comodo mezzo per potersi esprimere ma in una forma impersonale: “si deve fare in questo modo”, “si scrive in questo modo”, “si dipinge in questo modo”. Questa non è poesia nel senso ben espresso da M. Castellani, bensì un più semplice e comodo esercizio di retorica.
Caro GianCarlo, caro Federico, grazie per i vostri commenti.
Mi sembra che vi sia un ilo rosso che accomuna i vostri due interventi, ed è quello dell’attività poetica come strumento di cambiamento e liberazione, in sé stessi e nel mondo (sappiamo ormai che sono cose che non si possono separare). Vi ringrazio perché avete colto il senso del mio intervento, e direi forse quello che modestissimamente mi pare il vero senso della poesia, in questi tempi estremi.
Se infatti non fosse un canale privilegiato di connessione tra emozioni e prassi, se non fosse la declinazione pratica (o una declinazione pratica) di quel “ripartire dalle emozioni” che è all’inizio del manuale Darsi Pace, ed è più in generale all’inizio delle moderne interpretazioni del senso stesso del conoscere, certo non avrebbe questa importanza.
Il processo stesso del conoscere, infatti, è intrinsecamente “emozionale” ed assai meno “asettico” di quanto si voleva credere e far credere (leggevo cose molto interessanti in tal senso nel libro “Perché il buddismo fa bene” di R. Wright). Così capisco meglio come la scrittura “emotiva”, la vera poesia, è non solo più ricca del discorrere dialettico, ma è finalmente una forma espressiva completa, che gioca simultaneamente sui registri del cuore e dell’intelletto: dunque onorandoci davvero come persone, e non appiattendoci al ruolo di unità “cogitanti” che a mio avviso è una riduzione intollerabile e insana.
Penso dunque esisto? No, affatto! E’ una menzogna. E’ una riduzione violenta.
Questo tipo d’uomo non ha bisogno della poesia, non sa che farsene.
Ma questo tipo d’uomo, soffre e fa soffrire…
Sento dunque sono persona umana, in corsa verso la completezza.
Apro la mente e il cuore allo spettro di comunicazioni a larga banda, e in questo “5G” sempre accessibile, c’è la vibrazione benefica della poesia, che è eco della Parola che crea e ricrea il mondo, dona spessore d’esistenza all’Universo, ad ogni istante.
Grazie!
Grazie di cuore per questo post poetico e per i diversi commenti che piu di una medicina e senza controindicazioni nutrono l’anima e danno sollievo al corpo confermando la positiva forza creatrice della Parola capace di riorientarci sulla bussola del cuore.
Piange prega palpita per
Ogni
Esistenza
Sedotta dal male
Invoca invita
Attende invisibile certo Amore
Un abbraccio speciale a Fabio e Paola e grazie a tutti i compagni di strada
Giuseppina