I.
Spesso pensiamo che per “andare nel mondo” dobbiamo essere aggressivi, forti e cinici. D’altronde questo è il messaggio che ci viene inculcato 24 ore su 24:
il mondo non ti aspetta, bisogna prendere al volo le opportunità, svegliarsi, rincorrere l’ultima novità. Bisogna essere smart, rimanere aggiornati, “what’s up?”
L’ansia generalizzata attraversa i corpi e le menti febbricitanti, impiegati nella grande macchina del mercato globale, la cui mano invisibile dirige i desideri e i pensieri delle persone. Bisogna produrre e consumare, produrre e consumare, in una catena di montaggio che assurge a simbolo universale della condizione umana: ikea!
Le persone perciò pensano che per poter sussistere in questo sistema debbano adeguarsi, essere forti, resistere invece di esistere. Dalla dicotomia legale-illegale che scandisce la prassi del diritto siamo passati a quella funzionale-disfunzionale che è il nerbo stesso della società neo-liberale. Se la legge ultima è il mercato infatti, la legalità intrinseca degli stati e degli individui è data loro dalla capacità di essere all’altezza delle regole efficientiste della produzione, ormai slegate da ogni connessione etica con la società. Legale è ciò che in attivo, ciò che fornisce una prestazione idonea ed efficiente ai fini della produzione. Illegale è ciò che è in debito, che non è in grado di farcela, di reggere ai ritmi della macchina.
La mano invisibile del mercato seleziona chi è in grado di avere il proprio bilancio, la propria economia psico-politica in ordine, e chi invece soccombe.
Ecco che l’ideologia che serpeggia fra il popolo, sapientemente alimentata dai mezzi della propaganda informatica, è quella di una super-umanità, senza scopo né direzione, la cui unica ragione di vita è quella di reggere nel breve periodo.
Le palestre, assieme alle serate notturne, divengono perciò non-luoghi simbolo della condizione alienata dell’individuo contemporaneo. Il mio corpo diviene il primo oggetto e soggetto della pratica neo-liberista di auto-potenziamento.
I visi sono tesi e incattiviti, i vizi onnipervasivi, la pelle sempre più tatuata per rappresentare una iniziazione alla non-vita delle metropoli la cui insostenibilità viene sublimata mediante la sua esaltazione nichilistica(Rap, techno).
Così come l’odio verso i genitori viene traslato nel suo opposto, rendendo il figlio docile e mansueto, così quello dei cittadini viene anestetizzato e rivolto contro se stessi, oppure contro i propri simili, impedendo con ciò la sua canalizzazione verso pratiche rivoluzionarie attive.
II.
Psicologicamente sappiamo che ogni volontà di potenza, ogni irrigidimento nei confronti della realtà e delle relazioni sociali, nasce come compensazione organica di un complesso di inferiorità. Ovvero tanto più profondo è il senso di inferiorità, tanto più marcata sarà la compensazione.
Il senso di inferiorità tuttavia è anche sempre una ferita bruciante. Ogni qual volta non corrispondiamo alle esigenze funzionali della vita o della società, è come se subissimo una sconfitta che tocca la nostra stessa identità, e quindi la nostra stessa esistenza.
Il fallimento, la debolezza, prevedono la possibilità dell’esclusione, di essere ostracizzati.
Ciò che ne va nel non essere all’altezza, è la nostra stessa esistenza.
L’impotenza perciò è il pericolo numero uno dell’individuo che voglia adattarsi a questo sistema sociale.
III.
Fin qui tutto bene(Sic!). Ovvero se effettivamente la competizione selezionasse in modo efficace coloro i quali sono in grado di sostenere il sistema di produzione e consumo indefessi, non vi sarebbero problemi.
Dovremmo prendere in seria considerazione, così come è stato fatto lungo tutto i due secoli precedenti e da scuole economiche di prim’ordine, l’idea di una civiltà configurata secondo la selezione naturale del più forte e della logica di potenza.
Chi non è idoneo, chi non ce la fa, non ha diritto di partecipare della vita della comunità. Un’oligarchia dominante, che detiene i mezzi di produzione e di informazione, così come le chiavi del potere politico (in quanto i governi ospitano fra i loro membri personalità di questo stesso enclave esclusivo), diventerebbe di fatto la garante ultima della legittimità del sistema. In quanto il potere politico si fonda sempre, da ultimo, su una legittimità che vincola governati e governatori.
Ma chiediamoci: “possiede per davvero una legittimità questo sistema psico-sociale? Questa plutocrazia oligarchica finanziaria? Corrisponde cioè veramente alle esigenze della popolazione?”
IV.
Qui è il punto decisivo: il sistema attuale è, letteralmente, insostenibile. Possiamo continuare a non tenere in conto la tenuta psico-somatica delle persone, ma non quella dell’ecosistema che ci sostiene.
Questa forma di civiltà può proseguire per alcuni decenni, magari per un paio di secoli ancora, ma a che prezzo?
Siamo davvero così scellerati da sacrificare la nostra esistenza in nome del profitto, della massimizzazione dei vantaggi e del benessere acefalo?
Ecco che allora, tornando al primo punto, siamo chiamati a sviluppare una nuova antropologia, che accompagni al contempo un lungo processo di conversione delle dinamiche strutturali della società, della politica e dell’economia.
Se la via della volontà di potenza è impraticabile, non dovremo forse rivolgere il nostro sguardo proprio a quel buco dolente da cui essa trae origine?
Non dovremo iniziare a fare i conti, individualmente e come comunità, con la nostra impotenza, angoscia e inferiorità originaria?
Ciascuno di noi infatti ospita in sé elementi preponderanti di impotenza, di debolezza e inferiorità. Basta una malattia per costringerci a letto, oppure un dolore affettivo per mandare in subbuglio l’intero progetto della nostra vita.
La verità è che siamo fragili, radicalmente precari, vacanti in un universo infinito e misterioso. Nelle nostre profondità abita una paura enorme, che è un abisso.
Questa ricerca spasmodica di un fondamento, su cui la stessa filosofia neoliberista si fonda, in quanto la sua forza sta proprio in questa pretesa di potere misurare tutto l’esistente e renderne conto razionalmente, è in realtà patologica.
Il fondamento(grund) si scopre sfondato, a sua volta poggiato su un abisso(abgrund).
Noi non possediamo la realtà nella quale abitiamo. Non siamo i possessori, produttori e consumatori dell’esistente, ma i suoi custodi. L’apertura all’abisso infatti trasforma lo sguardo del soggetto, da catturante a ricevente, e quindi da capzioso-cattivo a fluido-aperto.
V.
Ecco che la via dell’impotenza potrebbe essere perciò una pratica rivoluzionaria nella quale rinascere assieme. Nella misura in cui mi consento di essere debole e di essere fragile; nella misura in cui mi consento di essere vuoto e di non avere risposte, sono in realtà forte, saldo, integro e responsabile.
Nella misura in cui accolgo la mia paura, la mia angoscia e la mia disperazione, posso lasciare emergere un coraggio, una serenità e una speranza autentiche.
La gioia infatti è la pre-condizione di ogni attività veramente efficace.
Ed è solo recuperando e integrando le aree di noi che rifiutiamo, che possiamo per davvero crescere e divenire una totalità dinamica, e non uomini-macchine a una dimensione.
Una società veramente ricca è una comunità che esalta i suoi individui, che soccorre i più bisognosi, che consente una crescita organica e sostenibile dei suoi membri e dell’ecosistema. È una società che alimenta la rete della sua vita tramite sentimenti sani come l’empatia, la cooperazione, il rispetto reciproco e il sostegno fraterno.
È una società che mette al centro ciò che deve stare al cuore dell’esistenza:
le relazioni, gli affetti, il lavoro nobilitante, l’aspettativa di un futuro, la creatività.
La produzione e la sopravvivenza hanno senso all’interno di un progetto pro-creativo di espansione della vita, non viceversa.
Una società che si fondi sulla liberazione permanente dei suoi individui avvierebbe una stagione rivoluzionaria della storia umana, nella quale le nuove possibilità evolutive verrebbero messe al servizio di una esistenza ricca e gioiosa.
In fondo potremmo scoprire che abbiamo bisogno di molto meno di ciò che ci aspettiamo da un lato, e molto di più dall’altro. Molti meno beni di consumo e molto più contatto relazionale.
La via dell’impotenza potrebbe aprirci a relazioni e scoperte esistenziali, la cui forza donerebbe a ogni istante la bellezza del suo avvenire.
Condivido pienamente sia l’analisi sia le proposte operative. Spero solo di avere la forza di porle in atto. Parafrasando una vecchia affermazione di Gaber non temo tanto il neo liberista in sé quanto il neoliberista in me
Ciao Francesco. Proprio l’impotenza ho trovato facendo un esercizio a nove punti. L’impotenza da accogliere. Le tue parole mi hanno risuonato. Grazie
Grazie Francesco!
In Darsi pace impariamo a riconoscere l’impotenza come fragilità-povertà e non come fallimento, una resa che si fa apertura più consapevole alla dimensione dello spirito e della fede, apprendimento di un linguaggio dialogico, “coniugale”.
Il monologo dell’io ego-centrato è sempre più esaurito, sfinito, disperato, come la cultura e la politica che su di esso si sono costruite; ora sperimentiamo che se ci mettiamo in ascolto delle fonti dell’Essere e le lasciamo parlare, l’impotenza apre ad un nuovo Inizio della storia, nostra e del mondo.
Allora ristrutturiamo il mondo moderno, reinventiamolo da questo profondo luogo di ascolto e con attrezzi nuziali.
Un abbraccio, Giuliana
“Ecco che la via dell’impotenza potrebbe essere perciò una pratica rivoluzionaria nella quale rinascere assieme. Nella misura in cui mi consento di essere debole e di essere fragile; nella misura in cui mi consento di essere vuoto e di non avere risposte, sono in realtà forte, saldo, integro e responsabile. Nella misura in cui accolgo la mia paura, la mia angoscia e la mia disperazione, posso lasciare emergere un coraggio, una serenità e una speranza autentiche.”
Sì in questo mi sento di convenire. E’ una pratica rivoluzionaria davvero, anche dire “non ce la faccio”, ammetterlo trasgredendo al terribile comandamento moderno di “essere prestanti” (nel senso di prestazione), quello che Vasco cantava come “Vivere (vivere) / Anche se sei morto dentro / Vivere (vivere) / E devi essere sempre contento / Vivere (vivere) / È come un comandamento”
C’è invece un certo modo di ammettere, “non ce la faccio” che è una contestazione alla gabbia, che non porta alla disperazione ma la smorza, lascia spazio per un respiro profondo, per un’aria – potenzialmente – nuova.
C’è, in altre parole, un modo poetico per arrendersi alla ricchezza di colori e sapori del mondo, ben più attrezzata dei nostri pensieri monodimensionali (siano pensieri cattolici, atei, agnostici… sempre pensieri sono). C’è una resa che è un rientrare nel cuore della faccenda, ed è un movimento cosmico che fa tremare i quasar più lontani.
Imparare a guarire è, forse, imparare (in) questo movimento, perpetuamente fondato sulla nostra impotenza.