Tendenzialmente la salute la diamo per scontata, spesso ci scherziamo sopra, fino a quando qualcosa in noi si interrompe, si spezza, singulta. Allora, mi sento malata e voglio che qualcuno si curi di me, e mi guarisca. Mi dibatto, protesto, cerco affannosamente un aiuto.
Ma se voglio guarire, intanto ho bisogno di imparare ad ascoltare per discernere il sano dal malato, cosa non così ovvia come potrebbe sembrare.
L’ascolto di sé è un addestramento quotidiano. Per poco che ci addentriamo nel suo territorio, ci rendiamo conto che in realtà sappiamo ascoltare ben poco.
L’ascolto inizia da qui, dalla mia concretezza corporea, dalle percezioni sensoriali che arrivano da ogni parte e che chiedono di essere distinte con raffinatezza. La contrazione dei muscoli parla della mia storia, delle mie paure. La neurofisiologia racconta proprio come i muscoli del viso, del collo e delle spalle siano i primi ad essere attivati quando si mette in moto la reazione ad una situazione di pericolo. Quando ci sentiamo minacciati, per qualunque ragione, magari una ragione che addirittura affonda le sue radici nel profondo della nostra infanzia, la prima modalità di difesa che scatta è quella sociale, parte automatica la ricerca di un appiglio nell’altro che ci è vicino. La prima difesa è cioè la ricerca della sicurezza nella presenza dell’altro. Per questo la comunicazione tramite la mimica facciale e la postura diventa cruciale. Quando questo meccanismo non porta buon frutto, cioè ci rendiamo conto che non abbiamo nessuno accanto oppure che è proprio chi ci sta accanto ad essere minaccia per la nostra incolumità, le contrazioni di viso e spalle vanno fuori controllo e alla fine, ad evento concluso, ci ritroviamo con muscoli indolenziti e doloranti.
Se continuo l’ascolto, imparo a conoscermi: il battito del cuore, il ritmo del respiro, il calore diversamente distribuito lungo il corpo, l’intestino che gorgoglia. Ho voglia di fare pipì e sento il livello dell’urina salire in vescica.
Ascolto le mie paure, ci vado dentro fino ad affondare nel punto dove l’angoscia è distillata purissima. Ascolto ancora l’oppressione sul petto, le strizzate nella pancia, e provo a lasciare andare. Ascolto il sollievo. Lo sento soltanto dopo un lungo apprendimento: anni di esercizi per un soffio leggero, ma è nel tenue che trovo un’intuizione di conforto. Dal chiasso ordinario di sensi confusi non viene sapienza. Se tendo l’orecchio che sono e mi concentro e faccio silenzio, posso sperare di sentire quella parola da cui sgorga la vita, anche la mia.
La raffineria lavora a pieno regime per separare ciò che mi piace da ciò che mi dà disagio, ciò che mi sana da ciò che mi inquina e mi ammala.
L’ascolto di sé non è però a circuito chiuso, fine a se stesso. L’ascolto di sé è il terreno di coltura per imparare l’ascolto dell’altro/Altro. Come spesso ci ricordiamo in DP, come posso dare ciò che non ho?
Allora forse la salute ha a che fare con l’ascolto di sé a grana fine, imparare le differenze sottili per capire cosa ha bisogno di essere curato. L’ascolto è nel dettaglio ad ampio spettro, l’alluce sinistro come la paura di morire, i succhi gastrici che refluiscono come l’osservazione del proprio sistema di credenze.
L’ascolto preciso favorisce la richiesta di aiuto. Se allo stesso tempo sono ascoltata, se l’altro mi raggiunge qui in questo stato di bisogno, allora insieme potremo intraprendere la risalita. Non è detto che ritornerò nel luogo di partenza, molto probabilmente sarò condotta altrove, ma lo farò in compagnia.
Ho bisogno di operatori sanitari che, dallo stesso punto di ascolto, sappiano leggere insieme a me la mia esigenza di cura. Ho bisogno di una rete affettiva (famiglia, amici) disposta a rassicurare i miei tentennamenti. Ho bisogno dell’organizzazione sociale a livello istituzionale che si percepisca reale servizio, cioè si lasci guidare dalla relazione caso per caso, più che da regole standard che difficilmente sono adatte ad affrontare problemi personali.
La nuova umanità che tanto desideriamo nasca avrà l’orecchio teso e la mano aperta e avrà il coraggio di rimanere così, per mettere in circolo la sapienza della cura intesa come prendersi cura di sé e dell’altro che mi sta accanto, perché tutti alla fine vogliamo guarire, cioè vivere in pienezza.
Cara Iside, ciao!
Leggendo il tuo post sono stata sollecitata a immaginare sul ‘quando’ l’ ascolto di cui tu scrivi
si potrà mai realizzare in modo diffuso e reale. Mi rendo però anche conto che se ognuno di noi, invece di fare la sua parte (ascoltandosi e ascoltando l’Altro fin da ORA) sposta il suo impegno personale ad un imprecisato e ottimale ‘momento x’ , non si metterà mai in moto un processo di cambiamento che possa contaminare il proprio, e quello degli altri, contesti di vita.
Comunque una ‘fatica’ sicuramente da affrontare per stare tutti meglio…
Grazie per gli spunti di riflessione sempre stimolanti che ci offri!
Un abbraccio, mcarla
Grazie cara Iside!
Saper ascoltare e sapersi ascoltare una grande cura da somministrare ad ogni mio respiro. Questa pedagogia del cuore sta creando l’uomo nuovo che stiamo diventando. Per me è un grande conforto!
Vanna
Grazie Iside, un grande lavoro interiore ci aspetta, e sapere di avere l’aiuto di tanti amici e compagni di viaggio rende tutto più “leggero” e fattibile, almeno lo spero!
Ascoltarsi è una delle prime azioni che intraprendiamo nel nostro percorso ed è anche quella che, si spera, non lasceremo mai. Come scrivi, servono allenamento e costanza, per giungere a riconoscere, almeno, qualcosa di ciò che siamo.
Siamo così distratti da credere che la corteccia sia l’albero e che l’intero non sia importante, concentrandosi sull’apparenza e dimenticando al più presto lo screzio del vento passato.
Quando mi ascolto trovo molta umanità ferita, e se non la rifiuto, ma me ne prendo cura con accettazione, comincio a sentire una carezza guaritrice che asciuga le lacrime della sofferenza e inizia a dar loro un senso nuovo.
Allora mi guardo attorno e vedo che lo stesso è presente in ogni compagno di viaggio, in ogni cuore e in ogni anima. Non posso fare altro che amarlo, così come ho amato me stesso, così come ho amato il mio dolore, quello che era prima il mio nemico.
Se non passo da questa porta, così stretta e bassa, non posso esse rivestito di nuovo e dar luce all’umanità nascente. E ogni giorno, ogni momento, è un passaggio.
La cura medica non è più importante di quella più propriamente umana in questo senso. Il miracolo accade quando le due si fondono e non c’è più distinzione tra l’una e l’altra.
Grazie cara Iside per questa opportunità di riflessione e confronto.
Come per molte questioni nella vita, si tratta di coniugare una prospettiva a lungo termine con una che mi metta in gioco nel qui ed ora. Mi pare che occorra un impegno personale, quotidiano, indefettibile che non si preoccupi troppo di raggiungere obiettivi di grandi cambiamenti disegnati a priori, ma che abbia la ferma fiducia che questi verranno proprio a partire dal mio personale indefettibile impegno quotidiano. Così per l’ascolto: ci provo, tutti i giorni, sapendo che quell’umile gesto non resterà mai da solo, ma avrà inevitabilmente conseguenze. E noi crediamo che le conseguenze siano grandiose, di una potenza trasformativa radicale. Il piccolo gesto di uno si intreccia con quello dell’altro e insieme scopriamo il sostegno della reciprocità che incrementa la fiducia.
L’ascolto delle ferite è possibile se ci sappiamo / sentiamo anticipati da un’accoglienza che non giudica e ci precede. Se poi la chiamo per nome, Padre, come ci insegna lo Spirito di Cristo in noi, allora posso abbandonarmi ad un ascolto così profondo da permettermi di lasciarmi andare, lasciando andare le tensioni muscolari come l’angoscia di morte. E diventare a mia volta motivo di cura per altri.
Allora la cura del medico si fa declinazione specifica dell’unica cura, quella che mi trasforma momento per momento, fino alla salvezza.
iside
Cara Iside,
condivido fortemente con te il desiderio della “nascita di una umanità nuova che avrá ”
il coraggio di attuare alcuni fondamentali valori:
il valore dell’ascolto con “orecchio teso”
Il valore dell’incontro e dell’accoglienza con ”mano aperta ”
il valore della cura ……”messa in circolo come sapienza della cura ”
Il valore dell’accompagnamento. .. inteso come ”prendersi cura di sé e dell’altro ”.
Tutto ciò implica una dimensione di consapevolezza di ciò che stiamo vivendo,
di chi stiamo incontrando, di come stiamo ascoltando, della cura che reciprocamente stiamo agendo.Una consapevolezza che ha in sé il potenziale di trasformazione e che ci porta a costruire relazioni autentiche e di cura reciproca .
Irenilde
Cara Iside, tu assai bene confessi che “Se allo stesso tempo sono ascoltata, se l’altro mi raggiunge qui in questo stato di bisogno, allora insieme potremo intraprendere la risalita. Non è detto che ritornerò nel luogo di partenza, molto probabilmente sarò condotta altrove, ma lo farò in compagnia.”
E penso che è proprio vero, è proprio così. La connessione con l’altro (l’Altro, che come sappiamo son termini che vanno insieme, che vibrano insieme, come una prima lettera d’alfabeto che passi da minuscola a maiuscola, cambi stato continuamente e morbidamente) è l’articolazione di base di un nuovo percorso, di uscita (faticosa, faticosa, faticosa) da sé e dalla propria pretesa autonomia, dal proprio disgraziato “sovranismo”, disgraziato proprio in quanto irrelato.
Non so dove sbuco, aggiungi. O meglio io lo dico così, questo ritorno in un luogo che non è necessariamente il luogo di partenza, ma può essere senz’altro una ri.partenza, anche da un altro luogo, apparentemente distante o diverso, ma le distanze, le misure di tempo e spazio, non sono così assolute, non sono assolute come prima lo erano, come prima venivano pensate, ma dipendono dallo stato della coscienza.
Anche per le leggi fisiche si possono dare curiose prossimità in eventi distanti, posto un travalicamento di dimensioni. E quante dimensioni travalica una coscienza – per grazia, per cedimento assai più che per impegno – centrata, non lo possiamo ancora minimamente sapere.
Il valore dell’ascolto è difficilmente soppravalutabile. Ora che perfino la fisica, la scienza (un tempo) “dura”, ci avverte che tutto è relazione, ora più che mai, proprio ora, chinarsi appena all’atto dell’ascolto, all’umiltà di ascoltare e chiedere ascolto, in un rete che piano piano si allarga e travalica steccati e rigide appartenenze, oltrepassa morbida descrizioni ed iscrizioni, stempera sia i bianchi che i neri, è veramente tutto.
Così impariamo a guarire, in un percorso che non ha tempo, perché è fuori dal nostro (affannoso) tempo, e si dilata nello spazio sapiente, di un sorriso.
Grazie.
Fra il metaforico ed il concreto mi sono un po’ persa.
I miei casi son diversi, conosco il negare sofferenza psicologica e trovarsi poi con una sofferenza fisica,conosco il cercare una sofferenza fisica che assorba quella emotiva, conosco il negare la fatica come “debolezza” e andar di adrenalina per poi ritrovarsi burattino di una volontà meccanica e disperata il cui ultimo filo cede all’ improvviso…….in realtà conoscevo e solo sporadicamente di nuovo rivivo…..ora basta, pur ormai “incerottata”, adesso inizia felicità indicibile della profonda non solitudine.