Scrive Charlotte Joko Beck:
«Dalla nascita alla morte siamo afferrati da questi turbini di vento, che di fatto sono la realtà della vita: una tremenda energia in moto e in cambiamento. Il nostro scopo è quello del pilota: proteggere noi stessi e il nostro aereo. Non vogliamo rimanere dove siamo. Facciamo tutto il possibile per salvare la nostra vita e la struttura dell’aereo, per poter scampare all’uragano. (..)Come il primo pilota anche noi passiamo la vita intera a proteggerci. Più siamo impegnati a proteggerci dai colpi della situazione attuale e più stress sentiamo, più stiamo male e meno sperimentiamo davvero la vita. Ossessionati dal quadro dei comandi, che presto o tardi invariabilmente smetterà di funzionare, ci perdiamo il paesaggio. (..) Il nirvana non è trovare un luogo tranquillo dove rifugiarci per proteggerci da qualcosa o da qualcuno. È un illusione. Nessuna cosa al mondo ci darà mai protezione: non il compagno o la compagna, non le situazioni, e non i figli. Il maggior impegno della gente è profuso nel proteggere se stessi. Se passiamo la vita alla ricerca dell’occhio del ciclone, viviamo una vita inutile. Moriamo senza aver mai vissuto realmente».
La nostra ragione ricerca dei fondamenti, delle certezze assolute con cui scappare dalle paure e dal terrore dell’inaudito. Per questo le disgrazie ci sorprendono e ci ammutoliscono, spesso devastandoci. Dimentichiamo che la vita è caduca e che la morte è sempre presente e la realtà è molto più vasta di quanto immaginiamo.
Vorremmo avere tutto sotto controllo. Vorremmo sapere tutto della realtà in modo da gestirla a nostro piacimento. Vorremmo avere sempre un terreno sotto i piedi. La metafisica nella storia della filosofia è questa ricerca della verità della realtà da parte della ragione, che nasce però da un bisogno di protezione. Come scrive Vattimo:
«La metafisica nasce da un primitivo bisogno di “fondazione”. Esso è solo il bisogno di sicurezza che l’uomo avverte in una situazione di minaccia e di violenza, e la metafisica risponde a questa situazione attraverso un altro atto di violenza, il colpo di mano che tende a impadronirsi delle “contrade più fertili” assicurandosi la conoscenza dei principi da cui tutto dipende. Il bisogno di sicurezza non agisce solo sul piano pratico-tecnico della conoscenza dei principi per dominare il mondo; esso spinge anche, a un livello meno direttamente legato alla pratica, alla ricerca di stabili quadri generali dell’esperienza, alla ricerca della fondazione anche nel senso più astratto».
Come spiega Mauro Ceruti:
«L’obiettivo della scienza moderna è stato quello di ridurre la molteplicità e la varietà dei processi naturali a poche leggi in grado di definire le condizioni necessarie e sufficienti per spiegare ogni fenomeno reale e possibile. A lungo, sono state guidate da un’aspettativa: che fosse possibile individuare le regolarità atemporali sottostanti al decorso temporale degli eventi. Tali regolarità avrebbero consentito di elaborare strumenti idonei alla previsione del futuro e alla retrodizione del passato. Dietro ai flussi e ai processi della storia della natura e della società, sono state cercate le invarianti che determinerebbero la linea maestra del dispiegarsi degli eventi».
Invece quello che emerge dal cambio di paradigma della contemporaneità è che:
«dati un medesimo quadro di partenza, una medesima situazione storica, medesimi vincoli e condizioni iniziali, non seguono le medesime evoluzioni. Piccole cause possono produrre grandi effetti. E la cascata di eventi così generata può rendere irreversibile ciò che originariamente era soltanto una possibilità fra molte, forse non così facilmente riconoscibile. Questa nuova interpretazione delle leggi come vincoli pone in evidenza il reale carattere creativo, non predeterminato, dell’evoluzione, della storia. La prevalenza di una strategia rispetto ad un’altra dipende non soltanto dai vincoli pre-esistenti, ma anche(e talvolta prevalentemente) dagli aspetti singolari, contingenti, irripetibili della storia».
Quello che emerge dalla scienza contemporanea è un vero proprio cambio di atteggiamento nei confronti della realtà e dell’essere. Richiede il passaggio da un tentativo continuo di afferrare le cose per assicurarsele, ad uno ascolto vigile della trasformazione costante dei processi che si plasmano nel momento stesso in cui accadono. La realtà stessa è un processo creativo e inafferrabile concettualmente, in cui noi stiamo coinvolti. La rinuncia diviene perciò appartenenza al mistero che stiamo cercando di conoscere e che non è già dato una volta per tutte, ma che diviene anche secondo le nostre scelte. Procreiamo il percorso della nostra vita a seconda di come ci muoviamo. Siamo procreatori della nostra esistenza.
Scrive Heidegger:
«Questo pensiero che va incontro riposa anzitutto sul riconoscimento che: l’essere stesso si sottrae, ma, in quanto è tale sottrazione, l’essere è proprio quel riferimento(Bezug) che reclama l’essenza dell’uomo come l’asilo del suo avvento(cioè dell’essere). Con questo asilo succede già la svelatezza dell’ente in quanto tale».
L’essere, ovvero la verità della realtà in cui siamo immersi in questo momento, si sottrae, non possiamo gestirlo a piacimento. Ma questo venire meno è un richiamare a sé. È un attirare che dispone chi si dirige verso il magnete a divenire asilo del suo avvento. Diventiamo il terreno dell’Avvento. Siamo noi i canali della Grazia. Solo in questo modo può accadere la svelatezza dell’ente in quanto tale. Solo cioè se siamo nella giusta ricezione trasmissione la nostra vita assume senso e viviamo una vita viva e non una vita morta, già vissuta, spenta, cacofonica, disfunzionale.
Caro Francesco,
stasera avevo deciso di scrivere in questo spazio anziché meditare. Non so perché. O meglio: avevo deciso di scrivere qui come se stessi… meditando. E’ possibile? Non so. Ma è che durante quei brevi attraversamenti di inauditi stati di grazia provati (raramente) durante le meditazioni, talvolta mi è sembrato di intuire che meditare non dovrebbe essere una pausa, una medicina da prendere due volte al giorno o secondo prescrizione medica, bensì qualcosa che dovrebbe diventare la nostra vita in toto. Insomma, per farla breve, è così che preda di uno stato simile di “euforia” sono incappato nel tuo intervento…
E ho fatto subito un salutare errore: non ho potuto leggere in sequenza il tuo scritto, in bell’ordine, perché contiene moltissime idee, moltissimi spunti. Mi sono messo a saltare avanti e indietro come un ranocchio per capire o carpire la frase e l’espressione più attraenti, più coinvolgenti per me… E’ la stessa cosa che fa il pensiero quando tentiamo il rilassamento, l’abbandono, la rinuncia agli attaccamenti, il morire alle separazioni, giusto? Saltare di palo in frasca nell’attesa di…
Così, ho fatto qualche respiro più profondo, mi sono calmato (ma l’agitazione era più di cuore che d’intelletto) e ho pensato che fosse un’impresa immane cogliere il senso profondo di ogni riga o di ogni citazione, perché su ciascuna di esse ci sarebbe da scrivere un saggio (se ne avessi le capacità) o dialogare con te fino alla notte dei tempi, se ne avessimo il tempo…
Nelle meditazioni che faccio (normalmente con mia moglie, ma stasera è fuori e da qui la trasgressione!), il momento per me più piacevole è lo “stato di presenza”. Ecco allora che, decidendo di lasciarmi ispirare, aspetto le parole “magiche” o quei pensieri che, comunque, sono scatenanti e trascinanti. E non sto a chiederti quelle cose che mi frullano da tanto tempo e che sono in qualche modo presenti più o meno sotterraneamente nelle tue stesse parole. Per esempio: E’ possibile parlare di scienza oggi senza essere linguisticamente succubi dei paradigmi scientifici di ieri, quindi alla mercé di strumenti necessariamente frutto di un io altro che egoico e altro che bellico? E’ possibile in assoluto parlare di qualunque cosa senza essere metafisici? E’ possibile esprimere un concetto animico rinunciando alla grammatica giudicante del verbo essere? Eccetera eccetera…
Niente di tutto questo. Stato presenza, invece: leggere le tue parole senza giudizio, Francesco, aspettando che il battito cardiaco si acquieti, cogliendo la chiamata là dove essa si palesa, si fa avanti… E mi sono fermato prima delle frasi finali, dove in un certo qual modo si annidano le tue risposte. Ma siccome io personalmente le trovo al momento, per me personalmente, troppo… risolutive, troppo delineate, ecco che sono attirato più in alto, dove il magma è ancora non solidificato, dove l’incertezza resta più umile proprio perché senza àncore di salvezza: «(…) un ascolto vigile della trasformazione costante dei processi che si plasmano nel momento stesso in cui accadono. La realtà stessa è un processo creativo e inafferrabile concettualmente, in cui noi siamo coinvolti.»
Lì mi sono rispecchiato! Perché mi intrigano molto, emotivamente parlando, la sensazione che tutto nel momento stesso in cui accade si trasforma e si è già trasformato, la percezione che vivere sia “semplicemente” un processo creativo e la verità qualcosa di inafferrabile e che, infine, al di là di tutto, di qualunque credo o teoria, ciò che conta è appunto essere “coinvolti” o, per dirla con Heidegger, “esserci”.
E la mia meditazione finisce qui. Grazie.
Sergio
Calma ragazzi …un bel respiro…atterriamo !
Personalmente (e non per arrivare a un ‘dunque’ a tutti i costi) sento di essere d’ accordo con la parte finale del commento di Sergio, cioè di essere “attirata” la’ dove si dice che la realtà stessa è un processo creativo e inafferrabile concettualmente, in cui noi siamo coinvolti”…ci siamo!
Ne sono attirata perché sento che mai niente a questo punto puo’ essere dato per scontato…ma un po’ mi spaventa perché il desiderio/bisogno di avere una terra ‘sicura’ sotto i piedi si fa sentire, intriso com’ è da un’angoscia del vuoto strisciante e sempre presente !!!
Ma forse è proprio in questa sfida funambolica che si decide il nostro “esserci” !
Grazie a Francesco e un saluto a tutti, mcarla
Francesco dice: “Ascolto vigile della trasformazione dei processi che si plasmano mentre accadono”.
Nel post di Iside avevo letto: “L’ascolto di sè è il terreno di coltura per imparare l’ascolto dell’altro”.
Prima del mio percorso iniziatico pensavo addirittura che era mio dovere grave tacitare l’ascolto di me, perchè nella mia educazione cattolica questo era egoismo e nella militanza di sinistra non serviva alla liberazione degli oppressi.
Dovevo annichilire me stesso e mettere al primo posto la politica.
Per fortuna ho scoperto, seppure tardi, che negare me era la via più sicura per rendere irrilevante me stesso e il messaggio messianico, e di conseguenza rendere inefficace la politica che è buona solo se ha una fonte cui attingere.
Infatti essa non è autosufficiente, come magistralmente ha dimostrato Benedetto XVI nel discorso di Westminster.
Quindi per i praticanti di DarsiPace essa non può essere la priorità.
Chi tiene molto all’impegno politico deve mettere la politica al suo posto, cioè in un ruolo importante ma secondario
( e non solo nella realtà oggettiva ma, soprattutto, nella propria mente e nel proprio cuore).
Perciò, siccome tutti i sondaggi prevedono che a giorni lo sconvolgimento del quadro politico italiano farà un salto di qualità perchè Salvini espugnerà l’Umbria, io spero che chi di noi è del PD o di M5S o di LEU, non si disperi, e che chi è leghista non si esalti: i risultati elettorali sono fenomeni importanti ma sono movimenti superficiali e passeggeri.
Esempio: Chi si ricorda del Presidente Goria? Chi si ricorderà del governo giallo-verde o di quello giallo-rosso?
Darsipace lavora in profondità e per le generazioni dei secoli futuri: non guardiamo alle elezioni ma agli eoni.
Il 27 per me è importante sì, ma perchè c’è il secondo incontro della prima annualità nel XX° di DarsiPace.
Un caro saluto a tutti, GianCarlo
Vorrei rispondere giusto due righe all’intervento di Sergio (non certo perché il post di Francesco non meriterebbe anch’esso tutta l’attenzione possibile, e spero infatti di tornarci) ma perché in una certa misura interpella proprio la “mission” del gruppo AltraScienza. Segnatamente, quando scrive “E’ possibile parlare di scienza oggi senza essere linguisticamente succubi dei paradigmi scientifici di ieri, quindi alla mercé di strumenti necessariamente frutto di un io altro che egoico e altro che bellico?”
La prima cosa che direi, è possibile anche se non è certo facile. Ma di più, è possibile ed è diventato necessario: lo diventa ogni giorno di più. Ogni giorno che passa, ogni minuto che trascorre, parlare di scienza con i paradigmi di ieri risulta insensato, e come tale insopportabile per l’uomo in cerca di significato, in ogni cosa che vive. Guzzi in diversi libri e vari interventi ci ha spronato al lavoro di ripensare l’impresa scientifica alla luce della ricerca di un senso, per l’uomo preso nel travaglio di un “cambiamento d’epoca”, e devo dire, ci ha insegnato a leggere nella stessa scienza i segni certi di questo sconvolgimento epocale. Questo per qualsiasi scienziato “in ricerca” è qualcosa di prezioso, su cui lavorare.
Nel gruppo AltraScienza (www.altrascienza.it) ci interroghiamo esattamente sul modo “operativo” con cui si può rispondere a questa esatta domanda, posta da Sergio in maniera molto chiara e per noi totalmente impegnativa. Non oso dire in che misura ci riusciamo, dico appena che questo è proprio il nostro focus. E grazie per averlo ricordato in maniera così stringente, diretta, onesta. Insieme, con l’aiuto di tutti, speriamo di riuscire almeno in piccola parte.
Grazie!
Caro Marco,
grazie delle tue considerazioni. Cerco di riassumere in poche righe il troppo che ci sarebbe da dire…
Per pura informazione, sappi che la mia preparazione culturale è stata prettamente scientifica e che ho insegnato fisica nelle scuole superiori fino all’anno scorso (ora sono in pensione); eppure, grande è stato il (salutare) disincanto (perché tutti i disincanti sono salutari) che ho provato, sviluppato scientemente, nei riguardi della cosiddetta “scienza occidentale” in questi ultimi decenni. Sia a causa dei suoi approcci metodologico-conoscitivi che dell’uso che coloro che ne detengono in qualche modo le briglie ne fanno liberamente. Perché il dubbio centrale è se il problema risiede all’interno degli stessi paradigmi fondanti della scienza o – banalmente – nel suo uso. La risposta non è semplice: molte volte mi sono chiesto che cosa stessi realmente insegnando! E, dunque, sono curioso di vedere come ve la caverete in questa ardua impresa di “rispondere” alla domanda se un’altra scienza sia, appunto, possibile.
Vorrei, tuttavia, consolarti-mi, dicendo che non è che gli altri settori del sapere siano messi tanto meglio. Spesso mi sono chiesto se anche le più grandi opere d’arte, le più belle cattedrali, i più bei poemi, le sinfonie più trascinanti, non siano in qualche modo da rimettere in discussione. Per non parlare della filosofia… C’è qualcosa da salvare in quei meandri, nascosto sino dalla fondazione del mondo, oppure no? Perché se tutto sommato si tratta, in questa crisi attuale, di crisi del linguaggio, beh allora… nessuno può scagliare la prima pietra contro la scienza – che perlomeno sta producendo nel suo folle progresso qualcosa di totalmente folle come la fisica quantistica…
Insomma, se non fossimo “troppo umani”, che linguaggio parleremmo, Marco? Ma essendo, ahimé, “troppo umani”, quale linguaggio potremmo fondare?
Ciao.
Caro Sergio,
grazie per quello che mi dici, della tua formazione e parimenti grazie per le tue considerazioni realmente interessanti.
Immagino non sia congruo deviare troppo, nei commenti, dall’impianto del post (dopotutto dovremmo riferirci a questo) così appunto solo un paio di cose e magari rimando al sito o agli account social di AltraScienza per continuare il dialogo, se sei interessato ad approfondirlo, in una direzione o l’altra. Ricordo che c’è sempre la possibilità di aderire al gruppo per entrare nel vivo dei lavori, compatibilmente con il tempo e la preparazione specifica di ognuno.
Ma tu dici, c’è qualcosa da salvare? E capisco la provocazione, sanissima provocazione.
C’è infatti (penso) da riformulare da zero il modo di rapportarci al reale, di guardarlo. Fondamentalmente, di riaprirci ad un “cosmo incantato” (come si diceva tempo fa, http://www.darsipace.it/2017/12/11/un-mondo-incantato-di-nuovo/).
Ma ci sono già segni importanti, ci precedono e ci istruiscono, ci sono cose da non dimenticare, che portano il nuovo anche in forma embrionale, lo portano e lo fanno risplendere, in modo pressoché perfetto (cioè, sporchissimo di umanità vera): la Nona sinfonia di Beethoven, la Settima di Bruckner, la Quarta di Mahler (ma anche, perché no, “Abbey Road” dei Beatles), e poi l’Ulisse di Joyce, “Sogni ricordi e riflessioni” di Jung, il Diario di Etty Hillesum.. tutto questo risplende anche oggi e anzi sopratutto oggi, perché lo iniziamo a comprendere davvero, a comprenderlo meglio.
Questo è tutto totalmente da salvare. Anzi, è proprio questo che (collegandosi e collegandoci alla Fonte), ci salva.