Il filosofo e storico delle religioni Elémire Zolla scriveva che l’uomo moderno è sottoposto oggi a un ascetismo capovolto, per cui deve rinunciare «ai massimi beni profani – la propria terra come ente inconfondibile, la salubrità dell’aria, un ruolo sociale non angosciante, un lavoro sensato, costumi e oggetti d’uso che abbiano uno stile, cibi schietti» e, oltretutto: «a compenso dell’ascesi, della rinuncia a questi conforti egli […] non riceve beni spirituali». A questa ascesi, conclude, «egli deve adeguarsi per forza».[1]
Questa riflessione dello studioso italiano ci aiuta a superare una convinzione errata, oggi così radicata e diffusa, secondo la quale l’individuo, nella nostra società, sarebbe nelle condizioni di scegliere in modo libero come condurre la propria esistenza. Inoltre questa libertà sarebbe stata ottenuta in virtù del relativismo culturale odierno, che ci avrebbe liberati dal senso di colpa e dalle inibizioni instillate della morale borghese e religiosa (che erano state denunciate, tra gli altri, da Nietzsche e Freud) e più in generale dal retaggio della cultura tradizionale. Di certo in queste considerazioni c’è del vero: oggi tutti noi siamo molto meno vincolati al nostro passato e all’appartenenza a nazionalità, ceto, sesso o sangue, come era avvenuto per secoli, ed è auspicabile che questo processo avanzi fino al definitivo superamento della disuguaglianza e discriminazione sociale.
Tuttavia se da un lato siamo più liberi di guardare avanti e di progredire in direzioni inedite, sfuggendo ad una logica deterministica, questo processo di liberazione dell’individuo risulta ambiguo: procediamo infatti verso la libertà individuale ma, paradossalmente, rischiamo anche di rifluire verso nuove forme di schiavitù, per quanto ben mascherate.
Oggi infatti, approdando all’età adulta, quella della maturità e della responsabilità nelle scelte, i giovani sono ben lontani dall’essere liberi di scegliere come vivere. La società impone loro di adeguarsi alle proprie regole, che dettano spesso la scelta del luogo in cui vivere e della tipologia di lavoro da intraprendere. Chi di noi sceglierebbe di vivere in una città che ci intossica i polmoni, o di svolgere una professione distante dalle nostre aspirazioni? Probabilmente nessuno, ma sfuggire a questo destino è un privilegio per pochi.
La società alimenta dunque in noi l’illusione di una scelta individuale che in realtà è fittizia: scegliamo tra opzioni già selezionate dal mercato, che si è sostituito di fatto alla funzione dello Stato. Anche questo passaggio non è stato innocuo, infatti la Costituzione, all’articolo 4, riconoscendo “a tutti i cittadini il diritto al lavoro” e promuovendo “le condizioni che rendano effettivo questo diritto”, sancisce il dovere di svolgere “secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Ma quanto vengono tutelate oggi le attività che concorrono al progresso spirituale, e culturale, della società? Lo Stato ha infatti abdicato ad investire nella cultura, e il mercato è libero di perseguire i propri scopi. In questo scenario, il lavoro non è inteso come parte integrante della realizzazione umana e servizio per la comunità, ma come strumento per aumentare il profitto (anche medici e insegnanti si trovano a lavorare in ambienti permeati da logiche aziendali). Non siamo dunque liberi di scegliere come orientare la nostra vita e, per sopravvivere, siamo spesso costretti a svolgere lavori alienanti, rinunciando a uno stile di vita sostenibile.
Questo è un primo aspetto che mette in crisi l’idea di libertà moderna, e solo il carico di cinismo e rassegnazione con cui veniamo alimentati fin da piccoli può farci accettare una situazione del genere, lasciandoci privi della forza di reagire. Proprio questo aspetto corrisponde a un secondo elemento critico che caratterizza la società odierna. Infatti la dialettica padrone-lavoratore, durante il periodo otto-novecentesco, permetteva agli operai di identificare un “nemico” e rivendicare i propri diritti. Oggi invece, nonostante il precariato endemico e uno stato di sofferenza diffusa – come mostrato dalle statistiche sul dilagare di malessere psicologico, ansia e depressione – non esiste alcun movimento organizzato di protesta, pacifica ma vigorosa, contro il sistema che ha contribuito a creare questa situazione. Credo che la ragione principale sia il modo in cui la società instilla negli individui il senso di colpa. In un’ottica ormai esclusivamente materialistica, infatti, chi non riesce ad adattarsi al mercato viene emarginato e finisce per considerarsi inadeguato, rivolgendo verso di sé l’atteggiamento di critica.
Un ulteriore elemento riguarda i lavoratori che sono costretti oggi a sostenere ritmi sempre più veloci di produzione per garantire performance ed efficienza. Tra i sintomi di questo atteggiamento, Byung Chul-Han individua la sindrome da esaurimento. Se è vero, come ci viene detto, che la realizzazione umana coincide con il successo professionale, allora non possiamo che lavorare sempre di più: così la dipendenza dal lavoro, o workaholism, sta diventando un fenomeno preoccupante anche in nazioni ritenute tra le più avanzate, come l’Australia. Le “risorse umane” sono sfruttate come quelle naturali, fino allo sfinimento. Come uscire da questo scenario?
In primo luogo, per uscire dal vortice dell’alienazione, è fondamentale rinfrescare la consapevolezza dello scopo della nostra esistenza: siamo sulla Terra per un motivo, abbiamo un talento, qualità e inclinazioni. Siamo nati per affermare noi stessi e la nostra potenza creativa, non per adeguarci alle oscillazioni del mercato. Come fare? Abbiamo bisogno di recuperare un rapporto più profondo con noi stessi. Viviamo troppo spesso esternamente: torniamo quindi a coltivare momenti di meditazione, silenzio, ascolto e auto-consapevolezza. Torniamo anche a porci domande semplici ma essenziali: cosa ci rende felici? Quali sono le migliori qualità che ci appartengono, e quali vogliamo far emergere? Quali sono i nostri desideri più autentici? La nostra realizzazione passerà dalla capacità di ritrovare in noi stessi una motivazione profonda all’agire, per poi calarla nelle situazioni della vita quotidiana e lavorativa. Siamo nati per uno scopo più alto e nobile di quello che ci viene assegnato dal mercato, così solo recuperando questo fine potremo ritrovare l’entusiasmo di vivere liberamente e gioiosamente, perché davvero liberi di esprimere la nostra vocazione.
[1] E. Zolla, I mistici dell’Occidente, vol. I, Adelphi, Milano 1997, p. 25.
Grazie Filippo, tutto molto interessante
Caro Filippo, noi sappiamo che l’essere umano è animato dall’anelito all’infinito, all’eterno, alla libertà e alla felicità.
Anche questo mondo lo sa, e offre mille lusinghe capaci di presentarsi come espressioni di libertà, che però come dici sono pseudolibertà, illusorie. Molti possono crederci e cascarci o per comodo o per superficialità o per pigrizia.
Prevarranno queste attitudini alla fine autolesioniste, o quell’anelito è insopprimibile e riaffiorerà sempre?
Frequentemente i popoli rincorrono furiosamente obiettivi di libertà, e ciò accade sia quando gli obiettivi sono onesti e volti al bene comune, sia quando sono espressione dell’io egoico che è l’esclusivo tornaconto individualistico.
A volte le persone e i popoli riescono a raggiungere livelli di libertà più alti, buoni e necessari, ma anche in questi casi poi ci si accorge che non erano la conquista della felicità.
Fu ottimo il miracolo economico del secondo dopoguerra, ma poichè la scala dell’uguaglianza è una scala infinita, il raggiungimento della felicità veniva collocato sempre al gradino successivo.
E non era una santa aspirazione e condizione necessaria la decolonizzazione del mondo?
India e Cina e Africa l’hanno conquistata, ma non è stata proprio la soluzione di tutti i problemi.
Nel ’68 si diceva che la liberazione sessuale ci avrebbe resi liberi e felici: è stato così per i sessantottini?
e le femministe da allora sprizzano gioia?
E’ vero come dici che oggi siamo meno vincolati alle appartenenze di vario genere, e quantomeno possiamo vivere anche appartenenze importanti, come quella religiosa o quella politica, in modalità meno dogmatiche e più spirituali.
Ma è anche vero che siamo sempre attesi da nuove dipendenze e servitù, e in politica siamo attratti molto dal piacere dell’attaccamento e da quello della ripulsa: è un meccanismo un po’ luciferino che dobbiamo riconoscere e superare.
O vogliamo passare tutto il 2020, con 7 elezioni regionali, a disperarci se il PD perderà anche le regioni rosse senza interrogarsi su globalizzazione, lavoro, delocalizzazione e disoccupazione, immigrazione, sicurezza, emigrazione ?
O a deprimerci se M5S passa dal 30% dei consensi, al 20%, e poi al 10%?
O a tifare per Salvini e Meloni, o Renzi, Berlusconi, Fassina: senza che essi non abbiano mai saputo che la speranza per una rivoluzione democratica richiede la coniugazione tra politica e conversione di ogni uomo politico?
Noi la speranza l’abbiamo, e salda.
Grazie, GianCarlo
Grazie Filippo, Ho letto volentieri i tuoi pensieri e ora li giro ai miei figli !
Grazie a voi per l’interesse!
@Giancarlo: “Prevarranno queste attitudini alla fine autolesioniste, o quell’anelito è insopprimibile e riaffiorerà sempre?”. In effetti anche io penso che questo sia il punto. Credo sia importante anzitutto smascherare questa illusione, così potente in un mondo che vuole renderci sempre più alienati, per avviare poi percorsi concreti di liberazione, dell’io e del mondo.