Se solo non avessi bisogno di mangiare e dormire, se solo potessi percorrere lunghe distanze in un istante…
Se solo … chissà chi mai potrei essere… certamente non la persona che sono!
La concretezza corporea è l’unico modo che ho di stare al mondo, senza corpo non esisterei. Dallo zigote in avanti non sono che corpo che poi si struttura secondo l’impianto di specie. E fin dall’utero, sono già modellata dalla cultura che mi accoglie. Il cibo che mangia mia madre, le paure che patisce, la musica che ascolta sono chimica nel suo corpo che diventa la mia chimica, diventa il mio corpo. Dallo sviluppo fetale alla crescita all’aria aperta e giù giù lungo tutta la vita, io esisto solo come corpo. Non si dà esistenza fuori dal corpo. Il corpo perciò è la condizione che mi permette di essere viva. Mi dà un limite, un confine dentro cui mi riconosco e mi accomodo. E ci prendo gusto.
Il lato promettente ed intrigante dell’esistenza però è presto ferito, sento la fatica di un corpo che non corrisponde alle mie aspettative: ho voglia di arrampicarmi ma le gambe non reggono, ho voglia di leggere ma gli occhi non vedono più, mi è venuta l’influenza e sono bloccata a letto… Sento il condizionamento, il freno alla forza vitale che si dibatte. Sento l’amaro in bocca della frustrazione, vorrei fare ma non posso, non ce la faccio, non ho abbastanza energie.
Allora il limite si fa limitazione, il confine diventa confinamento, mi sento vincolata più che contenuta.
C’è una nota che stona.
Sono sul filo di lana: il corpo, il luogo dove la promessa si accende a partire dalle anticipazioni buone che sperimento, diventa anche il luogo dove quella promessa è smentita, dove sento il dolore, dove la sofferenza batte cassa.
Eppure non riesco a darmi per vinta, non posso mollare così facilmente, perché quella promessa di vita in abbondanza suona e risuona dentro di me: decido di darle credito, è flebile come un’eco lontana, un’intuizione appena abbozzata eppure non ho altro cui aggrapparmi per scommettere che la speranza in una promessa compiuta non sia vana.
Quella speranza che mi brucia dentro e non mi molla ha ancora la forma di corpo: che il nostro essere-in-relazione-corporea trovi pienezza di senso, approdi a destinazione felice. Solo se incorporato un annuncio di speranza può fare breccia nel cuore umano. Sappiamo solo il linguaggio della concretezza corporea.
Nei secoli abbiamo ceduto alla tentazione della scorporazione, pensando che la verità di noi fosse da cercare in una spiritualità che si scrollasse di dosso la corporalità, in una proporzionalità diretta tra spiritualità ed etereo: più mi assottiglio, più mi invero. E non abbiamo ancora perso il vizio.
Nell’insopportabilità di questa negazione di sé, per controtendenza, abbiamo allora ridotto il corpo alla dotazione biologica, cercandone preservazione, dal salutismo alla cosmetica. Ce la stiamo però giocando tutta sulla buccia.
Allora provo a tornare all’evento che ha fatto l’Occidente per come lo conosciamo: lo chiamiamo esattamente incarnazione. La Parola prorompe nella storia nell’unico modo possibile: corpo di un Uomo che si dice Verità e Vita. La vita vera la possiamo sperimentare soltanto come corporeità. “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita … quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta.” (1Gv 1,3-4).
Quell’Uomo ha toccato la vita nei corpi incontrati, saliva infangata sugli occhi del cieco, rabbia che sbotta contro chi appiattisce la vita a puro scambio monetario, mantello impregnato di potenza che guarisce per la donna che azzarda sfiorare l’Uomo di Dio.
Quell’Uomo di Nazareth mi ha preso il cuore, ha un fascino cui non so resistere, fino al suo corpo risorto – che è ancora questione di fiducia, in prima battuta nel racconto dei suoi compagni di viaggio che, anche loro, hanno intuito un oltre che non delude.
Il suo corpo risorto perciò deve pur dire qualcosa del mio, altrimenti sarebbe soltanto visione di un altro che non mi riguarda. Il suo corpo nel mio, promessa di Spirito-con-noi fino alla fine del mondo, mangiato e bevuto nei simboli antichi del pane e del vino.
Questo è il mio corpo: relazione che mi dà vita, relazione per cui sono vita per altri. Identità ricercata nella verità, come compito per la vita (eterna).
Impegnarsi per la salute, dunque, diventa impegnarsi per la vita, tutta intera: dagli organi agli affetti, dalla protezione dell’ambiente allo stile di vita, dalle politiche economiche alla gestione dell’amministrazione pubblica.
Allora i nostri corpi, la concretezza che ci dà da vivere, saranno veramente la seria condizione per il venire al mondo di una nuova forma di umanità.
Respiro nel mio corpo ogni tua parola. Sento il calore e la vibrazione di una speranza incarnata che scuote dolcemente la terra dura dei miei condizionamenti. La vita attraverso la tua incarnazione fa strada dentro la mia aridità. Una goccia di verità scende nel profondo, mi dilata e sento il desiderio di irrigare chi mi vive accanto e gridarlo a tutti gli uomini feriti dalla malattia. Tutti siamo in cammino per guarire, per darci salute, per risorgere!
La tua fede è contagiante cara Iside. Grazie con tutto il mio cuore. Non sai quanto mi facciano bene le tue parole.
Vanna
Grazie, cara Iside, per questo tuo post così chiaro, essenziale e prezioso. Mi servirà molto, proprio adesso per attraversare un periodo di debolezza fisica, causato da un disturbo non pericoloso, ma molto fastidioso.
Cercherò di far pace con la mia fisicità di persona ormai anziana. Meglio concentrare l’attenzione sul corpo. sui suoi messaggi ,piuttosto che riempirsi la testa di pensieri bislacchi, inutili per la loro tristezza. Ti leggo sempre molto volentieri sia quando scrivi da scienziata, sia quando sei ispirata dalla tua biografia. Mariapia
Cara Iside,
dal mio approdo in Darsi pace ha preso corpo in me la promessa alla quale credevo anche prima ma sentivo lontana e astratta.
Il lavoro di questi dodici anni mi aiuta a sentire, sperimentare e a vivere il mistero dell’incarnazione; il momento storico che stiamo attraversando ci interpella, singolarmente e collettivamente, con crescente urgenza a decidere se continuare a lasciarci disumanizzare o fare spazio, dare corpo all’uomo nuovo, all’Uomo che ci dà vita e vita eterna.
E’ dono prezioso avere la possibilità di questo percorso che risponde al bisogno impellente di liberazione offrendo spazi concreti, pratiche condivise, esperienza diretta e personale di trasformazione liberante.
In questi mesi all’interno dei Gruppi territoriali lombardi stiamo approfondendo il personale cammino trasformativo focalizzando l’attenzione sul corpo e la tua riflessione mi è di aiuto.
Grazie di cuore a te e al Gruppo Darsi Salute per il vostro lavoro di ricerca e di approfondimento.
Ti abbraccio, Giuliana