Una situazione paradossale del nostro tempo, a ben vedere, riguarda molto da vicino ciò che chiamiamo “storia”. Da un lato la storia sembra essere ovunque: ogni fenomeno del mondo è storicizzato, archiviato, cronologicamente compreso e spiegato, con metodi storiografici sempre più sottili e rigorosi. Attraverso il progresso scientifico inoltre, non solo oggi disponiamo di una narrazione storica (e preistorica) sulla specie umana infinitamente più vasta e complessa di quella che ci si poteva immaginare due secoli fa, ma conosciamo persino l’età complessiva dell’universo, e siamo in grado – per la prima volta – di avere un’idea abbastanza esatta dell’intera sua evoluzione. Da molti punti di vista dunque potremmo dire di trovarci nella società più ricca di storia mai esistita.
Dall’altro lato, tuttavia, sembra vero anche il contrario. Come già capiva Nietzsche alla fine dell’Ottocento, la storicizzazione sistematica del mondo ci sta in realtà misteriosamente privando dell’autentico senso del tempo storico, che è assolutamente indispensabile all’uomo per poter progettare ognora un futuro auspicabile per sé e per la terra. Sappiamo tutto di tutto, ogni “fatto” storico per come è veramente o probabilmente accaduto, e guai a mettere in discussione la storicità del reale. Nel frattempo nessuno si domanda – anche solo per sbaglio – il perché, il senso ultimo e misterioso degli eventi storici e del come mai siano andati in un modo piuttosto che in un altro.
Tanta retorica e tanta memoria, ma ben poco pensiero! … Se è vietato mettere in discussione il paradigma storiografico, dal punto di vista della cultura dominante, è ancor più vietato insinuare che nella storia vi possa essere una qualche fine ultimo, appunto un senso che non tanto spieghi, ma faccia di tutti questi eventi un discorso fecondo e vivente per l’anima odierna delle persone. E mentre da circa un trentennio si invoca la “fine della storia” e delle “grandi narrazioni”, vediamo un’umanità che non ha più parole per pensare il proprio avvenire, un’umanità profondamente insicura, disorientata, estremamente sfiduciata verso il presente e il futuro. È molto interessante, a tal proposito, che sia proprio un sociologo come Thomas Eriksen a mettere in stretta relazione la condizione di incertezza psico-sociale contemporanea con la mancanza di una narrazione storica sensata: «Già negli anni Settanta, esisteva una narrazione dominante, largamente condivisa, che riguardava la modalità con la quale il mondo moderno si era sviluppato. (…) Poi, la storia del progresso ha perso autorevolezza, e non con un’esplosione ma con un sospiro. A oggi, una storia che racconti da dove veniamo e dove stiamo andando e che eserciti il suo ascendente nella maggior parte del mondo (o anche solo da qualche parte) non esiste. (…) Piuttosto, se proprio vengono prese in considerazione, allora le prospettive appaiono cupe, basate su quella che il sociologo Frank Furedi chiama la “cultura della paura”» (Fuori controllo, pag. 18-19).
Il vero paradosso perciò consiste nel fatto che l’insicurezza spirituale degli umani aumenta in modo direttamente proporzionale allo sviluppo dell’accertamento storico-scientifico di tutto ciò che accade nel mondo (fino al giornalismo e all’informazione globale). Si tratta di un’ambiguità fondamentale che appartiene alla stessa età moderna, già chiaramente riconosciuta da Heidegger, il quale scriveva, al culmine della Seconda guerra mondiale: «L’uomo diventa insicuro di fronte alla sua propria essenza, la quale rimane con l’essere stesso nella sottrazione, senza poter esperire il “da dove” e l’essenza di questa insicurezza. Invece di ciò, egli cerca nella sicurezza di se stesso la prima cosa vera e stabile. Per questo egli tende alla sicurezza, da lui stesso allestibile, di se stesso in mezzo all’ente, il quale viene indagato a tappeto al fine di stabilire quali nuove e sempre più affidabili possibilità di assicurazione offra» (Nietzsche, pag. 846).
Nel nostro linguaggio di Darsi Pace, potremmo dire così: quanto più il piccolo Io scisso sente venir meno il terreno sul quale poggia i piedi, tanto più si sforza (invano) di trovare nuova stabilità, nuove certezze illusorie cui aggrapparsi. E così il circolo si autoalimenta.
Per spezzare un simile automatismo auto-distruttivo occorre invece farsi carico fino in fondo dell’abissalità insensata in cui questa condizione di esseri umani ultra-storicizzati, eppure senza storia, ci colloca. Il paradosso cioè è molto serio, e di carattere spirituale prima che razionale.
Come sostiene lo stesso Zygmunt Bauman, ciò che più urge in questo difficile momento è ricominciare a fare la storia mettendoci innanzitutto in ascolto della voce più profonda del nostro essere, quella che parla nei nostri desideri e aspirazioni fondamentali: «Il futuro non è più dato a noi esseri umani, consapevoli, dolorosamente ma anche felicemente, di vivere nella storia. Che il futuro non ci sia dato significa, dunque, che la storia deve essere fatta. Siamo noi a doverla realizzare. Dobbiamo cercare i modi per scriverla in conformità ai nostri desideri; per farlo dobbiamo innanzitutto scoprire quali sono questi desideri» (Scrivere il futuro, pag. 40-41).
In altre parole, non abbiamo alternative. Se vorremo sopravvivere come specie, nei prossimi decenni, dovremo necessariamente creare una nuova narrazione di senso che illumini in modo inedito e radicale il lascito storico della modernità, riconoscendo umilmente il viscerale bisogno di avvenire che preme oggi in tutti i popoli della terra.
Avere urgente bisogno di futuro vuol dire: aver bisogno di un futuro più umano e più sano. Non più quindi di chiacchiere moralistiche o di piatte ricerche storiografiche. Prospettandosi, al contrario, come un atto radicalmente creativo dello Spirito, la Storia stessa deve diventare poetica, un atto cioè insurrezionale dell’umanità nascente.
A tutto ciò stiamo già andando incontro, perché questo in fondo desideriamo umanamente oggi come civiltà. Si tratta solo di riconoscerlo e di favorirne l’avvento, cosicché la più grande svolta antropologica della storia trovi finalmente i suoi nuovi attori messianici ed entusiasti missionari.
Ottimo scritto, caro Luca, davvero illuminante.
Il punto è proprio questo: iperstoricizzazione/mancanza di senso storico, o se vuoi: eccesso di memoria/carenza di creatività (e siamo ancora all’Inattuale di Nietzsche sulla fecondità della storia rispetto alla vita).
E la via di uscita dalla strettoia dell’insensatezza crescente è l’atto creativo: comprendere che la storia sta a noi di crearla, e di procrearne un senso nuovo. Un abbraccio. Marco
Leggendo quanto hai scritto ad un certo punto ho pensato che “oggi l’uomo ha paura di avere paura”. Sappiamo che abbiamo paure ancestrali derivanti dalla condizione primitiva in cui abbiamo vissuto (Marco Guzzi l’ha descritta molto bene, quindi non starò qui a ripetere). È possibile che l’alienazione umana abbia potuto toccare questo impensabile picco? Il sistema sociale in cui ci troviamo a vivere sembra fare di tutto per favorire la paura della paura. Ne scaturisce una pazzia collettiva, una schizofrenica tendenza alla negazione. Credo che, paradossalmente, i più impauriti di tutti siano i Bezos, i Zuckenberg, i Gates, i Rothschild e tutti i loro servi ossequiosi che opprimono ed accumulano vagheggiando di improbabili trasferimenti su altri pianeti, dove sarebbero abitati dalla stessa medesima paura. Forse la nostra specie si riscoprirebbe più umana se le venisse consentito di lasciarsi andare a questa paura, se avessimo l’umiltà di portarla alla luce e manifestarla, anziché nasconderla. Almeno questo alla luce della mia personale esperienza. E così accarezzare la possibilità di una ri-velazione che ci abita (che mi abita) e che solo attende di essere conosciuta. Grazie
Caro Luca,
la storia andrebbe sottratta alle ideologie dominanti e ai dominanti vincitori delle guerre.
Invece oggi più di prima essa viene brandita dalle élites dominanti attraverso il “politicamente corretto” che solo nel suo nome è un concentrato di relativismo e di non senso.
I migliori oggi potrebbero provare ad essere razionali, a fare ricerca scientifica, a cercare il dato di fatto oggettivo e vero, che sarebbe già una conquista rispetto ai manipolatori e ai distorsori.
Ma sarebbe un lavoro di scarsa utilità.
Sarebbe come descrivere in gastronomia un piatto elaborato e gustoso con tutti i dati chimici e fisici degli ingredienti, con tutti i pesi e le misure, coi valori calorici e nutritivi, ma senza scrivere dei profumi, dei colori, del gusto, delle trasformazioni, del passaggio dallo stato quantitativo a quello qualitativo.
Si descriverebbe una cosa morta e che non servirebbe a rendere l’idea.
Penso che sia così anche la narrazione storica, che se si nutre solo di razionalità arida, senza le domande esistenziali di fondo circa un senso e un significato, dice poco e serve a poco.
La storia esprime la speranza o la disperazione dello storico e dei suoi tempi: e concordo che oggi “è vietato” dare un senso e un valore alla presenza dell’uomo sulla terra, e che chi si interroga lo fa solo per dare risposte da brivido, di paura e di terrore: l’ambientalismo che ho vissuto io nelle mie battaglie sia nei movimenti che in quelle istituzionali era animato da speranza ed entusiasmo per la salvaguardia del Creato.
Oggi vedo soprattutto culture da Radicali e nichiliste che credono e vogliono far credere che l’uomo è il “cancro del pianeta”, la causa dei mali della terra, per cui meglio i cani e i gatti.
Questo è vero in parte, e riguarda la realtà antropica dominata dall’io egoico, ma per Grazia esiste anche un “antropocentrismo redento” che ha avuto i suoi fondatori luminosi in san Benedetto e san Francesco.
Mi piace molto la citazione di “Scrivere il futuro” di Bauman.
La questione è di carattere prima spirituale che razionale, e io aggiungerei che è di carattere spirituale prima che politico.
Ti ringrazio per questo scritto illuminante,
GianCarlo
Grazie caro Luca,
veramente molto stimolante questo tuo post.
E dici assai bene, quando proprio in apertura, affermi che oggi (mai accaduto prima!), abbiamo una conoscenza dell’età dell’Universo e – grosso modo – della sua intera evoluzione. Tutto sembra nato 13,7 miliardi di anni fa, in un evento intrinsecamente misterioso ma fisicamente abbastanza definito, da cui tutto ha avuto origine. Il fatto stesso che si adotti come modello dominante quello del Big Bang, abbandonando i modelli stazionari (dunque, squisitamente “astorici”) per molto tempo prediletti e coltivati da tutte le persone di cultura (il cielo delle “stelle fisse”, per intenderci), ha delle implicazioni “esplosive” (perdona il gioco di parole) alle quali forse non abbiamo ancora fatto debitamente caso. Ma tant’è, affermare che vi sia stato un Big Bang vuol dire per sé stesso affermare che l’Universo ha una storia, è dentro una storia. Tutt’altro che scontato, perché per millenni si è pensato diversamente (in curiosa frizione con la narrazione biblica, se vogliamo, per la quale l’Universo ha esattamente una sua storia, che si sviluppa nel tempo, sia pur raccontata in termini che ora sappiamo, non scientifici).
Questo insistere sulla cosmologia non paia ozioso. Come scritto nel “Tao della liberazione”, “la cosmologia condiziona profondamente la nostra concezione della realtà, ivi comprese le nostre ipotesi sulla natura stessa del cambiamento. Inoltre, le sue implicazioni per la prassi trasformativa sono fondamentali”.
Come poi dice Louise Steinman, sempre citato nel medesimo volume, “In Occidente, non c’è più una sola Grande Storia a cui tutti crediamo che ci dica come è stato fatto il mondo, come ogni cosa è diventata quel che è, come dovremmo comportardi per mantenere l’equilibrio in cui coesistiamo con il resto del cosmo”.
Mi sembra cogliere il punto, come del resto il tuo post. La mancanza di una Grande Storia favorisce lo spezzettarsi in miriade di rivoli di micro-storie, tutte parziali e molto specialistiche, tutte specializzate nell’eludere, in fondo, la domanda di senso che ci configura come umani.
Forse, ritornare – ma con sensibilità moderne – a questa Grande Storia, ci potrebbe consentire, di nuovo, di sentirci uniti con l’Universo e, cosa ancora più importante, con noi stessi.
Grazie.
Grazie! Proprio in questi giorni comprai “Storia dell’Europa” di Benedetto Croce e ho assaporato la sua capacità di dare alla storia un sapore di illuminata libertà. Ecco, abbiamo bisogno di dirla noi la storia, di scriverla, amando.
Un saluto