Osservando le dinamiche antropologiche di quella che conosciamo come età industriale (che va più o meno dal 1789 al 1989), possiamo notare alcuni paradossi di fondo. L’emancipazione sociale e morale della donna ad esempio non è stata un processo puramente spontaneo, ma è stata favorita indirettamente, nella prima parte del Novecento, da entrambe le guerre mondiali, ossia da quell’assenza fisica degli uomini dall’industria e dalla vita civile, che ha reso necessario l’impiego delle donne in quelle che fino a poco prima erano mansioni o professioni esclusivamente maschili. Una cosa molto simile sta accadendo oggi a fronte della svolta post-industriale e della terziarizzazione generale della società. Sociologi ed economisti sono ormai concordi nell’asserire, come fa anche Domenico De Masi nel suo libro del 2016, che oggi stanno iniziando ad imporsi in modo imprevedibile «valori che la società industriale aveva messo in secondo piano: l’intellettualizzazione di tutte le nostra attività, la creatività, l’emotività, la soggettività, l’etica, l’estetica, la femminilizzazione, la destrutturazione del tempo e dello spazio» (Lavoro 2025, pag. 41). In entrambi i casi infatti questo effetto inatteso e decostruttivo emerge proprio dall’esasperazione di due dei caratteri fondamentali della vecchia civilizzazione industriale: il primo è la guerra come impresa imperialistica essenzialmente maschile, sulla base della quale tutte le identità patriarcali si erano consolidate; il secondo è l’incremento illimitato del potenziale tecnologico, finalizzato al controllo sempre più totale sulla natura e sul pianeta.
La storia paradossale dell’ultimo secolo ci mostra in sostanza che proprio l’esasperarsi terminale del vecchio sistema industriale, in un modo o nell’altro, finisce per portare all’emersione inarrestabile e spesso anche incontrollabile di tutto ciò che fino a questo momento è stato represso, trascurato, subordinato nella propria dignità e importanza.
Su questa scia possiamo comprendere perciò il fatto che una grandissima parte delle professioni meccaniche o ripetitive saranno inesorabilmente sostituite, nei prossimi anni, dalle nuove e più avanzate tecnologie, sicché si prevede che proprio per questo circa il 50% dei futuri occupati nei paesi avanzati svolgerà una professione di tipo creativo.
A fronte di un simile dato, appare evidente che a tutt’oggi manca alla nostra cultura condivisa una cognizione reale, ossia antropologico-spirituale, di che cosa significhi la Creatività intesa in senso radicale, al modo in cui cioè il nostro stesso contesto politico-planetario ci sta già spingendo a considerarla. È palpabile al contrario la totale inadeguatezza e impreparazione di quella che ci viene tanto sbandierata come “formazione”, a fronte tra l’altro di un sistema in-formativo essenzialmente corrotto e corruttore, che ci comunica ogni istante e in tutti i modi possibili l’esatto opposto di una concezione creativa e spirituale dell’essere umano. Questa (de)formazione organizzata non fa altro che deprimerci, destrutturando e svilendo tutto ciò che nell’umano è autentica passione visionaria per la verità, e scambiando la creatività per pubblicità, la libertà per liberismo del mercato. Accade così che l’impiego crescente delle macchine nei lavori pesanti diventa semplicemente una sostituzione dell’uomo con la macchina, la quale assume il ruolo di direttrice fondamentale della nostra stessa essenza, tutt’altro che creativa dunque, ma meccanica, bloccata, automatica e automatistica anche in tutto quello che il mondo continua a chiamare “creativo” o “emotivo”, anzi, specialmente in questo.
I nostri sentimenti vengono congelati dagli spot pubblicitari e dai talk show, la nostra capacità contemplativa è del tutto rimossa dall’orizzonte educativo e persino filosofico della cultura dominante. E chiaro dunque che il progresso tecnologico da solo può essere non solo insufficiente, ma anche terribilmente disumano, come già in parte stiamo capendo. Come scrivono infatti Andrew McAfee ed Erik Brynjolfsson in un loro articolo: «L’interazione umana non è marginale bensì cruciale per la transazione economica. Anziché enfatizzare la quantità delle esigenze umane, sarebbe meglio concentrarsi sulla loro qualità. Gli esseri umani hanno bisogni economici che possono essere soddisfatti solo da altri esseri umani». Mi viene allora da dire: come faremo a rispondere seriamente all’immensa sfida creativa che il lavoro, e quindi la società e la civiltà dell’avvenire, ci stanno già lanciando apertamente? Come potremo essere all’altezza dei tempi, se lo stesso sistema di mondo che sta trapassando continua ad impedirci ossessivamente di compiere questo salto, innanzitutto in noi stessi, nello spirito e nella consapevolezza di chi siamo come umani?
La questione è certamente urgente e non facile. Il punto cruciale che in questa delicatissima fase storica è necessario introiettare a tutti i livelli del sapere, dalla politica alla scienza, dalla tecnologia all’economia, è che non ci sarà alcun miglioramento e nessuna umanizzazione del lavoro se l’uomo stesso non sarà immediatamente disposto a riconsiderare il proprio rapporto intimo con la realtà, il proprio modo d’essere mentale, il proprio essere e sentire nei confronti dell’ecosistema globale (di cui si parla tanto). Non basta cioè la vecchia formazione scolastica, basata ancora su modelli illuministico-moderni. Non basta nemmeno la morale, la buona volontà politica o privata.
Occorre piuttosto compiere un salto spirituale del pensiero, che ci porti ad esperire col corpo – in cammini progressivi e comunitari – l’essenza radicalmente creativa di ogni mio operare, pensare e trasformare la realtà. Il mio lavoro è cioè fisicamente un’esperienza di messa-al-mondo di qualcosa che prima non esisteva. Un nascere in atto della realtà attraverso di me, con implicazioni e riverberi immediatamente universali, ecosistemici e imprevedibili. Non può che scaturire da qui ogni proposito di svolta ecologica seria a fronte dei grandi rischi climatici a cui siamo esposti. Lo sviluppo di un lavoro più umano e nuovamente – cioè veramente – creativo, è perciò inscindibilmente connesso a quel passaggio antropologico più vasto che ci sta già conducendo, faticosamente ma inarrestabilmente, alla nascita di una coscienza più universale e spirituale, la quale presto o tardi riformulerà completamente il nostro modo di abitare la terra e il nostro stesso esistere umano.
L’evento che l’Indispensabile organizzerà il 23 febbraio, ore 17:30, all’Arci Monk di Roma sarà un tentativo di parlare e approfondire tutti questi temi imprescindibili per il nostro futuro e per la nostra stessa sopravvivenza. Venite dunque, vi aspettiamo tutti al Monk! –
Perché sento che la crescita personale, il conoscersi, il perdonarsi, il poter essere d’aiuto agli altri (attraverso atti fisici e psicologici) non passa necessariamente attraverso una qualsiasi religione. Ma che può esserci anche senza.
Sto riflettendo su questo, prima di avvicinarmi a DARSI PACE. Seguo moltissimo il filosofo/economista/musicologo/psicologo MAURO SCARDOVELLI. Lo ascolto, li capisco, è vicino alle mie “corde”, più di quanto riesco a sentire “vicino” MARCO GUZZI. Anche se SCARDOVELLI nomina spesso e invita Guzzi ai suoi incontri e quindi sicuramente lo stima e me ne ha fatto interessare. Questo non mi impedirà di partecipare all’incontro del 23/2 a Roma perché voglio ascoltare dal vivo e verificare come un San Tommaso, l’ambiente di questa associazione. Con animo aperto e curioso e per quanto ci riuscirò, senza preconcetti. Vi abbraccio. Elisa Mancino
Buon giorno Elisa Mancino, ho letto con interesse il suo commento e mi ci sono in parte ben ritrovato. Anch’io seguo con molto piacere Mauro Scardovelli e il suo bellissimo sito Unialeph e in Darsi Pace seguo da tre anni il percorso proposto. Sebbene questo sia molto strutturato secondo una precisa scelta di fede cristiana, vi trovano affettuosa accoglienza tutti coloro che sono mossi a una sincera e appassionata ricerca di verità, almeno questa è finora la mia esperienza. Ciò che mi sembra d’aver capito, è la necessità di essere ‘acrobatici’ per compiere con entusiasmo quel “salto spirituale” di anima e corpo di cui parla l’interessantissimo post del Cimichella e che occorra farlo sì individualmente, ma in armonica coordinazione comunitaria. Come in un circo internazionale, se vuole, con la stesso divertimento e gioia che vengono da un grande costante lavoro di esercitazione, con la stessa attiva partecipazione di artisti e spettatori, tutti personalmente coinvolti integralmente in un continuo processo creativo di rifondazione dell’umanità, che solo può avvenire come ri-nascita a quella “coscienza universale e spirituale” di cui appunto parla l’articolo. Perché avvenga quel temerario salto acrobatico, occorre che siano ben predisposti gli attrezzi e una rete sicura. In questo senso, credo che si possa intendere la religione, o le religioni, o meglio una dimensione religiosa da sempre strutturale all’essere umano.
Nel salutarla, ringraziandola per il suo intervento, vorrei chiederle di portare virtualmente anche me all’incontro del 23 all’Arci Monk di Roma, accogliendomi senza preconcetti nel suo animo aperto e curioso, e poi mi e ci faccia sapere, su questo sito, quanto di bello avrà visto, sentito e vissuto.
Un caro saluto, Andrea
“Occorre piuttosto compiere un salto spirituale del pensiero, che ci porti ad esperire col corpo – in cammini progressivi e comunitari – l’essenza radicalmente creativa di ogni mio operare, pensare e trasformare la realtà.”
Grazie caro Luca, perché riscoprendo la profonda connessione tra lavoro e creatività davvero possiamo iniziare a fare questa rivoluzione, ad essere meno “merce” e più protagonisti attivi. Il Mistero – lo pensavo proprio stamattina – ci vuole protagonisti, anche quando noi ci ritireremmo volentieri nella nostra “zona di confort”. Siamo qui per creare e se non lo facciamo, se decidiamo di disattendere questa “mission” (che si articola in modo specifico per ciascuno di noi), ci ammaliamo, stiamo male.
“Non basta cioè la vecchia formazione scolastica, basata ancora su modelli illuministico-moderni. Non basta nemmeno la morale, la buona volontà politica o privata.” Sì è così, e come per la scienza la narrazione positivistica ci lascia sempre più insoddisfatti, non appaga la domanda del cuore ma si confina in un astratto reame della mente, sempre più dolorosamente percepito nella sua parzialità, così si è ormai completamente esaurito il tempo – Deo gratias! – per le astratte perorazioni morali e per gli appelli ad essere e comportarsi da “buoni cittadini”.
La cosa bella di questo tempo apocalittico è anche questa: ormai non sopportiamo più niente, che non abbia a che vedere, almeno di striscio, almeno quasi per sbaglio, con la nostra speranza di completezza e felicità.
Un augurio per la manifestazione del 23 febbraio!
Pensare ad un lavoro creativo con gli attuali tassi di disoccupazione giovanile può sembrare utopia.
Ed invece, caro Luca, grazie all’eterogenesi dei fini che evidenzi, la devastante mancanza di lavoro in Europa potrebbe favorire la nascita di lavoro e precisamente di lavoro creativo.
Infatti la creatività può costituire una via d’uscita alla disoccupazione e al tempo stesso può aiutare a superare il lavoro alienato ed alienante.
Mi piace molto la tua proposta che il pensiero debba compiere un salto spirituale che ci porti ad esperire col corpo la nostra creatività per trasformare la realtà.
La globalizzazione non intelligente che il neoliberismo gestisce, non si cura delle condizioni di insostenibilità materiale ed esistenziale dei giovani, ed anzi contribuisce a crearle.
Per un lavoro alienato e poco remunerato essa può attingere allo sconfinato esercito di manodopera di riserva che porta in Europa favorendo migrazioni dall’Africa e dall’Asia.
Allo stesso modo non ha problema se i giovani europei senza lavoro non possono sognare una casa e dei figli, perchè le culle vuote vengono sostituite da famiglie sradicate dalle loro terre e culture.
Gli immigrati con integrazione di fatto scarsa o nulla, non possono neppure pensare a quel lavoro libero e creativo che è legittima ed urgente necessità per i nostri millennials.
Il contesto economico, sociale e spirituale portato dalla globalizzazione accomuna i nativi e gli immigrati nella mancanza di prospettive di stabilità e di programmazione del proprio futuro.
E poichè il neoliberismo non offre lavori interessanti gli italiani giovani, soprattutto del sud, stanno emigrando a centinaia di migliaia nel nord Europa che, pur globalizzato, non ha i gravi problemi specifici dell’Italia quali instabilità politica, burocrazia stritolante, giustizia in parte politicizzata, mafie, assistenzialismo, tendenza alla deresponsabilizzazione.
Questa condizione tanto dolorosa da essere insostenibile per l’impotenza angosciante che genera, deve essere analizzata e compresa, come i giovani de “L’Indispensabile” faranno nel prossimo incontro, che servirà anzitutto a capire quale postura devono assumere di fronte al lavoro che non c’è.
Questo è un passo che spetta fare solo a loro, ed è importante sia per loro stessi che per una società confusa e bloccata alla quale possono proporre le linee di fondo nuove ed evolutive su cui dovranno muoversi la cultura l’economia e la politica per sostenere il lavoro e renderlo gratificante.
Auguro a tutti i giovani un buon lavoro creativo per il convegno.
Dal mio punto di vista l’intervento «Lavorare creativa-mente» sottolinea molto bene il modo con il quale uno stesso termine, «creatività», possa essere perfidamente usato all’interno di una società neo-liberista in una modalità – e con una lucida intenzionalità – esattamente opposta al reale significato di tale parola (e che lo scritto di Luca chiarisce davvero molto bene).
Vorrei allora approfittare per evidenziare un altro aspetto (ricavato dalla lettura di un testo di Maslow) dell’uso distorto di «creatività». Infatti, siccome la vera «creatività» è estremamente pericolosa, ecco che nell’accezione comune viene, per mirata educazione (o meglio, addestramento), confusa con l’estro e il talento, con la classica espressione o prestazione artistica di altissimo livello. Ma Maslow, oltre a spiegare che essere creativi significa sapersi mettere in ascolto di tutto ciò che ci circonda, rileva come le persone che si sono realizzate, in quanto sono riuscite ad ascoltare il proprio autentico cuore, hanno una peculiarità alquanto rilevante: sono estremamente creative in tutti gli aspetti, anche quelli più semplici, della vita. Da ex insegnante posso dire che molti miei ex colleghi o colleghe non si sarebbero mai riconosciuti una notevole creatività nel loro lavoro, che invece avevano, così come chi si ritrova a sfamare una famiglia di parecchie bocche arrossirebbe se qualcuno dicesse che mette in campo abilità che possiamo chiamare, senza nessuna esagerazione, creative…
Dunque, forse dovremmo cominciare ad apprezzare in noi stessi e negli altri la creatività di ciascuno, messa all’«opera» in tante piccole cose, anche se spesso non le vediamo, anche se non siamo il grande pedagogo megagalattico o lo chef più raffinato dell’universo.
Un altro bel tema interessante da affrontare sarebbe quello del lavoro utilizzato oggi come elemento «divisivo». Giusto uno stralcio da un articolo di Maurizio Bergamaschi: «I livelli di iper-competitività imposti dalla “società della prestazione” favoriscono l’espulsione di tutti coloro che non sono in grado di corrispondere adeguatamente alla nuova domanda di forza lavoro, che non sono sufficientemente “occupabili”.»
In bocca al lupo ai ragazzi de L’Indispensabile!
Sergio