Prima parte
Si propone un contributo critico suddiviso in 2 parti e 2 tesi da discutere.
(1° tesi)
Le frammentazioni identitarie degli psicoterapeuti e dei modelli teorico-clinici sul finire del XX secolo: gli obiettivi generali degli approcci delle più importanti scuole psicoterapeutiche e le loro terminali condizioni di utilità per l’uomo nascente di questa epoca;
(2°tesi)
E’ tempo di distinguere senza fraintendimenti il ruolo dello psicologo clinico e della psicologia per la società contemporanea, da quello degli psicoterapeuti, degli psicanalisti e degli psichiatri nella presa in carico di persone con sofferenza psichica, emotiva ed esistenziale.
L’Universo delle Psicoterapie è una parte del progetto di lavoro del gruppo di creatività culturale AttraversaMenti (vd. sito DP o pagina Facebook omonima), che vuole studiare, mettere a confronto alcune psicoterapie e psicanalisi di diverso orientamento, con le esperienze dei passaggi trasformativi psico-spirituali e culturali realizzate nei gruppi darsi pace.
AttraversaMenti infatti sta a indicare
l’esodo esperienziale delle soggettività umane vissuto nei corpi , nei cuori e nelle menti lungo l’evoluzione spirituale della nuova umanità in corso, entro la crisi epocale antropologica
che attraversa tutto il ‘900 e l’inizio del nuovo millennio (Guzzi, 2011). Ne hanno parlato illustri testimoni di molti settori della cultura, del mondo della psicologia e della psicoanalisi, da Freud agli orientamenti psicanalitici fino alla metà del secolo (Jung, Adler).
Tali teorie, tecniche o approcci psicoterapeutici si sono proposti come metodi di guarigione delle persone ed in alcuni casi come percorsi di iniziazione a visioni personali ed esistenziali più ampie, in forme dichiarate o implicite, promesse o attese, spesso come esito finalistico stesso dei percorsi di cura psicoanalitici-psicoterapeutici.
Metodi non sempre espansivi del sé da liberare, spesso di un sé tendenzialmente costretto entro le dinamiche del modello teorico proposto, cosa che ha fatto dire ironicamente in passato che le analisi junghiane stimolerebbero a fare sogni junghiani, e la psicoanalisi sogni Freudiani…!
In realtà questo compito esplicito o implicito dei vari approcci di scuola va a mio parere concludendo oggi un suo percorso storico durato 60/70 anni.
Alcune scuole o teorie psicoterapeutiche, in crisi, non sanno come adattarsi ai mutamenti delle condizioni sociali in atto, ciascuna di queste si è proposta nei decenni scorsi come metodo definito e definitivo per la guarigione personale (lunga, costosa e impegnativa), in forte competizione con le altre scuole di pensiero, e operativamente tutte hanno mostrato però molto spesso di favorire relativamente una conoscenza analitica approfondita di un solo aspetto limitato dell’esperienza umana rispetto agli altri: o solo il pensare, o solo il comportamento, o le emozioni ed il corpo, la relazionalità e l’affettività, o solo la componente esistenziale piuttosto che quella sociale, e così via.
Come un grande elefante che ciascuno osserva da un suo punto di vista e che, pur non potendone cogliere ogni aspetto data la mole, lo definisce in termini assoluti solo in base al particolare anatomico che i suo occhi (ciechi) gli permettono di osservare.
Oggi, si vanno ricomponendo alcune linee teoretiche frammentate
a favore di “percorsi metodologici integrativi dell’aiuto e della analisi psicologica”,
riconoscendo comunque a ciascuna teoria di aver contribuito ad ampliare le conoscenze sul comportamento umano ma anche di aver distorto lo sguardo sull’uomo frammentando l’integrità del suo essere come unità inscindibile composta da Mente-Corpo-Spirito-Relazione e Socialità.
Per tutto il secolo scorso si è esclusa l’attenzione alla componente più spirituale o dell’anima per affermare una psicologia a forte indirizzo ideologico positivista lungo il filone delle scienze biologiche e mediche, favorendo così processi riduzionisti o scientisti.
Nel frattempo si affermano anche discipline di stampo più integrato e olistico, spiritualistiche o filosofico/esistenziali, e comunque anche qui ciascuna teoria psicologica riferita anche ad una rispettiva antropologia sostiene ancora di detenere un primato di veridicità, di cosa sia la persona umana e come la si possa curare o guarire meglio di altre.
Insomma
una grande confusione e disarticolazione estremista egoico-bellica delle conoscenze scientifiche e degli strumenti di aiuto per gli uomini di questo tempo,
egoicità che ritroviamo anche in altri ambiti sociali e culturali come sappiamo: l’Ego bellico è il carattere impresso nell’uomo dai secoli scorsi che vuole dominare, prevalere, dire l’ultima ed escludere.
Nelle psicoterapie si denota tutto ciò innanzitutto perché molte di esse, magari inconsciamente, si rifanno ad una
idea di cura mentale nel senso medico del termine,
sono mosse da logiche utilitaristiche,
si prefiggono “fini di adattamento” alla realtà data,
cercano di perseguire il raggiungimento di un traguardo definito, una forma di IO desiderabile,
pretendono di proporsi come “la soluzione” unica o superiore
come se si trattasse di curare un organo da riportare ad uno stato di normalità precedente alla malattia.
Da sempre ed ancora oggi, molti psicologi, medici, psichiatri e addirittura i counselor o gli operatori che lavorano nella sanità e perfino nell’educazione sono attratti e sedotti dalla smania del “curare” o guarire i disturbi psicologici, psicofisici, come forte imitazione dell’operato del medico (quanto meno inconsciamente!) e per l’acquisizione identitaria di un prestigio ostentato professionale e carismatico più forte e di performance.
Ma in ogni caso, “curare che cosa”?…
E’ possibile oggi condurre una psicoanalisi, o una psicoterapia senza occuparsi delle reali condizioni di vita relazionali che una persona svolge nei contesti di vita organizzati, o nei contesti critici di un’economia impazzita, di un lavoro precario, di una compulsività dedita al fare o all’esternalizzare emozioni e idee false o illusorie, una compagine della socialità costretta nelle strettoie della frettolosità e affanno?
Cosa prendere da queste teorie e tecniche psicoterapiche nate tutte nel ‘900, e cosa lasciare o definitivamente liquidare, quali metodi aiutano veramente nel passaggio epocale in atto, quali vogliono solo adattare l’uomo del XXI secolo a modelli ideali e prescrittivi, regressivi o antistorici?
Questo è il nostro intento rivoluzionario culturale del progetto in essere, perché tali forme o approcci di scuola potrebbero non essere più consoni ai bisogni dell’umanità nascente più relazionale che vuole emergere, ma potrebbero anche ritardare il suo palesarsi se proposti come fini a se stessi e perentoriamente prescritti come status identitari da acquisire alla fine del percorso. In altri casi, alcune teorie e tecniche di base per la conoscenza di sé si rivelano utilissime, ma sono da selezionare e rese più fruibili anche da parte di professionisti che non sono del comparto sanitario, come gli insegnanti, gli educatori, i sacerdoti, gli allenatori, il personale assistenziale, e altri.
Rispetto ad un tempo passato in cui erano consolidate forti figure identitarie a cui riferirsi, oggi si va sostituendo un contesto socio-culturale in cui è fortemente in crisi ciascuna di queste Identità e Istituti (Guzzi, 2011).
l’IO umano fatica a mantenere un “senso di coesione del sé”, una visione lucida o luminosa della sua integrità costituzionale e della sua storia,
fatica nel dare di continuo ogni volta un senso alle esperienze personali, relazionali ed esistenziali, è difficile capire in quale direzione vanno questi mutamenti delle identità, se sono evolutivi o disgregativi dello spirito dell’umano in un tempo orientato alla velocità del fare pervasivo, a volte compulsivo e compensatorio di un qualcosa che sfugge o sembra che manchi.
Da questo punto di vista,
“non possediamo più modelli del tutto predeterminati da riprodurre neanche negli itinerari formativi” (Guzzi, 2011, pag 112),
e la medesima crisi dei modelli, e la crisi di ciò che l’IO è oggi, la vediamo riproposta negli obiettivi o finalità di una psicoanalisi o di un percorso psicoterapico che voglia riferirsi
ad un ipotetico stadio terminale di arrivo,
ad una qualsivoglia forma di un IO sano da riconquistare, da consolidare,
ad una particolare forma di benessere da promuovere
che a volte in breve tempo si rischia di perdere per una sopraggiunta improvvisa crisi contingente economico-sociale o lavorativa.
In Darsi Pace, nel cammino settennale
ci piace e pare conveniente parlare di trans-formazioni, più che solo di crisi, di trasformazioni in atto o da attuare.
Più che di
modelli, stati psicologici maturativi da acquisire o stati psicoaffettivi pre-visti
da raggiunge con le psicoterapie, vogliamo invece indicare
una metodologia per saper transitare
in queste ambigue definizioni di “chi siamo e dove andiamo”.
Si tratta di una capacità di ri-generare i modelli, le forme, le figure che nutrivano le “identità” in passato, senza ricorrere alle fissità della mente.
Essere maschi o femmine, padri o madri, cristiani o spirituali, laici o preti, mariti/mogli o compagno/a di vita, come vivere l’amicizia o il tempo libero, il lavoro o la politica, ecc., sono le domande che “prendono un posto prioritario” nei discernimenti dei cammini maturativi umani e spirituali, come anche nelle psicoterapie di ultima generazione che definiamo “integrative”, altra cosa di quelle integrate (su cui torneremo a scrivere).
Riprendendo le definizioni del modello darsi pace, si propone una “liberazione interiore per una trasformazione del mondo”, ossia la riscoperta di un potenziale interno a ciascuno, spirituale, ri-generato da una fonte vitale, e la riscoperta di direzioni da intraprendere verso la trasformazione delle forme politico-sociali che sono al servizio della convivenza.
Una psicoterapia che pretende di ricondurre ad un “ortos”, un ordine, o verso modelli ideali storici di un tempo trascorso, o di un fondatore di un approccio di scuola, o di una teoria, potrebbe rischiare di essere anacronistica e fuori dalla storia.
Al posto di una psicoterapia o psicoanalisi individualistica che guarda soprattutto all’intrapsichico e all’interpersonale come forme di un IO che si adegua a mediare istanze personali, se pur meglio regolate e consapevoli, ma sempre conformi ad aspettative sociali consuete; ad un Io che meglio si adatta al mondo reale e alle sue prerogative, alle pretese imposte dall’alto, e che ha tutto sommato pochi gradi di libertà-movimento,
potremmo proporre
“un’analisi psicologica della trans-formazione della relazione persona-contesto”,
ossia una conoscenza di sé che faccia in primis luce sugli schemi interni a se stessi mal adattivi, bloccanti, sulle chiusure difensive e le ferite, sulla spaccatura della coscienza spirituale di sé che si adatta al mondo e collabora con le sue forme egoiche-belliche nelle idee e concetti vecchi, violenti e reiterati.
Poi, a seguire, un ascolto libero di un nuovo sentire, diremmo latente, che metta in primo piano la “verità dell’essere” che siamo, lungo motivazioni affettive e pro-sociali, aneliti contrari
ad ogni forma di prevaricazione tra gli umani e sul mondo.
Forse in questo si comprendono le beatitudini, come segno di contraddizione…(Mt 5,1-12).
Questa nuova forma di fare “psico-analisi”, è un’operatività terapeutica, culturale e spirituale che offre strumenti di lettura del momento storico, metodi per comprendere bene le dinamiche in atto nei contesti di vita (ma contesti sono anche i mass media, la politica, le dinamiche familiari, i rapporti di amicizia o il tempo libero) ed anche faccia maturare in ognuno la conoscenza specifica di proprie qualità o talenti spirituali, per i credenti incarnati in Cristo e nella chiesa, da sviluppare e usare proprio in quei settori o contesti socio-culturali in cui si è inseriti, per l’azione politica e l’evangelizzazione.
Siamo una generazione dedita alla trans-formazione, ad una trans-figurazione che ci si rivela di giorno in giorno,
per ritornare ad una Unità, ad una comunione spirituale con tutti e col tutto, con sé e col creato, fatta per amare, così come sarebbe composto l’IO costituzionalmente prima della scissione, verticale (destra e sinistra), orizzontale (testa-corpo, conscio-inconscio), sagittale (avanti-dietro, manifesto-occulto, luce-ombra),
che poi danno nutrimento alle idee contorte e distorte della mente.
In definitiva c’è da chiedersi oggi, quindi, quali siano le psicoterapie che “si propongono ancora di riprodurre nelle prassi uno stato pre-visto”, precedente la sofferenza,
e quali psicoterapie propongano invece uno sviluppo o ri-generazione trans-formativa del proprio potenziale da riversare nei contesti sociali.
Cosicchè identifichiamo 2 tipologie di psicoterapie ad oggi, e confutiamo quelle metodologie che ostacolano o portano indietro l’anelito che l’umanità nuova sorgiva vuole sprigionare.
Ci sono psicoterapie/psicoanalisi che si focalizzano
sulla riduzione di un deficit o di uno scarto dal modello
e che intendono cambiare l’altro, costringerlo entro comportamenti ed emozioni prefissate, nell’ipotesi che il conformismo rappresenti “ciò che è giusto fare, pensare, provare emozionalmente” (Carli, 2019)
Altre che vogliono promuovere un senso
da dare alla sofferenza dell’uomo, aiutare l’altro, gli altri, a dare senso alla propria realtà, alle proprie emozioni, ai propri agiti, alle esperienze relazionali che si vivono quotidianamente, e tali metodi trovano a volte derisione da parte della psicologia scientista “di chi non intende dare senso” ma credito solo agli eventi e alle richieste ambientali.
Al dare senso si sostituisce, così, la correzione del deficit.
Siamo giunti, così, a comprendere che c’è una sostanziale differenza nell’essere un operatore culturale, psicologo, insegnante, educatore, psicoterapeuta,
che si dispone all’ascolto o al far emergere qualità spirituali dell’uomo nascente,
e chi invece ripropone percorsi già battuti ed esauriti nel loro potere trasformativo.
Distinguiamo pure l’identità dello “psicologo clinico”, dallo psicoterapeuta, dallo psicanalista o psichiatra.
E questo sarà il discorso del prossimo contributo, n.5 de L’universo delle Psicoterapie, che analizzerà i grandi approcci, come già fatto nei primi 3 post precedenti, verso una differenziazione tra pratiche psicoterapiche eclettiche, integrate ed integrative, le pratiche dello psicologo ed una chiarificazione di ciò che l’umanità nascente potrebbe usare come strumenti più duttili per la sua emersione pro-creativa, nonché ciò che imbriglia e rallenta il suo corso.
Riferimenti bibliografici:
Carli, R., (2019), Rivista di Psicologia Clinica – teoria e metodi dell’intervento-, editoriale, vol. 14, n. 2, online.
Guzzi, M., 2011, Dalla fine all’inizio, collana Crocevia, Ed Paoline
Guzzi, M., 2017, Fede e Rivoluzione, collana Crocevia, Ed. Paoline.
Densissimo post…dare senso alla sofferenza di uomini e donne nei loro contesti di vita mi sembra sia l’ approccio psicoterapeutico più adatto ai tempi che stiamo vivendo. E di sicuro quello di cui abbiamo più bisogno, evitando di inseguire modelli prestabiliti e ‘correttivi’ di normalità.
Grazie, mcarla
Caro Michele,
pur non essendo del settore e conoscendolo marginalmente solo come curioso e (potenziale) “paziente”, ho tratto dalla lettura del tuo testo un paio di spunti che mi hanno suggerito qualcosa di molto interessante e che, per me personalmente, costituisce una novità, qualcosa su cui in precedenza non avevo riflettuto.
Prima di tutto, ricordando quello che dicono alcuni psicoterapeuti (per usare una parola sintetica, anche se un po’ generica) come Maslow, che cioè essere perfettamente integrati in una società ammalata non è poi un grande… affare, è oltremodo stimolante la prospettiva – nell’ambito di una Nuova Umanità – di non essere chiamati a “guarire per integrarsi nel mondo”, bensì a “guarire per… cambiare il mondo”. Forse sembra una cosa banale, ma un ribaltamento di ottica di questo tipo potrebbe invece essere di grande sprone e supporto. L’idea di operare non solamente per stare meglio in questa società, per adattarsi a una condizione esistenziale alienante, ma al contrario per fare “nuove tutte le cose”, per creare ogni volta la realtà stessa, la trovo davvero trascinante, perché schiude la visione a un orizzonte assai più ampio.
L’altro aspetto è come far sì che il proprio percorso di “guarigione” non riguardi solamente l’ambito personale e intimo, ma si espanda e “contamini” piano piano tutto quello che facciamo (anche se non siamo degli psicoterapeuti). Quando insegnavo, per esempio, ricordo che avevo il problema di capire quale posizione occupassi realmente, dovendo fare da tramite tra una sistema culturale e sociale subdolamente oppressivo e dei ragazzi in formazione di cui non volevo essere un semplice e passivo “istruttore”… Non volevo rassegnarmi a vestire i panni di un kapò del neoliberismo, insomma (per dirla schiettamente). E faticosamente trovai una strada, una maniera per dare senso alla mia attività, evitando di svendere completamente la mia o l’altrui… anima. Dunque, sarebbe oltremodo interessante riuscire a capire, a seconda del lavoro che svolgiamo o del tempo a disposizione di cui disponiamo (se siamo in pensione, come il sottoscritto ora), come sia possibile farsi tramite di una presa di (auto)coscienza collettiva e condividere più efficacemente le nostre esperienze.
Non so francamente se sono stato chiaro. Comunque, grazie.
Sergio
Caro Michele, trovo molto interessante e chiarificatrice questa dissertazione sulle modalità che sono state, e che vengono, proposte dalle scuole psicologiche per la cura delle problematiche interiori. Come scrivi, è possibile affrontarle come patologie (alla stregua di quelle di pertinenza più medica), quindi comportamenti devianti da una presupposta normalità. Questo definisce come inadeguate non solo le condotte (in termini di pensieri, espressioni, modalità relazionali, ecc.), ma anche la persona stessa, rendendola diversa e malata, creandone facilmente uno stigma e violando il suo diritto ad essere amata così com’è. Un certo stile “rettificatore”, direi, al pari di un busto ortopedico che pretende di raddrizzare una schiena costringendola a star dritta come imposizione esterna.
In Darsi Pace lavoriamo invece sulla comprensione e sull’accettazione delle nostre parti ferite e (anche per questo) distorte, il che mi sembra praticamente l’esatto opposto e assomiglia alle modalità educative più amorevoli, che si contrappongono a quelle coercitive.
Quando una persona viene curata da uno specialista diciamo che “è in terapia” e questo viene confinato alle quattro mura e al tempo che viene messo a disposizione, nonché alle modalità e alla scuola di pensiero dello specialista stesso.
La cura, secondo me, è invece qualcosa (o meglio qualcuno) che ti prende per mano e ti accompagna, sostenendoti e guidandoti, ma allo stesso tempo considerando continuamente le tue necessità e le tue affinità particolari. La cura più vera non ha tempo ne luoghi predeterminati, non ha punti di partenza ne di arrivo. E’ una presenza, come quella dei genitori e delle figure di riferimento della nostra infanzia e adolescenza, e della società più in generale nell’età adulta, che in una umanità più matura e relazionale in Cristo forse sarà sufficiente per crescere persone più libere, consapevoli, pacifiche e realizzate, senza la necessità di “entrare in terapia”, perché lo saremo sempre e nel modo giusto. In questo senso ogni tentativo terapeutico porta con sé un grosso limite. Credo che Darsi Pace, invece, per le sue caratteristiche possa costituire un luogo in cui questo limite viene almeno in parte superato e rappresenti una nuova forma di terapia, o meglio di cura, integrata dell’essere umano.
Sarà interessante conoscere meglio e approfondire quanto proponi per le prossime uscite, grazie per questo utile lavoro di sintesi e riflessione.
Pier Luigi
Grazie, caro Michele, per questo contributo fondamentale, credo che faccia chiarezza su molteplici aspetti della cura delle anime. Un abbraccio. Marco
Maria Carla, è proprio così come dici, pur volendoci molte energie per liquidare prassi consolidate e ben organizzate nelle istituzioni pubbliche e private, difensivamente, che presumono di trattare bisogni umani e spirituali, pensiamo a quelle ecclesiali o politiche, la storia va nella direzione giusta e noi dobbiamo facilitarne il corso in ogni modo, confutando dettagliatamente le forme false della salvezza proposte come innovative o scientifiche.
A presto, buona continuazione.
D’ altronde lo stesso Krishnamurti, se non ricordo male, non considera certo come segnale di salute mentale l’ eccessivo adattamento a una società malata come la nostra…
Mi pare che qui in DP facciamo una riuscita esperienza di sintesi dove la conoscenza di sé passa attraverso un andare dentro la dimensione psichica, amalgamato ad un percorso spirituale fino a sentirlo come iniziazione cristiana, per chi lo voglia. Mi pare però anche chiaro, dai commenti stessi che Marco Guzzi lascia qui e là, che DP possa essere considerato un po’ come un canovaccio su cui poi ciascuno traccerà altre linee di approfondimento. Del resto, se lo specialismo è andato degenerando fino alla cecità dell’intero, tuttavia ha delle risorse che dovremmo comunque valorizzare. Per cui se ho un disturbo allo stomaco comunque vado dal medico e cerco una soluzione o un sollievo possibile. O se ho una emotività opprimente magari cerco aiuto da uno psicologo che avrà bisogno di settorializzare.
La sfida non facile è trovare un reale efficace equilibrio tra l’acutezza dello sguardo specialistico e l’abbraccio totalizzante del prendersi cura di quella persona lì, nella sua vita particolare. Saper essere flessibili abbastanza da avventurarsi nello specifico disciplinare per ritornare velocemente nello specifico della storia di ciascuno, sapendo transitare per ambiti che invece di considerarli estranei siano visti come espressione delle potenzialità della persona. Ho l’impressione che certi temi, seppure vitali, siano tabù intoccabili, come l’affidamento alla Trascendenza in uno studio psicologico dell’ASL o in un ambulatorio in ospedale.
iside
Non sono d’accordo con le critiche verso la psicanalisi espresse in questo post, mutuate dal pensiero di Marco Guzzi. Nel post è scritto:
“Una psicoterapia che pretende di ricondurre ad un “ortos”, un ordine, o verso modelli ideali storici di un tempo trascorso, o di un fondatore di un approccio di scuola, o di una teoria, potrebbe rischiare di essere anacronistica e fuori dalla storia. Al posto di una psicoterapia o psicoanalisi individualistica che guarda soprattutto all’intrapsichico e all’interpersonale come forme di un IO che si adegua a mediare istanze personali, se pur meglio regolate e consapevoli, ma sempre conformi ad aspettative sociali consuete; ad un Io che meglio si adatta al mondo reale e alle sue prerogative, alle pretese imposte dall’alto, e che ha tutto sommato pochi gradi di libertà-movimento”
A me sembra che invece la psicanalisi non voglia né curare né adattare alla società il soggetto in analisi. Per spiegare meglio ciò che intendo, cito l’articolo (editoriale) di R. Carli (Rivistadi Psicologia Clinica vol. XIV n° 2-2019, p. 6), che l’autore del post ha citato in bibliografia, ma che non mi sembra abbia integrato nel suo ragionamento:
“Obiettivo della psicologia psicoanalitica è quello di aiutare l’altro, gli altri, a dare senso alla propria realtà, alle proprie emozioni, ai propri agiti, alle esperienze relazionali che si vivono quotidianamente. Lo psicoanalista capisce qualcosa dell’“altro”, solo quando l’“altro” dà senso a se stesso.”
Caro Sergio Fabbri,
di non essere chiamati a “guarire per integrarsi nel mondo”, bensì a “guarire per… cambiare il mondo”, che tu citi, è uno tra i concetti cardine del mio post, e sono felice che tu lo abbia ripreso.
Per il resto mi è chiaro ciò che dici, aggiungo che hai ben interpretato il taglio dell’analisi in corso, spingendoti giustamente a potersi noi rappresentare come “agenti”, agenti segreti o dichiarati che nei contesti in cui operiamo possiamo metterci di più in “relazione” con l’altro, gli altri, conoscere le variabili presenti e condividere il malessere, le domande di senso, orientando meglio l’apprendimento o le crescite, l’assistenza o i servizi, seguendo procedimenti più consoni rispetto a quelli impazziti, passando all’altro una competenza sul metodo,… che è sempre relazionale, quella di come trattare le relazioni in atto nel contesto, attraverso l’ascolto, la valorizzazione, la collaborazione, la riflessione, la creatività che operano al ben-essere.
Grazie del tuo contributo.
Cara Iside, e anche caro Pier Luigi, infatti la mia riflessione non vorrebbe fare fuori le specifiche metodiche messe a punto dalle scuole, piuttosto vedere come si coniugano gli strumenti con la complessità dell’umano.
Attualmente anche io mi rifaccio a dei metodi, pur non avendo o raramente incontrato persone con quei disturbi precisi riportati nei sacri manuali diagnostici. Eppure sono 30 anni che vedo persone: ogni volta mi pare una situazione nuova, un aspetto particolare, un bisogno specifico che non rientra necessariamente nei protocolli. Per cui ogni volta è sempre “ un mediare”, un applicare, un ascoltare fino in fondo, ritornare a considerare, promuovere lo svelarsi dei significati, e ancora considerare il tutto e la parte, condividere passi in avanti e fermarsi, o lasciare che sia la persona da sola a darsi ragioni e a farsi nuove domande. Come dire, è un mistero la persona mai del tutto definibile, e quindi curabile per giunta. È un cammino, che si vorrebbe fare non da soli ma in compagnia, ciascuno con le proprie competenze e risorse di cui è portatore. E sulle risorse non ci possono essere limiti.
????
Federico, sarebbe meglio che ci si firmasse anche con il cognome in modo da poterci conoscere e incrociare anche su altri social, oppure in Darsi Pace stesso.
Per ciò che riporti sul tuo disaccordo, dicendo:
“Non sono d’accordo con le critiche verso la psicanalisi espresse in questo post, mutuate dal pensiero di Marco Guzzi”,
volentieri chiarisco che ciò che affermo non è un pensiero che mutuo da Marco Guzzi, perché:
-nè Marco nè io abbiamo mai specificato, ancora, a quale forma di psicoanalisi o scuola specifica ci riferiamo.
-considero che non esiste la psicoanalisi ma ormai le psicoanalisi, potremmo arrivare a contarne tipo una ventina o molte di più se solo ci rifacciamo al numero degli istituti psicoanalitici nella sola Italia
– fortunatamente con l’esimio Prof. Carli ho sostenuto l’esame di psicologia clinica nel 1988, e per gran parte degli anni successivi ho approfondito e seguito molto la sua proposta.
-comunque, Carli prima dice della psicologia psicoanalitica (che credo voglia riferirsi alla psicologia clinica di stampo psicodinamico, piuttosto che comportamentista per esempio), poi parla di altri modelli psicologici, infatti, e quando dice “psicanalista” sta affermando di voler ripensare alla psicanalisi come ha fatto da 20 anni or sono.
Per cui sono d’accordo con Carli e con te, sulla funzione del dare senso. Eventualmente ci sarebbe da valutare come si vuol dare senso, e quale è l’AttraversaMento da fare per trovare il senso che sia non solo un’altra forma di idee o concetti alternativi (della mente caratterizzante egoica) pervasivi, ma una ri-generazione sempre di novità del proprio potenziale espressivo, verbale poetico e creativo.