Eccoci arrivati alla terza ed ultima puntata del nostro viaggio intorno al documento “Stati Generali della professione medica – 100 tesi per discutere il medico del futuro”, scritto dal sociologo Ivan Cavicchi su commissione della FNOMCeO (Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri) per avviare il confronto sulla cosiddetta “questione medica”.
Dopo un primo post di lettura complessiva del documento, abbiamo provato a scendere più nel dettaglio delle motivazioni della crisi della professione medica (secondo post).
Ora vorrei provare a focalizzarmi sulla pars construens del documento, lì dove Cavicchi mi ha maggiormente colpita nelle sue proposizioni.
La cosa grandiosa, per chi come me condivide la lettura del nostro tempo di Marco Guzzi e frequenta i corsi Darsi Pace da diversi anni, è che Cavicchi fa un’operazione simile.
Se vogliamo affrontare seriamente la “questione medica”, occorre cambiare paradigma. Il paradigma positivista su cui è ancora fondata la professione medica non funziona più. Questo non significa che buttiamo via il bambino con l’acqua sporca. Vuol dire però mettere in discussione e ripensare radicalmente che cosa significhino scienza, medicina, medico, malato, cura ecc. La ridefinizione non è un puro esercizio linguistico, un intrattenimento per sfaccendati. Qui si tratta di mettere mano alle fondamenta fino a ripensare l’epistemologia, la deontologia e la metodologia della professione.
Il punto cruciale è il passaggio antropologico in atto – e qui come avevo confessato già nel primo post, non posso fare a meno di fondere i linguaggi di Cavicchi e di DP. I cambiamenti cui gli uomini e le donne stanno andando incontro, volenti o nolenti, sono tali da sovvertire i riferimenti identitari avuti finora. Tutto ciò accade in un mondo complesso, dove i sistemi che lo compongono si intrecciano con un alto tasso di intersezioni. Un paradigma come quello positivista che si basa sulla riduzione della realtà ad un accostamento di subsistemi semplici a basso livello di connessioni reciproche, in cui i singoli elementi sono meccanicamente allacciati l’uno dopo l’altro, secondo catene rigide, non può più dare conto del mondo in cui viviamo.
La medicina e il medico del futuro dovranno delinearsi dentro un paradigma che consideri centrale le interconnessioni più delle parti, un paradigma in cui la qualità fondativa sia la relazionalità.
Il medico allora non sarà più l’osservatore di una malattia oggettivata e ridotta a fatti scientifici, dispensatore di terapie imposte ad un malato-paziente. A partire dalla relazione di cura, il medico sarà il partner che rende disponibile le evidenze scientifiche da discutere con l’altro partner relazionale, il malato, per giungere insieme alla soluzione di cura migliore per quella persona.
La proposta di cura non è un’imposizione a senso unico, ma l’esito della ponderazione delle conoscenze scientifiche portate dal medico, e delle conoscenze soggettive portate dal malato, tenuto conto del contesto di vita del malato, delle sue credenze, delle sue attese, dei suoi valori. La conoscenza logico-razionale dovrà perciò essere integrata con la conoscenza portata dalla ragionevolezza, dall’intuizione e dal buon senso che fanno capo all’esperienza del medico nell’incontro quotidiano con i singoli malati. I protocolli, le linee guida, le analisi ad alto contenuto tecnologico sono tutti ottimi strumenti di indirizzamento, ma la scelta della giusta risposta per quella persona singola sarà il risultato del calarsi nel suo contesto di vita, tenuto conto delle realistiche possibilità di sostenibilità di quella proposta terapeutica per quella persona.
Cavicchi ci tiene a precisare che tutto questo non ha nulla a che fare con l’amabilità. Non si tratta di avere medici un po’ più gentili ma a “paradigma invariante”, come ama esprimersi spesso nel documento. Non ci servono aggiustamenti di superficie. Occorrono cambiamenti radicali che possono avvenire soltanto se si ha il coraggio di mettere in discussione il paradigma di partenza.
Il consenso informato diventa così un modo di essere del medico e del malato nella loro relazione di cura. L’approdo alla scelta finale avviene come ultimo atto di un processo. Intanto bisogna costruire un rapporto di fiducia, dentro un dialogo tenuto sempre vivo, luogo della contrattazione continua, fino alla soluzione adeguata per quella persona, che potrebbe anche non essere la soluzione raccomandata dalla razionalità della Evidence-Based Medicine.
La medicina positivista lascia allora il posto alla “medicina della scelta”, per usare il termine di Cavicchi. La cura, intesa come processo, si fa “opera” e così ne raccoglie tutta la complessità. Il malato, non più paziente, diventa “esigente” cioè il cittadino malato che chiede di avere parola, la sua, nell’opera in cui cerca salute. Il medico diventa “auto-re” cioè autonomo e responsabile, dove la sua professionalità può essere giocata sulla conoscenza scientifica flessibile al punto da adeguarsi alle reali necessità dell’esigente. La responsabilità della scelta allora sarà veramente condivisa con l’esigente che diventa co-autore della propria cura.
In una prospettiva come questa, anche il versante economico trarrà grandi benefici. La sostenibilità non sarà più interpretata, come accade attualmente, nella forma dei tagli lineari alla spesa sanitaria. Sarà invece l’esito di un’appropriatezza reale, quella fatta su misura per lo specifico esigente, che ad esempio evita l’applicazione di procedure inutili per la persona, anche se necessarie per la loro standardizzazione. La medicina della scelta poi, dove auto-re e co-autore sono partners di una relazione fiduciale, farà certamente scendere il contenzioso legale, le denunce dei malati, il burn-out di medici che si sentono sempre più frustrati nella loro autonomia professionale e rischiano di scegliere la strada più facile della salvaguardia degli interessi personali in un sistema che si percepisce come caotico, dotato di pochissimo senso.
L’impresa proposta da Cavicchi è immensa.
Il documento “Stati Generali della professione medica” è la sistematizzazione di una proposta di cambiamento rivoluzionario in ambito sanitario che peraltro, per come è posta, potrebbe essere trasferita in qualunque altro ambito, dalla scuola all’economia.
La “questione medica” potrà essere affrontata soltanto se la si prende ad ampio raggio, cioè se non ci si arrocca nei confini di ruolo, ma se ci si apre ad un confronto allargato, in cui i protagonisti siano, a pari merito, i professionisti sanitari, i cittadini, i politici e gli amministratori, le istituzioni formative come le università, i sindacati e l’organizzazione del lavoro.
L’esortazione di Cavicchi è quella di costruire piattaforme di discussione in cui non si abbia paura di guardare in faccia la realtà della crisi, di analizzarla nei dettagli, di non temerla ma di coglierla come opportunità di cambiamento per dare alla medicina, al medico e al malato un futuro che sia per il bene della persona, malato e medico, fuori da ogni retorica. Continuare nel vecchio paradigma è la distruzione, decidersi per una trasformazione a partire dal paradigma è mettersi in una prospettiva di rigenerazione e di vita.
Riferimento bibliografico
Ivan Cavicchi, “Stati Generali della professione medica – 100 tesi per discutere il medico del futuro”, Editore FNOMCeO 2018
Ivan Cavicchi, Docente di Sociologia delle Organizzazioni Sanitarie, Logica e Filosofia della Scienza presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia – Università Tor Vergata (Roma)
Laurea honoris causa in Medicina e Chirurgia
Cara Iside, anche in questo campo l’approccio illuministico e positivistico è , parafrasando la matematica, “condizione necessaria ma non sufficiente”.
Come proponi tu, la relazione deve qualificare il medico e la medicina del futuro.
Esattamente quanto possiamo imparare dal coronavirus portatore della Morte che miete ogni giorno centinaia di vite nella mia Valle seriana e in bergamasca, e ne falcidia decine di migliaia ovunque.
Lo scandalo è la morte, ma quello che ci fa piangere è il morire da soli, con la sensazione di solitudine totale, anche se infermieri e medici e volontari e suore non abbandonano nessuno.
Come ha detto Beschi, il vescovo di Bergamo, c’è bisogno del gas ossigeno per i polmoni dei malati, ma c’è bisogno anche di un altro ossigeno, quello di una conversione fondata sull’Amore, capace di delineare un profilo antropologico nuovo, pensiero e cultura nuova, con stili di vita diversi.
Abbiamo constatato tutti, col pochissimo che abbiamo visto di questa ecatombe, che i moribondi avevano bisogno dei respiratori ma al tempo stesso coi loro occhi imploravano vicinanza e conforto, per non precipitare nella disperazione: ai sanitari veniva chiesta una relazione, veniva chiesta la medicina dell’empatia.
Grazie del tuo bel trittico, GianCarlo
Soltanto a partire da una nuova modalità di essere-in-relazione-fiduciale potremo ricostruire la nostra umanità, il nostro modo di stare al mondo.
Questa esperienza ci sta facendo toccare con mano la nostra sconsideratezza e le sue pesanti conseguenze. E questo in tutti gli ambiti: il parametro economico (della convenienza di pochi) come unico criterio per le scelte politiche, il consumo selvaggio, la depredazione delle risorse, l’organizzazione globale-a-tutti-i-costi del mercato, la mobilità forsennata, uno stile di vita sprecone ecc. In questo periodo si accentuano le conseguenze in modo particolare sul sistema sanitario che rischia il collasso, dato che è stato gestito a partire da tutto fuorché dall’umano di cui dovrebbe prendersi cura.
Voglio sperare con tutta me stessa che davvero nulla torni come prima. Mai come ora abbiamo bisogno di crederci e di impegnarci per un ritorno in avanti, come dice Guzzi, imparando dall’esperienza, non negando l’evidenza, smettendo di pestare i piedi e volere il giochino, perché ciò che mi piace nell’immediato non necessariamente è ciò che è giusto per una vita buona/gustosa.
Questa potrebbe essere l’ultima chiamata, sarà bene non perdere l’occasione…
iside
Mi auguro che tutti questi buoni propositi (che tra l’altro hanno vecchia data), che veramente mi piacerebbe vedere realizzati, contemplino anche una minor presunzione da parte dei medici affinché con umiltà accolgano e imparino dai sistemi non convenzionali e olistici di cura i quali anche in questo tempo di pandemia, stanno dando, senza che se ne dia notizia o se la si da è solo per denigrare e screditare. Certo, perché questo avvenga, è necessario far cadere molti interessi e legami con le lobbies farmaceutiche e mettere finalmente al centro del nostro vivere l’UOMO, NON IL DENARO. E perché ciò avvenga è necessario che nelle coscienze di tutti avvenga una conversione. Ma finché dominerà il pensiero unico, “scientifico”, non si andrà mai da nessuna parte.
Grazie