In questi ultimi decenni abbiamo sentito tutti la necessità di una nuova proposta politica.
Già questa espressione, per le orecchie di chi cerca veramente un’alternativa, appare ormai consumata, esaurita. Quante “nuove politiche”, quante “novità”, quanti “volti nuovi”, quanti “libri-programmi” sono apparsi in questi anni? Quanti uomini e donne della provvidenza sono usciti fuori ad annunciare novità per poi mostrarsi come i peggiori custodi della conservazione? Quante proposte si sono rivelate deludenti, a volte raccapriccianti, comunque inefficaci? Lo Stato Sociale, il gruppo musicale italiano, canta infatti esultante “niente nuovo che avanza”. Il nuovo è diventato una categoria del vecchio. La novità, un’arma della restaurazione.
Questo fatto, tuttavia, piuttosto che farci chinare il capo ad accettare una quiete rassegnazione, magari condita da qualche ragionamento intellettualistico o spiritualista, dovrebbe farci interrogare con maggiore profondità sui contorni di questo bisogno di novità. Dovremmo cioè chiederci a quale livello di radicalità questa novità esige di essere presa in considerazione.
Forse, questi “uomini della novità” coglievano un’urgenza autentica, una necessità reale, solamente per motivi strumentali? Forse utilizzavano questa fame di senso camuffandosi sotto le vesti della novità, ripetendo però sempre gli stessi schemi, le stesse parole, e quindi consolidando il blocco del ghiaccio e dell’omologazione? Forse, la possibilità di una novità è ancora tutta lì, inascoltata, non vista, ma pure evidente, chiara, limpida, nei cuori troppo spesso sfiduciati degli umani del XXI secolo?
La verità, da cui dovremmo partire per evitare il rischio di discorsi da superficie, è che quando chiediamo una nuova politica, in realtà, chiediamo sempre e innanzitutto un nuovo linguaggio. Il nostro bisogno di novità riguarda innanzitutto il clima linguistico-politico-spirituale che impolvera le nostre società. La nostra cultura è infatti tutta lì, ingobbita in un XXI secolo che crede di poter ignorare il Novecento, rifluendo in un Ottocento borghese, liberale, positivista.
La nostra fame di novità è un bisogno di farla finita definitivamente con un reflusso reazionario, superficiale, narcisistico e vuoto di una cultura che appartiene a un’altra era geologica. La nostra fame di novità è il bisogno di proporre e vivere la stessa ambizione rivoluzionaria e trasformatrice che ha animato le menti nell’ultimo secolo e mezzo, sottraendola però da tutte le ipoteche violente di dominio. La nostra fame è alta: vogliamo riprendere una battaglia, purificandola dalle distorsioni del Novecento.
Questo è quello che vogliamo e che purtroppo “il mercato”, anche culturale, non offre, perché non ha motivi di farlo. “Non si pensa più. Si fa filosofia”. Così scriveva Heidegger nel 1947. Chissà cosa direbbe ora…
La nostra fame di novità è quindi innanzitutto la fame di un linguaggio che ci dia senso, interpretazioni, visioni, linee guida. Un linguaggio così consola e unisce, molto più degli appelli moraleggianti all’unità. Se non ripartiremo da questa essenzialità nell’analisi, da questo realismo poetico, ogni ricchezza presunta di elaborazioni, proposte, programmi, progetti, libri, partiti si manifesterà presto per quello che è: un niente che collabora in un modo o nell’altro al consolidamento del dominio.
La nuova politica, che nascerà sicuramente, dovrà invece partire da un’osservazione povera di ciò che c’è. Senza mascheramenti e infingimenti, senza sovrastrutture eccessivamente pesanti, e tra l’altro oggi tristemente inefficaci. La nuova politica richiede invece la mobilità rapida dello spirito, la leggerezza efficace del pensiero. E questo non è psicologismo da quattro soldi: è lo stato della cultura europea dopo il tracollo delle grandi ideologie. Pensare di rispondere a questa crisi con i metodi o i linguaggi di trenta o trecento anni fa vuol dire concedere la vittoria al neoliberismo, che sa su questo essere molto efficace e molto più furbo, in quanto dotato proprio di una sua (satanica) potenza visionaria.
La nuova parola del politico sarà quindi necessariamente poetica, artistica, ma anche economista, sociologica, climatica. Sarà oltre la ripartizione ingenua interiorità/esteriorità. La politica è un fatto umano, e come tale tocca l’umano nella sua intrinseca e connaturata relazionalità col mondo. Non vogliamo una politica dell’interiorità, vogliamo solo una Politica, e chi conosce un minimo la storia delle dottrine politiche sa bene che l’attuale riduzionismo economicista è solo una buffa e pietosa eccezione.
Vogliamo, sì, una politica della totalità. Una politica che non sia solo mera amministrazione, perché “chi non si sa occupare delle questioni ultime, non è in grado neanche di occuparsi delle questioni penultime”. E infatti questa “politica del fare”, della tecnica, del dominio di (un certo) economico, è stata anche la politica della peggiore fase di crescita economica e sociale che l’Europa ricordi da almeno cento anni.
Una politica della totalità è una politica che torna ad ascoltare ciò che c’è nella società. E oggi nella società c’è un grido. Inascoltato, incompreso, involuto, ma un grido forte, spesso proprio perché inconsapevole. Viviamo come compressi in un grido trattenuto, nella razionalità calcolante e auto-repressiva dei sistemi educativi, politici e culturali di massa.
Questa situazione di compressione è quindi estremamente pericolosa. Questo grido è però in realtà un grido evolutivo, non un’espressione caotica di violenza. È un grido che chiede giustizia sociale, dignità, senso, e che vorrebbe pacificamente sbarazzarsi della coltre densa di menzogna che regna sul sistema mediatico-linguistico dominante.
A tutti questi quesiti, abbiamo iniziato a rispondere in un libro. Geminello Preterossi, professore ordinario di Filosofia del Diritto all’Università di Salerno, e il sottoscritto, in un dialogo, abbiamo tentato di affrontare in forma inedita tutti i punti che riteniamo fondamentali per l’oggi: la critica al neoliberismo, ad un certo processo di integrazione europea, al riduzionismo tecnocratico, al non-senso della cultura della pubblicità e della distrazione, all’ideologia dell’individualismo e del conformismo, alle mode della finta originalità, al moralismo di un certo globalismo ipocrita.
È un libro che si intitola “Contro Golia”, proprio perché la battaglia è ardua. E di fronte al gigante del capitalismo estrattivo e mercificante noi abbiamo solo l’agilità di una fionda, di una parola improvvisa, di un gesto inaspettato. Siamo una minoranza, per ora, lo sappiamo. Ma siamo anche molto consapevoli di come andrà a finire (per i più smemorati, suggerisco capitolo 17 versetto 51 del Primo Libro di Samuele).
È un libro che intreccia tutti gli ambiti del sapere, in una ricerca umile e direi fondamentalmente trasversale. Non è un libro di filosofia, non è un libro di economia. Parla anche di economia, anche di filosofia, ma con un’ambizione maggiore: è un dialogo in cui si affronta il tempo presente con la concretezza e l’essenzialità di un pensiero veramente in ricerca. È quindi intrinsecamente propositivo, positivo, e ricolmo di tutte le speranze che un’analisi profonda concede sempre a chi si mette in cammino. È quindi un manifesto, e in particolare, “Un manifesto per la sovranità democratica”. Anche se queste sono le parole che innanzitutto dobbiamo ricapire, reinventare, non dando nulla per scontato.
Questo è il tentativo che abbiamo svolto in una modalità di scrittura che con lo scorrere del libro matura e si modifica. Mentre i primi due capitoli sono infatti una critica spietata e storicamente fondata degli ultimi cinquant’anni di storia italiana ed europea, gli ultimi tre si aprono ad un ascolto più ampio dell’intero corso moderno, che tenta di ricomprendere tutti i concetti chiave che hanno animato gli ultimi secoli: libertà, uguaglianza, democrazia, alienazione, laicità, rivoluzione.
Incominceremo a discutere di questi temi domenica 20 dicembre alle ore 17:30, in un evento telematico organizzato dal movimento l’Indispensabile e dalla rivista La Fionda, con Vladimiro Giacché, Geminello Preterossi e il sottoscritto.
Questo è il link dell’evento!
La cultura della ragione astratta svuota le persone e diviene scientismo a favore di pochi potenti e del loro apparato di meri esecutori. Ma lo scientismo domina gli stessi potenti. Bisogna restituire alle persone la possibilità di scegliere fin dalla scuola la formazione alla luce della identità ricercata e nello scambio con le altre. Si supera così la scissione tra cultura e vita, teoria e pratica, tipica dell’intellettualismo. Pensiamo ad un cristiano che oscilla tra fede delle risposte prefabbricate e pragmatismo dell’incontro senza sviluppo dei riferimenti. Si è svuotati in entrambi i casi. Poteri sedicenti conservatori delle identità chiuse e progressisti fautori di un omologante solidarismo si contrastano ma anche si spalleggiano nel manipolare la gente. Invece identità e scambio favoriscono la maturazione delle persone e dunque poi una nuova partecipazione. Formazione e informazione oggi sono il vero potere e toglierlo agli unici legittimi suoi detentori, la gente, ciascuna persona, significa già spegnere la democrazia e portare la società allo svuotamento e dunque al crollo. Per diffondere queste consapevolezze è necessario che tra chi se ne avvede si sviluppi una collaborazione reciproca. Chiudersi nei propri orticelli di corto respiro fa il gioco dei potenti e della tecnica. L’uomo in competizione con la macchina o ad essa complementare. L’individualismo generato dallo svuotamento della tecnica rischia di divenire l’artiglio che ricaccia l’uomo nella schiavitù anche quando si fa conscio di essere usato come un robot.
Grazie caro Gabriele. C’è assoluto bisogno di rinnovare il campo di gioco della politica, “infettandola” di nuovo di questi concetti base, espulsi dal paradigma economicista dominante. Concetti come speranza, libertà, novità, interiorità, arte, realismo poetico: che non a caso ritrovo ben presenti in questo articolo. Concetti di cui il nostro cuore è già – felicemente e irrevocabilmente – infettato, tanto che grida di esasperazione nell’atmosfera di tecnicismo economico dominante.
Quello che mi apre più il cuore è la tensione, in tutto il tuo scritto, all’amicizia cordiale tra le varie discipline umane. “La nuova parola del politico sarà quindi necessariamente poetica, artistica, ma anche economista, sociologica, climatica.” Io aggiungerei che sarà anche “scientifica”, sempre “necessariamente”. Certo, di una scienza non riduzionistica, di una scienza che ha imparato la dura lezione dello stravolgimento della fisica del novecento (relativistica, quantistica, teorie del caos), che ha assimilato l’umiltà dalla condizione eccentrica della cosmologia attuale (abbiamo una ricapitolazione del cosmo precisa, rispondiamo finalmente a domande fondamentali sull’età e grandezza dell’Universo, allo stesso tempo non sappiamo di cosa è fatto il 95% della materia-energia).
Auspico ogni bene a questa nuova politica, che immagino anche non monolitica e veramente dialogica, aperta alla diversità e alla pluralità che necessariamente si apre davanti alle scelte concrete contingenti, superando ogni tentazione ideologica (sempre in agguato, soprattutto tra “i buoni”).
Sarà davvero una bella avventura. Bella, e necessaria.
Il libro è :
Geminello Preterossi dialogo con Gabriele Guzzi
“CONTRO GOLIA”
Editore Rogas
euro 15,70
Compriamolo e leggiamoloooooooooooo