Nel post precedente abbiamo iniziato a parlare di speranza e ne abbiamo tracciato gli elementi fondamentali: uno di questi è sicuramente la parola.
Vale la pena approfondire il legame tra parola e speranza, perché questo rapporto, che tutti intuiamo essere reale e profondo, è stato studiato scientificamente, analizzando cosa succede nel cervello del malato quando interagisce con il medico o con il terapeuta.
Fabrizio Benedetti è professore di Fisiologia Umana e Neurofisiologia all’Università di Torino ed è anche uno dei massimi esperti mondali dell’effetto placebo e delle sue applicazioni cliniche. Un suo recente libro ha un titolo che mi ha subito incuriosito: “La speranza è un farmaco. Come le parole possono vincere la malattia”[i].
Come nel libro di Alberto Scanni[ii], che ho citato nel post precedente, anche qui sono raccontate storie di pazienti e come il fattore speranza ha agito nel loro percorso di guarigione. Da neuroscienzato Benedetti analizza però nel dettaglio cosa avviene nel nostro cervello quando speriamo, cioè quando parole, gesti e contesto inducono il malato a sperare concretamente in un miglioramento delle sue condizioni.
Desiderio, aspettativa cosciente e fiducia sono gli elementi necessari perché si possa parlare di speranza. Dal punto di vista medico fondamentale è la fiducia del malato: è questa che sostiene l’aspettativa che ciò che voglio succederà. Questa fiducia si costruisce attraverso diversi fattori, che dipendono dalle credenze personali, dalla cultura e dalla società.
Dal punto di vista biologico ed evoluzionistico, spiega Benedetti, la fiducia è una proprietà del cervello umano che è determinante nell’innescare un comportamento pro-sociale, cioè nel farci avvicinare emotivamente alle persone. Chimicamente è stimolata da un ormone, l’ossitocina. Fondamentali per la sua produzione sono una serie di gesti la cui caratteristica fondamentale è la reciprocità: il contatto visivo, la stretta di mano, la prossimità fisica di tipo empatico. Questi costituiscono un potente sistema di comunicazione delle emozioni e delle intenzioni, sollecitano attenzione e interesse, e contribuiscono alla crescita di quella fiducia che è indispensabile per sperare sul serio.
Nella complessa di rete di relazioni tra desiderio, aspettativa e fiducia giocano un ruolo fondamentale le parole.
Le parole sono simboli, suoni dal potente significato che hanno lo scopo di comunicare concetti, sensazioni, stati emotivi, tutto ciò che riguarda noi stessi e il mondo che ci circonda. Il cervello umano ha delle aree specializzate ed esclusive per il linguaggio. Le parole, una volta decodificate da queste aree, inducono aspettative negative o positive.
L’esperienza clinica mostra che con le parole giuste i farmaci funzionano meglio, mentre le parole sbagliate possono vanificare o ridurre di molto gli effetti di quegli stessi farmaci.
Scrive Benedetti:
“Oggi la scienza ci dice che le parole sono delle potenti frecce che colpiscono precisi bersagli nel cervello, e questi bersagli sono gli stessi dei farmaci che la medicina usa nella routine clinica. Le parole innescano gli stessi meccanismi dei farmaci, e in questo modo si trasformano da suoni e simboli astratti in vere e proprie armi che modificano il cervello e il corpo di chi soffre. È questo il concetto chiave che sta emergendo, e recenti scoperte lo dimostrano: le parole attivano le stesse vie biochimiche di farmaci come la morfina e l’aspirina, ma visto che nel corso dell’evoluzione sono nate prima le parole e poi i farmaci, è più corretto dire che i farmaci attivano gli stessi meccanismi delle parole.”
I meccanismi al momento conosciuti sono due:
- l’aspettativa e l’anticipazione della riduzione di un sintomo inducono una reale diminuzione del sintomo stesso, attraverso meccanismi in cui i lobi frontali del cervello giocano un ruolo da protagonista. Aspettarsi una riduzione del dolore riduce l’ansia, che a sua volta è strettamente correlata a sintomi come il dolore. L’aspettativa di un evento positivo – per esempio un beneficio terapeutico – scatena anche i meccanismi cerebrali di “ricompensa”, cioè quelli che ci permettono di anticipare un evento piacevole.
- il secondo è un meccanismo di apprendimento. L’associazione ripetuta fra il contesto che il paziente ha intorno (es. siringa, personale medico – i cosiddetti “rituali dell’atto terapeutico”) e il principio farmacologico attivo induce nel paziente una risposta condizionata, per cui dopo tante e ripetute associazioni, la sola vista di quella situazione sarà sufficiente per indurre alla riduzione del sintomo.
Questi meccanismi non si escludono a vicenda e possono entrare in gioco in diverse situazioni. In ogni caso – è questa è la cosa straordinaria- qualunque meccanismo entri in gioco, nella pratica clinica si ha la modulazione delle stesse vie biochimiche influenzate dai farmaci.
Questi effetti sono stati misurati attraverso la risonanza magnetica funzionale, che permette di vedere cosa succede nel cervello del paziente durante determinate condizioni. Nel circuito neuronale della speranza si attivano le aree più anteriori del cervello (prefrontali) e quelle più profonde (sistema limbico e tronco dell’encefalo). Attivandosi, queste aree producono sostanze simili agli oppioidi e alla cannabis, sostanze che producono sollievo, veri e propri antidolorifici naturali.
Bisogna anche dire che esiste una grossa variabilità tra soggetto e soggetto e che queste risposte sono in genere di breve durata, ma la direzione è chiara: parole e atteggiamenti hanno un impatto sui circuiti nervosi del paziente e quindi sulla possibilità di attivare il nostro cervello come una vera e propria farmacia interna.
Analogamente parole e contesti negativi possono indurre effetti opposti, attivando quello che viene chiamato effetto nocebo. E’ il caso, per esempio, della comunicazione di una diagnosi negativa che, senza quegli elementi di speranza di cui abbiamo parlato finora, può addirittura accelerare il decorso della malattia. Analogamente la lettura del bugiardino di un farmaco, con tutti i suoi effetti collaterali, può provocare un insorgere proprio di quei sintomi che la lettura – e la paura – hanno prefigurato.
Questo effetto distruttivo delle parole lo stesso Benedetti lo evidenzia anche al di fuori dell’ambito medico, per esempio in un certo tipo di comunicazione di massa.
Le notizie allarmistiche producono effetti sui nostri corpi, il clima emotivo con cui sono trasmesse non è mai neutrale. Le parole possono curare, ma possono fare anche molto male. Stimolati negativamente, i nostri circuiti nervosi iniziano a produrre ansia anticipatoria, che induce l’attivazione nel cervello di una sostanza (CKK), che a sua volta produce un effetto amplificante del dolore, anche quando non è presente nessuno stimolo dolorifico. In pratica è come se fossero inibite alcune nostre risorse interne di guarigione e amplificate altre, necessarie per affrontare eventi negativi, che però non si sono ancora verificati.
A conclusione di questo breve viaggio dentro i meccanismi della speranza, vorrei proporvi due mie considerazioni, che sono anche domande aperte.
La prima riguarda la relazione paziente-terapeuta: ormai è chiaro che il contesto psicosociale ed emotivo in cui questa avviene è uno dei fattori che concorrono, o possono ostacolare, la nostra guarigione.
Si parla tanto di umanizzazione della medicina ma, nei fatti, quanti medici o terapeuti sono messi nelle condizioni di poter utilizzare questo fattore decisivo in modo consapevole e nei tempi e con la cura necessaria?
Come pazienti siamo consapevoli di quanto sia necessaria una nostra attiva partecipazione, una cura dei nostri pensieri, delle parole che abitano dentro di noi, e di come tutto questo sia profondamente collegato alla nostra salute?
La seconda considerazione riguarda il clima comunicativo con cui il ciclone Covid-19, ma non solo quello, ci viene trasmesso ogni giorno: una mancanza così evidente di buon senso, ancora prima che di conoscenze elementari dei processi psicologici e neurologici, è solo una disattenzione? Nell’attivare i nostri comportamenti di consumo sono utilizzate tecniche psicologiche sottilissime, precise, tutt’altro che approssimative: perché non si usano quelle stesse competenze per favorire con le parole e con i contesti la creazione di un clima comunicativo diverso?
Tenere insieme chiarezza e verità, ma anche fiducia e speranza è possibile, e ci aiuta a guarire.
[i] F. Benedetti, La speranza come farmaco. Come le parole possono vincere la malattia, Mondadori, 2018
[ii] A. Scanni, La speranza. Vivere con positività le difficoltà momentanee, Tecniche Nuove, 2018
Grazie Antonietta per questo splendido scritto. In questo particolare momento della mia vita le tue parole risuonano in me come balsamo e indicazione di quale sia la direzione del percorso di guarigione.
Che grazia di Dio poterti leggere Antonietta! E quale sincronicità poterlo fare alla vigilia di un evento che, verosimilmente, sancirà la qualità/durata della mia restante vita biologica. Grazie infinite, e che Dio ti benedica.
Grazie Antonietta di avere focalizzato l’attenzione su un aspetto cosi’ importante della relazione medico/paziente e di ogni relazione: la parola.
A questo proposito vorrei raccontare un episodio che ho vissuto recentemente.
Mi trovo in consulenza con una madre che accompagna il figlio di 11 anni per un disturbo dell’attenzione. Durante il dialogo, la madre mi mette al corrente che il padre del ragazzino, anestesista-rianimatore, si é suicidato nel posto di lavoro l’anno precedente.
Avverto l’urgenza di “dire qualcosa di appropriato”ma mi rendo conto immediatamente che le mascherine sul mio volto e sul loro, deformano la comunicazione. Cerco di concentrarmi sul contenuto delle parole ma ho piena coscienza che quelle parole, private del viso che avrebbe rivelato l’intenzione che stava dietro, restano probabilmente inefficaci. Inoltre nessuna possibilità di verificarne l’effetto e di adattarle, essendo anche il loro viso coperto.
Preciso che mio marito é anestesista e che nel corso del dialogo intuisco che il padre del ragazzino che ho davanti é il medico deceduto che mio marito ha finito per sostituire. Fatto puramente fortuito ma che rende encore più forte il bisogno di “entrare personalemente in quel momento in quella relazione con la mia soggettività”, ma una soggettività privata di cio’ che é più vero e spontaneo: l’espressione del volto.
Mi manca il contatto che si crea fra due persone quando lo “scambio é a viso scoperto”, quando cioé la condivisione e la trasmissione dell’emozione é svelata, quando l’intenzione espressa dà il loro vero senso alle parole.
Sì, una strada innovativa che apre orizzonti a tutto campo. https://gpcentofanti.altervista.org/metanoeite-significato-greco-del-convertitevi/
Cara Antonietta,
davvero interessante il tuo scritto. Sulle domande che poni alla fine poi c’è davvero da riflettere moltissimo.
Mentre leggevo mi è venuta una curiosità, un chiarimento che vorrei chiederti: in che senso esattamente la fiducia è una proprietà del cervello? In seguito scrivi che è stimolata dall’ossitocina. Ma la fiducia in sé non riguarda più la dimensione psicologica che quella relativa alla struttura neurobiologica del cervello ? Forse le due cose sono legate, e in questo ultimo caso sarebbe interessante capire come, in quanto mi sono sempre posta domande sul rapporto tra psicologia e struttura cerebrale. Non so se magari ti è capitato di leggere o studiare qualcosa a questo proposito. Sarebbe molto interessante uno scritto su questo tema.
Ti ringrazio ancora per questo post così ricco di spunti.
Un abbraccio
Maila
cara Antonietta, quello che scrivi è molto importante per me! Da malato cronico di una malattia neurologica che mi fa tribolare da anni credo sia fondamentale questo rapporto tra le parole che hai nominato. Sto cercando di sfruttare al meglio possibile le risorse di forze residue. Stando insieme, trasmettendoci parole ricche di senso e di valore, affidandoci a sentimenti reciproci di bene, uniti in un unico spirito è possibile, mi sembra di farcela, avanzare, continuare, vivere dignitosamente ugualmente e nonostante tutto! Grazie cara Antonietta grazie davvero. Un caro saluto a tutti da Fabio.
Nella mia esperienza di medico posso dire che la relazione è davvero fondamentale per l’esito delle cure stesse. Per questo è importante avere, anche nei pochi minuti che si riescono a dedicare in alcune situazioni, un atteggiamento di ascolto, positivo ed empatico. Purtroppo non sempre noi operatori sanitari crediamo in questo, e spesso siamo freddi, distaccati, o anche (più o meno esplicitamente) pessimisti nei confronti della prognosi dei pazienti, inconsapevoli che stiamo influenzando negativamente gli eventi, se non altro per quanto riguarda l’umore, la speranza e la motivazione a curarsi e cercare di superare il proprio problema di salute.
Ma a quanto pare le parole (e con esse gli atteggiamenti) assumono il peso di un potente farmaco, interagendo realmente coi processi biologici del nostro organismo, non possiamo dimenticarcelo! E questo vale per le parole in cui crediamo, quelle che diciamo a noi stessi e agli altri.
L’atteggiamento che assumiamo e ciò che comunichiamo dipendono quindi da ciò in cui crediamo. Evidentemente i media più influenti e la politica sono ancora in mano a quella parte di società che crede molto nel consumismo e poco nella speranza.
Grazie mille per questa notizia confortante. La cura per le nostre malattie la riceviamo dalle parole proprio come nella Preghiera dei Figli di Dio e abbiamo la possibilità di aiutare chi soffre con parole bene-dette. È un grande dono che ci hai fatto.
Grazie cara Antonietta per questo bel post, preciso e confortante. In effetti è pieno di buone notizie, da ruminare con calma. Da artigiano scrittore, avere conferma che la parola è realmente potente (come posso sfuggire alla celeberrima “le parole sono importanti” di Nanni Moretti, che comunque aveva già colto il punto?), è come ritrovarsi tra i ferri del mestiere degli utensili di una capacità di incisione e precisione fantastici. Poi usarli bene è difficile, e ci sono grandi artisti e “artigiani” e mi metto senz’altro tra i secondi: ma quello che è bello è che sono realmente molto potenti.
Ciò che mi conforta ancora di più è leggere che “oggi la scienza ci dice che le parole sono delle potenti frecce che colpiscono precisi bersagli nel cervello, e questi bersagli sono gli stessi dei farmaci che la medicina usa nella routine clinica.” Essendo in un percorso terapeutico ormai da un po’, ricevo da questo nuova fiducia e anche speranza di più incisiva “guarigione”, perché è veramente bello quando si comprende che le parole non sono appena strumenti di chiacchiera ma medicine potenti, ovviamente sapendole usare. Certo, poi la parola è continuamente svilita, violata e violentata dai media e dall’impero pubblicitario, che la umiliano e la depotenziano, ma questo è un’altro discorso legato all’assetto neoliberista, che pure è ben argomentato in Darsi Pace, non c’è necessità che vi spenda parole qui.
Proprio dalla mia esperienza ricavo uno spunto di risposta, infine, laddove chiedi, giustamente, “come pazienti siamo consapevoli di quanto sia necessaria una nostra attiva partecipazione, una cura dei nostri pensieri, delle parole che abitano dentro di noi, e di come tutto questo sia profondamente collegato alla nostra salute?”.
Ebbene, questo ha richiesto a me una “conversione” mentale tutt’altro che immediata. Nel percorso terapeutico sono passato infatti dalla cautela e dal sospetto iniziali, ad una sorta di fiducia “magica” nel processo stesso (come se tutto avvenisse semplicemente esponendomi al processo stesso), e infine piano piano – richiamato molto spesso a questo dalla stessa terapeuta – a comprendere come io mi debba fare parte attiva, come tu spieghi, nel processo di guarigione, che non avviene mai “nonostante me” ma soltanto con la mia attiva e creativa collaborazione. Se posso citarmi, è quella dinamica di “imparare a guarire” che avevo messo come titolo alla mia raccolta di poesie, perché in effetti mi sembrava centrare un atteggiamento fondamentale e sempre da riprendere.
Fin troppo ovvio, poi (ma non per questo da sottovalutare) anche il piacevole rinforzo e la potente corroborazione che approcci come Darsi Pace ricevono, giustamente e limpidamente, dalla nuova comprensione della potenza della parola.
Grazie dunque per questi spunti preziosi, da trattenere!
Cara Antonietta,
riprendo la breve riflessione, quasi lapidaria, con la quale concludi il tuo scritto e la riprendo perché quella riflessione contiene due considerazioni che hanno provocato in me varie illuminazioni: ci dice, infatti, la tua riflessione, che non c’è contrasto tra la verità e la chiarezza ma anche che la fiducia e la speranza possono affiancarsi alla verità e fiducia e speranza, insieme alla verità a alla chiarezza, possono aiutarci a guarire.
A proposito della chiarezza nella verità mi è venuto subito in mente ciò che accade molto spesso con il medico generico e/o lo specialista, i quali pronunciano la loro diagnosi con termini tecnici specifici che possono comprendere solo gli addetti ai lavori…
Il paziente, timoroso, fragile, confuso, difficilmente chiederà una spiegazione accessibile alla sua povera mente e già precipitare in questo vuoto di significati provoca una stato di ansia, di sconforto e di smarrimento che non aiutano certo a star meglio!
Non è possibile spiegare una diagnosi in termini comprensibili, semplici, sia pure di una semplicità di secondo livello? La verità della diagnosi resterebbe tale, non verrebbe inficiata dalla chiarezza.
Ma forse una spiegazione chiara ed esauriente, richiede un certo tempo e come si fa’ quando ci sono tanti pazienti che aspettano?!
Da parte del paziente, poi, c’è il problema, a volte, della descrizione dei sintomi. anche qui verità e chiarezza giocano un ruolo importante. Ti sei preparato, sei pronto con il tuo elenco ma presto il medico ti interrompe e parla Lui, ha capito, non occorre tu dica altro.
E anche questa interruzione della tua narrazione, fa naufragare il sollievo che già ti recava il poter condividere, finalmente con l’esperto, le tue pene e i tuoi segreti timori.
Come tu scrivi, il contatto visivo, la stretta di mano, i piccoli gesti quotidiani e tranquilli con i quali il medico accoglie, creano già quel clima di empatia, favoriscono lo stabilirsi di quel rapporto di fiducia così determinante per avviare un processo di guarigione sostenuto dalla speranza.
Il tuo scritto, cara Antonietta, ha riacceso in me tante speranze che non mi sentivo più di coltivare. Le ha riaccese perché l’analisi che conduci, così limpida, lucida e profonda, trova continue risonanze nel mio intimo e, come ho visto negli altri commenti, non solo nel mio.
Ho letto con grande interesse anche le considerazioni con le quali Pier Luigi Masini, che è un medico, introduce e condivide i temi del tuo post.
Ti ringrazio, dunque, per aver trattato con chiarezza e competenza, ma senza irrigidimenti, un tema così attuale, controverso e sentito, credo, da molti, se non da tutti.
Un saluto carissimo
Francesca
Grazie a tutti per le vostre belle risonanze.
Ringrazio in particolare Roberta e Pier Luigi per aver condiviso il sentire del medico: a noi pazienti il lato umano di chi sta dall’altra parte della relazione di cura spesso sfugge, mentre dovrebbe essere il primo ad essere avvertito da entrambe le parti.
Provo anche a rispondere qualcosa alla domanda di Maila.
La nostra dimensione psicologica non è separata dalla nostra struttura neurobiologica e dalla nostra corporeità, perché tutto quello di cui facciamo esperienza avviene nel corpo. Questa frase sembra ovvia, ma spesso noi ragioniamo come se il corpo fosse qualcosa di separato dalla mente.
Le scoperte sul cervello umano sono affascinanti, anche per chi, come me, non ha una preparazione scientifica sufficiente per andare a fondo. Esistono però molti testi divulgativi, come quello oggetto di questo post, che confermano dal punto di vista della scienza la validità di nostre esperienze importanti, anche di quelle che a volte definiamo come “esperienze dell’anima”. In quest’ottica la speranza e la fede sono esperienze a tutto tondo, che ci coinvolgono in tutta la nostra interezza psicofisica.
Approcci di questo tipo a volte però corrono il rischio di ridurre l’essere umano alla sua dimensione biologica, svilendo tutto quello che non rientra nella razionalità del metodo scientifico. Con il gruppo DarsiSalute stiamo cercando di integrare questi approcci dentro una dimensione più ampia, più umana, e quindi esperienziale e anche spirituale.
Un caro saluto a tutti!
Antonietta
Si questa pare anche a me la via da scandagliare. In definitiva per un cristiano venire portati per grazia, superando le frammentazioni del razionalismo, nel discernere concreto del cuore divino e umano di Gesù nello Spirito che scende delicatamente, come una colomba.
https://gpcentofanti.altervista.org/il-crollo-del-tecnicismo-e-il-germogliare-della-grazia-divina-e-umana/
Grazie Antonietta per questo post.
Credo, e lo sperimento su me stesso, che le parole possono essere di grande aiuto nel processo di guarigione.
Le parole bene-dette hanno un effetto immediato, almeno per me, non solo a livello psicologico ma anche al livello del corpo visto che non sono separati.
Un saluto.
Salvatore
Cara Antonietta GRAZIE, semplicemente GRAZIE per la chiarezza, la profonda umiltà e la passione che si respira nelle tue presentazioni rigiuardo alla Salute.
Le tue parole arrivano al centro e dilatano l’orizzonte, donano gratuitamente e realmente endorfine in un effetto placebo che illumina anche il mio effetto nocebo che io chiamavo auto-goal. D’ora in poi lo chiamerò “effetto nocebo” per richiamare al cuore la bellezza di questo tuo illuminante post che mi ri-corda le mie/ nostre possibilità e responsabilità creative di prevenzione e guarigione personale e cosmica!
Un abbraccio col soffio
Giuseppina
Cara Antonietta grazie per il tuo lavoro di chiarificazione. Voglio aggiungere un pensiero all’interrogativo di Maila.
Ossia, il rapporto tra psiche e cervello potrebbe essere paragonato al rapporto che c’è tra “ il pianoforte e la musica”. Mi spiego: quando pensiamo che le due realtà, pianoforte e musica, o psicologia e fisiologia cerebrale sono separate, commettiamo l’errore ingenuo di non dare giusto valore ad entrambe le esperienze che sono di fatto necessarie.
Il pianoforte non è la musica o la melodia che produce, ma senza la sua concreta essenza, fatta di legni, corde, tasti, collegamenti, qualità dei legni, ecc., la melodia o la musica non potrebbe prodursi. È ovvio anche il reciproco, che la musica non è il pianoforte che l’ha prodotta, ma sappiamo bene anche che quella particolare melodia o partitura esemplare non sarebbe potuta essere creata senza di esso. Come sappiamo bene che un violino stradivari aiuta a emanare suoni di particolare qualità.
Il rapporto tra struttura e funzione è un capitolo di studio della psicofisiologia e della psicosomatica come branca di studio della relazione tra mente e corpo che ormai ha una lunga tradizione consolidata. Questo per dire che ogni approccio che volesse separare la struttura cerebrale dalla sua funzione, il cervello dalla psiche, la cura del corpo dalla relazione fatta di parole tra curante e paziente, nonché il contesto psicosociale o ambientale che li contiene, rischia l’offerta di una prestazione scientista, o psicologi sta, in cui si darebbe più importanza a ciò che di ideologico ( egoico) viene aggiunto al processo di cura in modo del tutto autoreferente.
Mi pare che a noi piaccia la musica suonata bene (come la vita integra) che è apprezzata come esperienza emozionale-emozionata da un insieme di elementi fisici-psichici-mistici, come un tutt’uno integrato del rapporto funzionale tra oggetti o strutture materiali, ed un loro utilizzo relazionale espressivo comunicativo, che rimanendo sul tema possono essere le parole o i gesti che intenzionalmente modulano attraverso il ritmo, il tempo ed il movimento psicofisico le emozioni che si vogliono esprimere.
Infatti le emozioni, la gioia come la paura, sono il risultato di una rilettura soggettiva sensazionale che si fa nel momento in cui è il corpo che si è modificato nei parametri fisiologi in risposta ad uno stimolo, come i muscoli o le tensioni nel corpo, pur se è difficile sostenere che tale emozione si senta più nel corpo o più nell’intimo dell’anima, proprio in virtù del fatto che è dell’esperienza “integrata” corpo mente di cui noi facciamo ascolto.
Ciò ci induce a orientarci “sempre” verso un Uno, un tutto integrato dell’essere.
Ciao, spero di non aver troppo complicato i concetti!?
Michele
Grazie per questi ulteriori commenti e grazie a te, Michele, che ci hai introdotto con un’immagine molto efficace dentro al rapporto tra cervello e coscienza.
Come suggerisce Maila, l’argomento è molto intrigante, chissà che non riusciamo a tornare su questi argomenti, proprio in relazione alla nostra esperienza di trasformazione personale…
Antonietta