Cosa unisce Darsi Pace a una nota sociologa statunitense?
Qualche mese fa mi sono imbattuta per puro caso su internet in un discorso di Brené Brown dal titolo “The power of vulnerability”(Il potere della vulnerabilità), poi approfondito attraverso il libro “Daring greatly. How the courage to be vulnerable transforms the way we live, we love, parent and lead” (Osare alla grande. Come il coraggio di essere vulnerabili trasforma il nostro modo di vivere, amare, essere genitori e guide).
La figura di Brenè Brown ha suscitato fin da subito la mia curiosità per vari motivi. Il primo motivo è in sostanza legato a motivi biografici: si tratta di una donna e penso sia arrivato il momento in cui le donne debbano provare, per l’appunto, a osare di più, a mettersi di più in gioco. Malgrado nella storia, negli ambiti più disparati, ci siano state fortunatamente moltissime pioniere in questo senso, e malgrado oggi la situazione, soprattutto nelle nuove generazioni, stia sicuramente cambiando, avverto in generale nel panorama femminile ancora una certa timidezza, una certa ritrosia, che ha certamente motivazioni storico-culturali, ma che può essere indagata meglio anche a livello iniziatico, lavorando su quei blocchi e quelle paure che seppur trasversali a tutti, hanno delle connotazioni e sfumature differenti tra i due generi.
Negli ultimi anni, provocata soprattutto dal laboratorio di Darsi Pace, questa è stata, e lo è ancora oggi, una delle questioni più pressanti nel mio processo trasformativo: come riuscire a osare di più in un modo che sia però in linea con le mie corde, con la mia personalità, che non sia in fondo troppo violento, che non sia l’ennesima forzatura autoimposta e che non sia soprattutto preso a prestito e copiato da altri. Ma le cose in fondo non sono mai lineari e per quanto la domanda di senso su “chi sono io nella mia verità?” sia il leitmotiv del mio percorso, avverto comunque la necessità di guide che possano ispirarmi, o per meglio dire che possano “insegnarmi”. Credo infatti che una cosa non escluda l’altra e che il processo di scoperta possa anzi essere agevolato e fluidificato mettendo al vaglio della nostra esperienza personale ciò che ci risuona di più nelle scoperte e nelle intuizioni di chi ci ha preceduto.
E in questo senso, considero Darsi Pace una grande scuola, soprattutto per la libertà che lascia di poter sperimentare liberamente e con i propri tempi, ma anche di approfondire gli autori più svariati e negli ambiti più diversi. Per quanto mi riguarda sono quindi spesso alla ricerca di modelli femminili che possano illuminare e arricchire ulteriormente il mio cammino.
Il secondo motivo che ha attirato la mia attenzione su Brenè Brown è stato proprio il titolo del discorso: “Il potere della vulnerabilità”.
La paura di essere feriti, di essere attaccati spesso ci blocca proprio alla sorgente della creatività, del legittimo desiderio di espressione, che non è un altro che un desiderio di vita e di libertà. Quante volte al contrario ci auto-sabotiamo e rinunciamo ad uscire fuori dalla nostra zona d’ombra per la paura di essere feriti a morte? Feriti lì dove sentiamo che risiede il cuore pulsante del nostro essere? Da qui, da queste domande, è iniziato quel sottile gioco di intrecci e interconnessioni tra il percorso in Darsi Pace e gli spunti di riflessione della sociologa statunitense, che ha intessuto una mappa dagli elementi assai interessanti e che spero avrò l’occasione di approfondire meglio.
Qui di seguito proverò ora ad accennare solo qualche breve considerazione.
Tra i tanti aspetti messi in luce dal testo, uno certamente molto interessante è la differenza che l’autrice sottolinea tra vulnerabilità e debolezza. Per introdurci alla differenza tra questi due concetti Brenè Brown parte dall’etimologia delle due parole, tratta dal Merriam-Webster Dictionary, e descrive la prima come “capacità di essere feriti” (capable of being wounded) e come “essere aperti agli attacchi e alle ferite” (open to attack or damage), mentre la seconda viene descritta come “l’incapacità di resistere agli attacchi o all’essere feriti” (the inability to withstand attack or wounding). Questo spunto mi sembra particolarmente illuminante e in relazione al nostro percorso. Come spesso accade infatti, ammirare un paesaggio da scorci differenti ci permette di coglierne ancor di più la bellezza.
Cos’è infatti la debolezza se non il tentativo di mettere in atto la “strategia difensiva”, o “resistenza”? È ciò che impariamo fin da piccoli quando con i nostri mezzi cerchiamo una modalità di resistere al dolore chiudendoci. Ma in fondo siamo incapaci di resistere, e quindi in questo senso deboli, perché è proprio la strategia difensiva in sé ad essere la falla, come vedremo tra poco.
Diverso invece è il concetto di vulnerabilità, che è al contrario la capacità di accogliere l’attacco e la ferita, il che presuppone però anche l’esposizione e il mettersi in gioco.
Ma come mai la strategia difensiva, ciò che in teoria dovrebbe difenderci, è invece una forma debolezza? Come diciamo spesso nei nostri gruppi: la difesa non mantiene mai ciò che promette. Noi ci illudiamo che chiudendoci saremo sicuri e al riparo, e quindi in un certo senso più felici, ma è proprio questa falsa promessa a dipingere la nostra esistenza con i toni grigi di una vita spesa male.
Molto interessanti in questo senso, e in linea con quanto appena detto, sono i risultati delle ricerche di Brenè Brown, che per dodici anni ha intervistato centinaia di donne e uomini di tutti i ceti e di tutte le età al fine di individuare quali atteggiamenti e comportamenti ci siano alla base della vulnerabilità, intesa in accezione positiva, e quali invece alla base della vergogna.
Detto brevemente, ciò che ci rinserra nella difesa è la paura o vergogna del “non essere abbastanza”, da lei definito con il concetto di “scarcity”: il non sentirsi mai all’altezza di…(da completare nelle più svariate maniere). Dalle ricerche emerge che questo “non sentirsi mai all’altezza di” (non abbastanza coraggiosi, non abbastanza belli e in forma, non abbastanza ricchi, non abbastanza colti, non abbastanza di successo ecc ecc) rappresenta uno dei blocchi emotivi più forti che nelle situazioni più diverse, dalle relazioni sociali al lavoro, ci mantiene in una situazione di stallo. E come se non bastasse è proprio questo atteggiamento di rinuncia e passività che, ripetuto nel tempo, contribuisce a sottolineare e a rinforzare il concetto di non “essere abbastanza”. In poche parole: se mai osiamo la convinzione di non esserne capaci si radica ancor più profondamente dentro di noi. Questo concetto di non “essere abbastanza”, fa parte di quei codici sbagliati, introiettati nel tempo, di cui parliamo fin dagli inizi del nostro percorso. È una di quelle paure profonde, sotto al quale si apre l’abisso di disperazione che osserviamo al secondo anno.
Trovo molto bello che una sociologa statunitense, impegnata da anni nella ricerca, sia giunta per altre vie a conclusioni simili. Ma l’aspetto più interessante penso stia proprio nelle modalità, non tanto nel risultato. Ed è qui l’originalità. Non si tratta infatti dell’ennesima ricerca universitaria della quale vengono diffusi i risultati. La sua ricerca sulla vulnerabilità e infatti iniziata prima di imparare ad essere vulnerabile, il che ha richiesto tutta una serie di prove e passaggi, e non viceversa. È stato solo in seguito a una seria crisi personale, vissuta nel profondo e attraversata, che è avvenuto il passaggio, per così dire, dall’oggetto di ricerca al soggetto che ricerca.
L’attitudine iniziale, come spesso accade, era stata quello di rapportarsi alla ricerca come a un “oggetto”, distaccato da sé, non attinente alla propria vita. Frequentemente in ambito universitario la disciplina insegnata viene spesso trattata come qualcosa di completamento avulso da sé. Essa in sostanza non interroga, non provoca e non parla più all’umano. Riportando qui le parole dell’autrice:
“per essere onesta, penso che l’accessibilità alle emozioni sia una questione davvero imbarazzante per ricercatori e accademici. Fin da subito nel nostro addestramento ci viene insegnato che una fredda distanza e inacessibilità contribuisca al prestigio, e se sei eccessivamente scoperto, questo mette in questione la tua credibilità”.
Ma se la vulnerabilità consiste davvero nell’osare e mettersi in gioco accettandone i rischi, come se ne potrebbe mai parlare in maniera credibile rimanendo sempre sulla soglia?
Ed è questo il passaggio tra rappresentazione e iniziazione. La via iniziatica è la via che trasforma il soggetto che la percorre, il quale mostrando un sentiero che lui per primo ha attraversato, diventa guida e maestro per altri.
Ma ritornando al nostro tema iniziale, se la vulnerabilità è quindi coltivare il coraggio, la compassione e la connessione (it means cultivating the courage, compassion, and connection…), e se nella maggior parte dei casi c’è, come abbiamo visto, una paura che blocca, una paura di essere visti nella nostra imperfezione, di essere giudicati, di non essere apprezzati, come riuscire a superare quella soglia?
In base alle ricerche condotte dalla nostra sociologa, le persone più vulnerabili, e quindi più coraggiose, compassionevoli e creative, sono quelle che si considerano “degne di valore” (worthiness) e cioè sono coloro che al di là delle critiche, al di là dei fallimenti e degli insuccessi, al di là di sentirsi “non abbastanza” in determinate situazioni, custodiscono nella loro profondità la convinzione di essere degni di amore (worthy of love) a prescindere dai risultati ottenuti, dal prestigio o dalla considerazione.
Non a caso, infatti, il nostro percorso in Darsi Pace culmina con il biennio “imparare ad amare”. È solo facendo esperienza di un amore incondizionato che possiamo riprogrammare quel codice errato, quella male-dizione (parola detta male) che ci vuole timidi, impauriti, bloccati nell’angolo per la paura che quel “non essere abbastanza” sia la discriminante sulla quale determinare il valore da attribuire alla nostra esistenza.
Per concludere, qualsiasi sia l’ambito in cui ci troviamo a vivere e a lavorare, qualsiasi siano le sfide che ci inquietano, sperimentare di essere comunque degni di un amore incondizionato, penso sia allo stesso tempo tanto la via della guarigione, quanto la risposta che possiamo provare ad offrire mettendoci in gioco.
Tutto tecnica, tutto mero fare, meri fatti, come se la vita non fosse un mistero. La società della ragione astratta svuota le persone e le rende preda del potere del più forte. Su queste scie si parla di fake news e non di fake spirits ossia di interpretazioni falsamente neutre ed oggettive. Allo stesso modo oggi esistono gli aggregatori di notizie, non gli aggregatori di voci e di temi. Luoghi di dibattito plurale dove chiunque possa intervenire e si cerchi di dare spazio ai diversi orientamenti. Oggi questo è davvero difficile da trovare, nell’informazione dei grandi numeri servono finanziatori e questi impongono una linea. E la linea alla fine diviene quasi ovunque quella dei più forti, della geopolitica e oggi, nel mondo dei media globali e della finanza, ancor più della crematopolitica, la politica dei ricchi. Bisogna cercare l’informazione dal basso, creare luoghi di incontro e di dialogo gestiti in modo gratuito o con spese facilmente sopportabili per non farsi fagocitare dal sistema.
https://gpcentofanti.altervista.org/il-sistema-e-lirresistibile-traboccare/
Ciao 🙂 grazie di cuore per avere scritto e condiviso questo articolo, è stato molto prezioso e significativo poterlo leggere per me, questa mattina
Quante volte capita di non sentirsi “abbastanza”…. a partire proprio dalla prima infanzia, di non essere abbastanza buoni, educati, generosi, capaci, studiosi, intelligenti, pronti, efficienti, attraenti….man mano che l’età cresce i limiti da raggiungere sono sempre più difficili e lontani, in ogni ambito, in ogni rapporto c’è sempre un giudice pronto a condannare “il proprio”! Fortuna che, durante il cammino, ci pensa Dio a darci un bel “ceffone” per farci capire che la strada che stiamo percorrendo non è quella giusta, e dobbiamo di conseguenza ricalcolare il percorso.
Grazie per questa tua condivisione, alla fine l’unica cosa da fare, senza troppe paranoie, è mettersi in gioco 🙂 .
Grazie, per queste riflessioni e questo contributo molto bello ed utile.
Anna Maria
Il tuo è per me davvero un bel post, una spinta di incoraggiamento per tutti! Brava e grazie. Continua e continuiamo insieme nelle nostre ricerche di liberazione, nel nostro cammino di guarigione, di risanamento che non finisce mai però costantemente dona Frutti preziosi e benefici inaspettati! Un abbraccio.
Bella presentazione e ottimo aggancio col nostro percorso, di certo un bel passo avanti rispetto ad un libro che lessi dieci anni fa”Il coraggio di essere stupidi” di Anna Zanardi.
Carissima Maila,
Stamattina nel leggere della tua scoperta di quel video di Brené Brown ho iniziato a sorridere, perché proprio quel video, alcuni anni fa, mi aiutò ad entrare più in contatto con la mia paura della vulnerabilità.
Inoltre io amo da molto tempo la sociologia, e ascoltare il vibrante discorso di questa ricercatrice mi toccò molto. Dunque era possibile studiare, argomentare e comunicare senza tutta quella distanza che rende tanti discorsi, anche importanti, così freddi e asettici. Così distanti in fondo da tutto l’universo femminile (che ovviamente appartiene a tutti, e non solo alle donne).
Quindi grazie per questa tua lettura in controluce con il lavoro di Darsi Pace, e soprattutto grazie per osato esporre la bellezza del tuo pensiero.
Un abbraccio!
Antonietta
Grazie, molto interessante e utile quello scrivi.
E’ proprio strano e contro-intuitivo.
Cercare di evitare una sofferenza: moltiplica il dolore.
Non resistere, accettare: dà sollievo.
Però per accettare, bisogna aver imparato ad amare.
Qualche tempo fa ho letto un articolo che mi sembra in parte correlato al tuo.
Descrive una indagine fatta con una quarantina di volontari ai quali, con una Risonanza magnetica, venivano controllate le varie aree cerebrali.
Mostrando loro una serie di foto spaventose si causava l’attivazione delle zone dell’ansia; ma se per prima veniva mostrata una foto che induceva un sentimento amorevole, (una coppia di innamorati, una madre col bambino) la serie di foto spaventose non provocava l’attivazione delle zone dell’ansia.
Quasi una dimostrazione sperimentale che: “Dove c’è amore, non c’è timore”
Un caro saluto
Oggi mi serviva proprio leggere queste parole, ringrazio te e lo Spirito che te le ha suggerite
Si parla di sinodalità epperò anche di scarsa sua attuazione. I motivi sono molti, i Gruppi Darsi pace sono semi di risposta profonde anche a tali problematiche. https://gpcentofanti.altervista.org/sinodalita-ma-solo-teorica-perche/
Cari amici,
ringrazio ognuno di voi di cuore per aver letto l’articolo e per aver scritto le vostre risonanze. E’ confortante saper che è potuto essere di aiuto a qualcuno. Sono infatti profondamente convinta, e lo sperimento praticamente ogni giorno, che la connessione tra le persone, non necessariamente fisica, ma anche e soprattutto spirituale, sia forse tra gli strumenti più potenti che abbiamo per fronteggiare momenti duri come questo che stiamo attraversando. Penso infatti che le sfide che ci aspettano siano di tale portata da poter essere sostenute da un’umanità sempre più unita e coesa. Riscalda il cuore sentire la vostra amicizia.
Un caro saluto a tutti
Maila
Cara Maila,
con questo post tocchi un tema che mi sta a cuore e risuona forte nel mio corpo di donna: osare, mettersi in gioco.
Penso di averlo sempre fatto, per quanto mi è stato possibile, perché il disagio profondo che percepivo e che a lungo mi tornava come un “essere sbagliata” era troppo ed io non riuscivo a contenerlo. E non trovavo luoghi nei quali poterlo esprimere per accoglierlo, guardarlo e comprenderlo senza giudicarlo.
Un malessere apparentemente senza motivi oggettivi che lo spiegassero, un disagio che non trovava ascolto non solo dentro casa, ma dentro un sistema culturale, sociale e politico sordo, ora lo capisco, che continua a non volerlo ascoltare.
Come donna sto continuando a lottare per essere libera; oggi diversamente dal passato, vedo meglio gli ostacoli, le resistenze, non solo personali anche culturali, che frenano la realizzazione del desiderio cui anelo.
“Come riuscire a osare di più in un modo che sia però in linea con le mie corde, con la mia personalità, che non sia in fondo troppo violento, che non sia l’ennesima forzatura autoimposta e che non sia soprattutto preso a prestito e copiato da altri” dici tu, cara Maila.
Con il coraggio femminile di superare la soglia, dico ora io, grazie al lavoro interiore nel laboratorio Darsi pace.
Il coraggio di spostarci nella dimensione spirituale dell’Essere senza negare la differenza di genere.
Ritornando alle profondità spirituali dell’Io e riscoprendo l’intimo e vero desiderio che ci anima, femmine e maschi.
Imparare ad amare è l’ultima tappa del cammino trasformativo dove sperimentiamo di essere relazione, sentiamo che l’io respira nel tu.
Questo ci rianima e ci dà il coraggio di osare, di esporci un pò di più, di stare nel mondo senza esserne imprigionati.
Ti abbraccio, Giuliana
Ciao Maila,
grazie per questo tuo post. Io sono solo all’inizio del percorso di Darsi Pace eppure le tue parole, che forse un anno fa mi sarebbero suonate difficili o molto “specialistiche”, oggi mi risuonano molto forti. Forse perché anche solo iniziare a cercare quei codici errati e quelle parole male-dette di cui parli già ci cambia. Magari impercettibilmente, però concretamente. È proprio questo che mi conquista ogni giorno di più: questo non restare sulla soglia, come dici tu, ma provare a fare un lavoro concreto di trasformazione. Magari sbagliando, ricominciando, a volte anche soffrendo. Però quanta luce!
Un caro saluto,
Francesco
Grazie Maila per questa riflessione perché è ciò che io sperimento ogni giorno quando mi siedo per la mia meditazione che pratico da 3 anni, cioè da quando ho deciso di iscrivermi ai gruppi Darsi Pace.
Un saluto
Salvatore
Cari Giuliana, Francesco e Salvatore,
grazie per aver condiviso la vostra esperienza in risonanza all’articolo. In tutti voi, sia che pratichiate da lunghi anni, sia che siate all’inizio, sento forte questo desiderio di liberazione e trasformazione. Davvero mi scalda il cuore leggere delle vostre difficoltà e della volontà di procedere, nonostante tutto. E riusciamo a procedere perché la luce c’è e si intravede, come dice Francesco, e perché quando riusciamo davvero ad entrare in relazione con queste dimensioni sentiamo “il nostro io respirare nel tu”, come dice Giuliana. Questo ci da il coraggio di osare, perché man mano che procediamo l’energia sprigionata dalle aree liberate riesce a rompere le resistenze. E’ vero Salvatore, questa costanza quotidiana è ciò che tiene le fila, è il presupposto imprescindibile del lavoro. Le resistenze sono tante e se non attingiamo ogni giorno da fonti più profonde si demorde in fretta.
Un caro saluto a tutti e grazie
Maila
Grazie cara Maila,
quello che scrivi è veramente importante per me, tocca una zona di lavoro fondamentale, per affrancarmi piano piano da tutti i pensieri errati che fin da piccolo mi dicono che “non sono abbastanza”, che devo fare di più, sono palesemente inadeguato. Soprattutto, che non sono stato abbastanza bravo/diligente/capace da evitare la crisi coniugale di mamma e papà, tutte le sofferenze che da questa sono venute.
Così ancora adesso, nello “stato ordinario”, mi rinserro e mi figuro un mondo esterno in affannoso attacco, un attacco universale globale retto dalla esigenza di mettere finalmente in luce davanti a tutti che “non sono abbastanza”, da svelare l’inganno. Ecco perché mi risuonano molto, le tue parole.
Questo scenario che fino a poco tempo fa mi celavo, già si inizia un po’ a sciogliere riconoscendolo, guardandolo con calma, con pacatezza. Sono già in cammino, e un cammino come Darsi Pace aiuta e certamente mette nella giusta posizione, per iniziare a trattare con i propri drammi, con le proprie ferite.
Mi piace la rete di correlazioni che hai fatto con la ricerca di Brenè Brown, perché mi mostra assai bene quel che confusamente avevo intuito, che nella solidità di un percorso serio si possono articolare le più estese connessioni, e “tutto diventa un avvenimento nel suo ambito”, per citare Romano Guardini. Vagando nel buio ci sentiamo soli, percorrendo una strada troviamo tanti amici che fanno dei passi con noi.
Un grande abbraccio!
Caro Marco,
sciogliere, riconoscere, guardare con calma: già di per sé sono parole che ci riconciliano con noi stessi. Io trovo personalmente molto consolante che per agire nel mondo non serve passare dal lato opposto, ovvero sentirci “dei gran fighi” passami il termine. E’ proprio questo che spesso ci blocca, questa immagine ideale che ci tormenta e che ci fa dire “ok se non sono così e così e così meglio scomparire”. No, noi possiamo certamente continuare con umiltà a lavorare su noi stessi, senza per questo rinunciare a muovere dei passi in direzione della vita; anche quando sentiamo quel brivido dietro la schiena di una situazione differente, più rischiosa se vogliamo, ma importante da affrontare per noi e per la nostra crescita. Possiamo cambiare pensiero e dirci che intanto possiamo metterci in cammino con quello che abbiamo, che è sempre meglio che stare immobili ad aspettare l’equipaggiamento top di gamma ;-). Penso l’equilibrio sia qui: continuare con pazienza a lavorare su di sé e nello stesso tempo osare mettendo in gioco quello che già c’è. Marco Guzzi ha chiarito molto bene questo concetto quando ha spiegato la “falsa umiltà”…quella che ci fa dire “noooo ma io non sono all’altezza, nooo ma io non sono capace…”. La vera umiltà consiste invece nel dire “ok quello che ho sarà tanto o sarà poco non importa, ma io ce lo metto tutto”. Ecco, questo passaggio penso sia stato davvero illuminante per me, per farmi spostare dalla falsa umiltà. Quindi coraggio, continuiamo con pazienza e perseveranza questa ricerca…come dici tu le connessioni sono tante e abbiamo tanti amici che ci accompagnano.
Un caro saluto
Maila
Ciao Mailia,
Ottimo articolo! Mi sono riconosciuta molto in alcuni passaggi. E’ vero che Darsi Pace porta a sperimentare azioni nuove, un po’ più libere, nell’accoglienza della propria vulnerabilità come qui definita.
Il tuo pezzo mi ha fatto ripensare a un testo che ho letto qualche mese fa, ‘Vulnerability in Resistance’ (Judith Butler et al.), che analizza il ruolo della vulnerabilità nelle pratiche di resistenza politica e sociale. Te lo consiglio se ti interessa l’argomento. In quel testo, le definizioni convenzionali di questi due concetti, vulnerabilità e resistenza, vengono continuamente messe in discussione e riconfigurate in modo inedito. C’è un capitolo che mi è rimasto particolarmente impresso: scritto da Sarah Bracke, illustra il modo in cui la resilienza sia entrata a far parte del “codice morale” neoliberista di oggi. Il bravo soggetto neoliberista deve essere resiliente, resistere a qualunque cosa le politiche di austerità impongano, che si tratti di tagli allo stipendio, della perdita del lavoro o del congelamento dei sussidi. Nessun cataclisma deve scalfire il bravo soggetto neoliberista, che deve essere sempre pronto a riprendersi “reiventandosi”. Questo codice morale imposto al soggetto è chiaramente intriso di violenza e invita alla violenza, perché implica che non importa quante batoste il soggetto neoliberista prenda, se lui è uno di quelli bravi può sempre prenderne di più. Quindi, essere resilienti, nel modo in cui questo concetto viene appropriato dal neoliberalismo, mina totalmente ogni capacità di trasformazione dei rapporti sociali. Bracke propone, al contrario, di abbracciare una politica della vulnerabilità, in cui il soggetto colpito, non obbedendo al codice della “resilienza”, denuncia la violenza inflittagli e l’insopportabilità della precarietà imposta.
Grazie a Darsi Pace, ho visto questo “codice morale” agire in me, tutte le volte che mi sono accorta di fare finta che tutto andasse tutto bene. Il percorso del primo anno mi ha portata a denunciare questa falsità, questo codice inutile e dannoso, che nega la verità dell’esperienza. Proprio il riconoscimento delle mie ferite, e l’accettazione amorevole della mia vulnerabilità, mi ha permesso di iniziare a lasciarmi andare e provare con curiosità a fare cose nuove, senza la pretesa di essere “brava” come il disgraziato soggetto neoliberista di cui sopra.
A questo proposito, una bella domanda sarebbe: quanti codici neoliberisti ho dentro? Lo appunto come possibile tema futuro per il mio percorso di scoperta interiore: scoprire quanta economia mi è penetrata nella carne.
Un abbraccio,
Romi
Grazie Maila per il post molto risonante e per gli interventi tutti interessanti che aiutano a vedere ed apprezzare la pluralità dei punti di vista e delle esperienze che diventano una aperta e inclusiva “scuola di prossimità”.
In questi tempi di distanziamento sociale sono ancora più propulsivi per osare mettersi in gioco alla grande per un cambiamento interiore più profondo e pacificato!
Grazie, grazie.
Giuseppina
Ciao Maila,
anche io mi unisco al coro degli applausi autentici e sinceri degli amici che mi hanno preceduto. Sono ammirato per la limpidezza della tua scrittura che mi raggiunge e mi commuove.
Faccio il tifo per te, giovane e “bella” donna che vuole crescere… Che lo fai esponendoti in questo modo tanto onesto, sincero e competente che aiuta anche me, anche noi che ti ascoltiamo empaticamente…
GRAZIE
Cari amici,
grazie per queste vostre risonanze.
Romi, mi ritrovo molto in quello che dici e grazie per i tuoi spunti. Anche io patisco molto questa flessibilità estrema che ci viene richiesta, che è il codice imperante del mondo del lavoro di oggi. E’ davvero difficile capire quanto bisogna adattarsi e quanto invece adattarsi diventa nocivo, per se stessi e per gli altri! molto interessante l’ultima domanda che poni e che fa riflettere anche me. E’ proprio vero che anche i codici economici , così come quelli familiari, ci entrano nella carne e ci trasformano! Fortunatamente siamo in un laboratorio dove tutto può essere materia di lavoro!
Cara giuseppina,
questo periodo di distanziamento sta mettendo seriamente alla prova tutti noi. Personalmente sto cercando di viverlo in un modo propulsivo, come dici tu, e mi fa molto piacere in questo senso usare la scrittura come strumento di vicinanza con voi tutti.
Grazie caro Walter,
mi consola molto quello che dici e lo accolgo con gratitudine. Sappiamo bene infatti dal nostro percorso che la crescita, vista nell’ottica della morte dell’ego, non è mai indolore. Eppure anche rifiutarla ha un costo molto alto…D’altronde la tensione e il conflitto, presenti in ogni ambito su questo mondo, si superano solo riattraversandoli di continuo e facendo della nostra interiorità uno spazio sempre più propizio per accoglierli e a lavorarli.
Un caro saluto a tutti
Maila
Grazie cara Maila per la tua risposta, piena di lieta ragionevolezza. Quanto è vero, non bisogna essere dei “gran fighi” per rischiarsi nel muovere dei passi in direzione della vita, basta procedere umilmente, lasciando fluire via quella voce che dice “se non sei al massimo, lascia perdere, nasconditi, scompari”. Che grande insegnamento è questo! Riandare verso quella “vera umiltà” che a pensarci bene, è estremamente liberante.
Ricordo con affetto un episodio, durante un incontro dei gruppi culturali, in cui – forse un po’ “spaventato” dall’impresa – avevo posto l’accento più sul percorso di “guarigione” che dovevo fare, mettendo l’impegno nel gruppo AltraScienza come a valle di questo… Marco in maniera delicata ma precisa mi ha “corretto” facendomi notare che le cose potevano andare benissimo insieme. Strano, uno scambio di battute molto conciso, ma lo ricordo bene a distanza di anni…
Mi fa bene tornare a questi pensieri, alla tua risposta: la tensione a “dover essere” si scioglie, entra un po’ di luce…
Grazie!